Padre Ángel si sollevò con uno sforzo solenne. Si stropicciò le palpebre con le ossa delle mani, scostò la zanzariera di tulle e restò seduto sulla stuoia spelacchiata, assorto per un attimo, il tempo indispensabile per rendersi conto di essere vivo e per ricordare la data e il suo riscontro nel martirologio. “Martedì quattro ottobre” pensò; e disse a voce bassa: «San Francesco d’Assisi».
Si vestì senza lavarsi e senza pregare. Era grande, sanguigno, aveva una pacifica figura di bue mansueto, e si muoveva come un bue, con gesti densi e tristi. Dopo aver corretto l’abbottonatura della tonaca con la solerzia languida di dita che controllano l’accordatura di un’arpa, fece scorrere il paletto e aprì la porta del patio. I nardi sotto la pioggia gli fecero ricordare le parole di una canzone.
«“Il mar crescerà con le mie lacrime”» sospirò.
La stanza da letto comunicava con la chiesa mediante un porticato interno bordato di vasi di fiori e rincalzato con mattoni liberi; negli interstizi cominciava a spuntare l’erba d’ottobre. Prima di avviarsi in chiesa, padre Ángel entrò nel gabinetto. Orinò abbondantemente, trattenendo il respiro per non sentire l’intenso odore ammoniacale che gli spremeva le lacrime. Poi uscì nel porticato, rammentando: “Mi porterà la barca nei tuoi sogni”. Sulla stretta porticina della chiesa sentì per l’ultima volta il vapore dei nardi.
Dentro c’era cattivo odore. Era una navata lunga, pure rincalzata con mattoni liberi, e con una porta sola sulla piazza. Padre Ángel entrò direttamente nella base del campanile. Vide i pesi dell’orologio a più di un metro sulla sua testa e pensò che c’era corda ancora per una settimana. Le zanzare lo aggredirono. Ne schiacciò una sulla nuca con una manata violenta, e si ripulì la mano sulla corda della campana. Poi sentì, in alto, il rumore viscerale del complicato ingranaggio meccanico, e subito dopo – sordi, profondi – i cinque rintocchi delle cinque dentro il ventre.
Aspettò che l’ultima risonanza svanisse. Allora afferrò la corda con le mani, se l’arrotolò ai polsi e fece suonare i bronzi rotti con una convinzione perentoria. Aveva compiuto 61 anni. L’esercizio delle campane era troppo violento per la sua età, ma aveva sempre suonato messa di persona, e quello sforzo gli riconfortava lo spirito.
Trinidad spinse la porta di strada mentre le campane suonavano, e si diresse verso l’angolo dove la sera prima aveva preparato le trappole per i topi. Trovò qualcosa che le cagionò nello stesso tempo ripugnanza e piacere: un piccolo massacro.
Aprì la prima trappola, afferrò il topo per la coda con l’indice e il pollice, e lo buttò in una scatola di cartone. Padre Ángel finì di aprire la porta sulla piazza.
«Buongiorno, padre» disse Trinidad.
Lui non avvertì la sua bella voce baritonale. La piazza desolata, i mandorli addormentati sotto la pioggia, il paese immobile nell’inconsolabile albeggiare d’ottobre gli provocarono un senso di abbandono. Ma quando si fu abituato al rumore della pioggia intese, in fondo alla piazza, nitido e un po’ irreale, il clarinetto di Pastor. Soltanto allora rispose al buongiorno.
«Pastor non era con quelli della serenata» disse.
«No» confermò Trinidad. Si avvicinò con la scatola di topi morti. «Era di chitarre.»
«Hanno continuato per un paio d’ore con una canzone scema» disse il prete. «“Il mar crescerà con le mie lacrime.” Non fa così?»
«È la nuova canzone di Pastor» disse la donna.
Immobile davanti alla porta, il prete era preda di un’affascinazione istantanea. Per molti anni aveva sentito il clarinetto di Pastor, che a due isolati da lì si sedeva a provare, tutti i giorni alle cinque, tenendo lo sgabello inclinato contro il sostegno della sua colombaia. Era il meccanismo del paese che funzionava a perfezione; per prima cosa, i cinque rintocchi delle cinque; poi, il primo tocco della messa, e poi il clarinetto di Pastor, nel patio della sua casa, che purificava con note diafane e articolate l’aria satura di porcheria di colombi.
«La musica è buona,» reagì il prete «ma le parole sono sceme. Le parole si possono rovesciare a diritto e a rovescio ed è sempre la stessa cosa: “Mi porteranno i sogni nella barca”.»
Si girò, sorridendo per la sua trovata, e andò ad accendere l’altare. Trinidad lo seguì. Indossava una vestaglia bianca e lunga, con le maniche fino ai polsi, e la fascia di seta azzurra di una congregazione laica. Aveva gli occhi di un nero intenso sotto il nastro ininterrotto delle sopracciglia.
«Sono rimasti qui attorno per tutta la notte» disse il prete.
«Da Margot Ramírez» disse Trinidad, distratta, facendo risonare i topi morti nella scatola. «Ma stanotte c’è stato qualcosa di meglio della serenata.»
Il prete si fermò e le puntò addosso gli occhi di un azzurro silenzioso.
«Che cosa?»
«Pasquinate» disse Trinidad. E si lasciò scappare una risatina nervosa.
Tre case più in là, César Montero stava sognando gli elefanti. Li aveva visti la domenica precedente al cinema. La pioggia era scrosciata mezz’ora prima della fine, e adesso il film continuava nel sogno.
César Montero spostò tutto il peso del proprio corpo monumentale contro la parete, mentre gli indigeni impauriti sfuggivano alla frotta degli elefanti. Sua moglie lo spinse leggermente, ma nessuno dei due si svegliò. «Ce ne andiamo» mormorò lui, e tornò nella posizione iniziale. Allora si svegliò. In quel momento suonava il secondo tocco della messa.
Era una stanza con grandi aperture protette da rete metallica. La finestra sulla piazza, pure riparata dalla rete metallica, era ornata da una tenda di cretonne a fiori gialli. Sul comodino c’era una radio portatile, una lampada e un orologio col quadrante luminoso. Dall’altra parte, contro il muro, un enorme armadio con porte a specchio. Mentre s’infilava gli stivaletti da cavallo, César Montero cominciò a sentire il clarinetto di Pastor. Le stringhe di cuoio grezzo erano indurite dal fango. Le stirò con forza facendole passare tra le mani chiuse, più scabrose del cuoio delle stringhe. Poi cercò gli speroni, ma non li trovò sotto il letto. Continuò a vestirsi nella penombra, cercando di non fare rumore per non svegliare sua moglie. Intanto che si abbottonava la camicia guardò l’ora sull’orologio del comodino e tornò a cercare gli speroni sotto il letto. Prima li cercò con le mani. Progressivamente si mise carponi e cominciò a esplorare sotto il letto. Sua moglie si svegliò.
«Che cosa cerchi?»
«Gli speroni.»
«Sono appesi dietro l’armadio» disse la donna. «Li hai messi lì tu stesso sabato scorso.»
Scostò la zanzariera e accese la luce. César si alzò, vergognoso. Era monumentale, con spalle quadrate e solide, ma i suoi movimenti erano elastici anche con gli stivaletti infilati, con suole che sembravano due assicelle di legno. Aveva una salute un po’ bastarda. Sembrava d’età indefinita, ma dalla pelle del collo si notava che aveva passato i cinquant’anni. Si sedette sul letto per mettersi gli speroni.
«Sta ancora piovendo» disse la donna, sentendo che le sue ossa adolescenti avevano assorbito l’umidità della notte. «Mi sento come una spugna.»
Piccola, ossuta, col naso lungo e a punta, aveva la dote di non sembrare mai appena svegliata. Cercò di vedere la pioggia attraverso la tenda. César Montero finì di sistemarsi gli speroni, si alzò in piedi e batté i tacchi per terra parecchie volte. La casa vibrò con gli speroni di rame.
«La tigre ingrassa in ottobre» disse.
Ma sua moglie non lo sentì, estasiata nella melodia di Pastor. Quando tornò a guardarlo stava pettinandosi davanti all’armadio, con le gambe divaricate e la testa piegata, perché non ci stava negli specchi.
La donna continuava a bassa voce la melodia di Pastor.
«Hanno rastrellato quella canzone per tutta la notte» disse l’uomo.
«È molto bella» disse lei.
Slacciò un nastro dal capezzale del letto, si raccolse i capelli sulla nuca e sospirò, completamente sveglia. «E resterò nel sogno fino a morte.» Lui non le badò. Aprì un cassetto dell’armadio dove c’era anche qualche gioiello, un orologino da donna e una penna stilografica, e prese un portafoglio con del denaro. Ne tolse quattro banconote e ripose il portafoglio nello stesso posto. Poi si mise nel taschino della camicia sei cartucce da fucile.
«Se la pioggia continua, sabato non vengo» disse.
Quando aprì la porta del patio, si fermò un attimo sulla soglia, respirando l’oscuro odore d’ottobre mentre i suoi occhi si abituavano all’oscurità. Stava per chiudere la porta quando nella stanza suonò il campanello della sveglia.
Sua moglie balzò dal letto. L’uomo indugiò, con la mano sulla maniglia, fino a quando lei interruppe la suoneria. Allora la guardò per la prima volta, pensieroso.
«Stanotte ho sognato gli elefanti» disse.
Poi chiuse la porta e andò a sellare la mula.
La pioggia s’infittì prima del terzo tocco. Un vento basso strappò ai mandorli della piazza le ultime foglie fradice. L’illuminazione pubblica si spense ma le case rimanevano ancora chiuse. César Montero infilò la mula nella cucina e senza smontare gridò a sua moglie di portargli l’impermeabile. Si tolse di dosso il fucile a due canne che portava a bandoliera e lo legò, orizzontale, con le cinghie della sella. Sua moglie comparve in cucina con l’impermeabile.
«Aspetta che spiova» gli disse senza convinzione.
Lui indossò l’impermeabile in silenzio. Poi guardò verso il patio.
«Non spioverà fino a dicembre.»
La donna lo accompagnò con lo sguardo fino all’altra estremità del portico. La pioggia cadeva a dirotto sulle lastre rugginose del tetto, ma lui se ne andava. Spronò la mula, e fu costretto a inarcarsi sulla sella per non urtare contro l’architrave della porta prima di uscire nel patio. Le gocce della gronda crepitarono come pallettoni sulle sue spalle. Dal portone, gridò senza girare la testa:
«A sabato.»
«A sabato» disse la donna.
L’unica porta aperta sulla piazza era quella della chiesa. César Montero guardò in alto e vide il cielo spesso e basso, a due spanne dalla testa. Si fece il segno della croce, spronò la mula e la fece girare parecchie volte sulle zampe posteriori, finché l’animale non si fu rinsaldato sul suolo saponoso. Fu allora che vide il foglio di carta appiccicato alla porta della sua casa.
Lo lesse senza smontare. L’acqua aveva sciolto il colore, ma il testo scritto a pennello, con caratteri rozzi in ...