All My Loving
THE BEATLES
Era uno di quei giorni che se hai pensato di suicidarti, decidi di rimandare. Uno di quelli in cui la vita sembra un’esperienza ancora possibile.
Sole. Cielo a tutto schermo. Umidità zero. Nessuna nuvola in vista. Un filo di vento. I pensieri non riuscivano ad ancorarsi alla realtà. Si rifugiavano nel passato o rincorrevano il futuro, perché un cielo così sa conciliare i ricordi e i sogni meglio di una canzone. Più di un Caravaggio o un film di Lars von Trier.
Era però anche l’ultima domenica di agosto, quella. E l’Italia tutta, o quasi, si muoveva per rimettersi al lavoro. I telegiornali lo ripetono da anni, trasmettendo sempre lo stesso servizio in cui cambia solo la voce dello speaker.
La stazione di Pisa era vistosamente in imbarazzo. In cambio del paradiso climatico esterno, poteva offrire soltanto una bolgia infernale dei gironi più bassi.
I treni sembravano esplodere da un momento all’altro. Tutti volevano salire. La torre storta non interessava più a nessuno. O almeno, a nessuno dei passeggeri al rientro da quelle vacanze.
Malgrado la sua flemma, o forse grazie alla sua flemma, Rocco riuscì a imbarcarsi prima di molti altri. Direzione Nord. Mai come in quel momento avrebbe desiderato un raffreddore. Gli scompartimenti maròn davano il benvenuto ai passeggeri con un mix di odori terribile: peperonate, ascelle pezzate, panini al tonno e banane morte di caldo. D’improvviso, l’apparizione. Un posto libero.
– È occupato?
– Prego.
Un ragazzo e una ragazza – una coppia, visto il modo in cui stavano seduti, o due amanti – risposero all’unisono, sospinti da anni di buona educazione. Fecero sparire riviste, lattine, un vecchio walkman, scatole vuote di biscotti al cioccolato, tracce di burro, briciole. Rocco ringraziò, esausto. Ce l’aveva fatta. Si guardò intorno compiaciuto, ma incontrò solo lo sguardo della sua vicina cinquantenne, occhiali fumé e tanta cipria, un po’ seccata per aver dovuto interrompere la conversazione con le due para-cognate che le sedevano di fronte.
– Dicevamo? Sì, la più piccola fa la ragioneria. È sempre stata brava con la calcolatrice, fin da bambina. Uguale al padre.
– Come la mia, come la mia. Solo che noi l’abbiamo iscritta al liceo. Scientifico. È la più brava della classe: tutti otto e nove, otto e nove.
– Ma li danno ancora i voti con i numeri?
– Certo, signora. Vede, è un liceo privato... E l’altro suo figlio cosa fa?
– Vive con mia nuora a Monaco, in Germania. Hanno aperto un ristorante che fa la pizza al tegamino, che ai tedeschi gli piace.
– Ha già dei nipotini?
– No, per ora non sono arrivati.
Rocco sollevò lo sguardo dei suoi occhi vivaci, due fanali accesi, incapaci di stare fermi e inerti di fronte alla realtà, qualunque realtà. Per farsi compagnia, cominciò ad ascoltare quei racconti di casalinghe. Che dopo essersi contate settecentocinquanta chilometri di generi, figlie, cognati e nipoti erano finalmente arrivate a riabbracciare la loro progenie di talenti.
– Arrivederci, signori, e tante belle cose a tutti.
Un sospiro di sollievo investì tutto lo scompartimento. Alla lunga, anche Rocco si era stancato di ascoltare. Guardò gli altri due ragazzi, gli occhi di nuovo accesi. Stettero tutti e tre un attimo in silenzio, poi scoppiarono a ridere.
– Ma quanto cazzo parlavano?
– E tu sei salito solo a Pisa. Queste ce le siamo trovate già a Roma. Ah, io sono Viola.
– Rocco, piacere.
– E lui è Daniele.
– Ciao. Siete stati a Roma?
– Solo di passaggio. Arriviamo da Los Angeles.
– Los Angeleees?
– Sì, siamo tornati prima del previsto e abbiamo trovato solo un volo su Roma. E tu da dove vieni?
– Da un matrimonio in Toscana.
– Dove?
– Hai presente Siena?
– Sì.
– Ecco, lì vicino. Arezzo.
– Quindi non a Siena.
– No. Solo che tutti conoscono di più Siena.
– Vabbè, io mica ti ho detto San Francisco per farti sapere che sono stata a Los Angeles.
– Ci mancherebbe.
Viola si stiracchiò per dare sollievo alle sue gambe indolenzite dai tacchi, tacchi alti, impensabili per un viaggio. Aveva una gran voglia di allungare i piedi sul sedile che le si era liberato davanti ma resistette, ligia.
– Come hai detto che ti chiami?
– Rocco.
– Come il figlio di Madonna.
– No. Come mio nonno.
– Dài, non fare quella faccia. Non sei mica l’unico, sai?
Pausa
– Anche tua nonna si chiama Viola?
– Mia nonna si chiamava Gertrude. Come la monaca di Monza. Un nome che se vuoi proseguire la tradizione la interrompi subito. Ma per Rocco è diverso.
– In che senso?
– Perché è un nome brutto ma che ha qualcosa di bello, non so se mi spiego.
– No.
– Voglio dire, preferisco conoscere uno che si chiama Rocco piuttosto che Alberto.
– Mi stai dicendo che anche Gertrude è un bel nome?
– No. Una bambina che si chiama Gertrude crescerà sicuramente complessata, grassa e piena di cellulite.
Rocco si sforzò di capire, ma nemmeno più di tanto. Era la prima volta che qualcuno prendeva le difese del suo nome, quindi meglio non indagare. Cominciò a perdersi con lo sguardo. Vide un piccolo neo vicino all’orecchio di Viola. Un neo liscio, capriccio degli dèi, un neo che sarebbe passato inosservato ai più. Lo guardò – i fanali puntati – fino quasi a studiarlo. Ci vide una goccia di cioccolato piovuta dall’alto, le briciole dei biscotti sparse in tutto lo scompartimento. Ci vide un desiderio, stella cadente, chissà se era felice e dove stava andando questa passeggera sconosciuta dai tacchi alti, tacchi non da viaggio. I sussulti del treno lo riportavano periodicamente alla realtà del suo ritorno.
Daniele intanto dormiva. Era crollato subito dopo le presentazioni. La bocca continuava a sorridere, ma gli occhi non guardavano più. Nelle sue orecchie, le voci erano diventate una ninnananna con cui dimenticare il fuso orario. La sua ragazza aveva finalmente trovato la conversazione che cercava da quando erano saliti sul treno. Dopo ore di risposte a monosillabi, si era arresa a due scatole di Chocolate Cookies comprate al duty free. Aveva poi anche lei tenuto la mente occupata ascoltando i discorsi altrui, chiacchiere rubate per ammazzare il tempo. Adesso era giunto il suo turno: un ragazzo simpatico – forse un po’ troppe lentiggini, altrimenti non avrebbe esitato a definirlo un bel ragazzo – le faceva da spalla senza che al suo compagno potesse dare fastidio. Un compagno che non era mai stato geloso e che per questo li lasciò dire, mentre la testa gli dondolava da una parte all’altra come una bilancia insicura.
– Segno zodiacale?
– Sagittario.
– Ascendente?
– Ignoto.
– Se vuoi ti faccio il calcolo io. Sono bravissima.
– Impossibile.
Viola si tirò su le maniche della camicia, anche se non aveva caldo.
– Niente è impossibile per un’abbonata ad “Astra”.
Rocco fece invasione di campo e la toccò – la sfiorò – con un dito. Ma ci provò soltanto.
– Vuoi vedere che è impossibile? Devi sapere che quando sono nato il parto è stato più laborioso del solito. A mia madre l’ostetrica le è pure salita sopra, per aiutarla a spingere. Poi mi hanno estratto con una ventosa.
– Sì, ma che c’entra l’ascendente?
– C’entra. Perché quando sono nato, per colpa di questo casino con la ventosa, hanno guardato l’ora senza fare troppa attenzione. Erano le tre e quindici esatte di notte. Peccato che dopo mezz’ora fossero ancora le tre e quindici. Capisci? La sala parto aveva l’orologio fermo. Quindi non posso conoscere il mio ascendente.
– Che sfiga. Ci hai mai provato a fare un calcolo indicativo?
– Sì. Facendo le tre e venti viene fuori Leone.
– Mmm... fuoco.
– Alle tre e mezzo Toro.
– Bleee, terra. Secondo me sei Leone. Hai proprio la faccia.
– Vero? Anche secondo me.
Viola e Rocco cominciarono così una chiacchierata che li avrebbe tenuti occupati fino alla fine del viaggio. Lei si toccava continuamente i capelli – capelli lisci e abbastanza lunghi, mori, capelli di bambina – lui si perdeva dietro il suo neo, chissà se è felice, chissà dove starà andando. In apparenza, dissero le stesse identiche cose delle tre para-cognate tanto derise prima. Solo che lo fecero senza sbagliare un congiuntivo. O quasi.
– E così anche tu hai fatto Lettere... E l’hai dato Retorica generale?
– Tre volte. Mi ci sono anche laureato.
– Su cosa l’hai fatta la tesi?
– La retorica nel cinema. I luoghi comuni nei film d’amore.
Viola guardò Rocco un po’ schifata, certo che ne ha di lentiggini, dio mio quante.
– Sarebbe?
– Ho analizzato i cliché e le figure retoriche più ricorrenti nei film di questo genere, da Love Story ai giorni nostri.
– E hai sentito il bisogno di farne una tesi?
– Non dovevo?
– È strano per un ragazzo. Vuoi un biscotto?
– Grazie. In effetti, la tesi non era mia.
Viola alzò decisamente il tono di voce, ma non spostò la mano dai capelli.
– L’HAI COPIATA? Sto parlando con uno di quelli che copiano le tesi?
– Sì, ma mica l’ho fatto apposta. Una ragazza inglese che avevo conosciuto un paio di anni fa mi ha spedito la sua per sapere cosa ne pensassi...
– ... E tu hai pensato di copiarla. Che tristezza. Quindi di tuo non ci hai messo niente.
Le quotazioni di Rocco erano in caduta libera, e adesso cosa le dico, dio...