
- 320 pagine
- Italian
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- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
La linea d'ombra (Mondadori)
Informazioni su questo libro
Un ufficiale di marina al suo primo comando, prigioniero di una bonaccia che costringe la nave all'immobilità assoluta, si deve confrontare con la sofferenza, la follia e le insondabili forze della natura, sperimentando tutte le miserie e le grandezze della condizione umana. Un racconto ricco di pathos e di mistero, quasi una metafora dell'esistenza umana.
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Informazioni
Print ISBN
9788804533696eBook ISBN
9788852011122La linea d’ombra
Una confessione
«Degni del mio imperituro ricordo»
… D’autres fois, calme plat, grand miroir
De mon désespoir
BAUDELAIRE
Nota dell’autore
Questo racconto, che nella sua brevità è, come sono pronto a riconoscere, un’opera complessa, non voleva toccare il mondo dei fatti preternaturali. Tuttavia, più di un critico si è mostrato incline a interpretarlo in tal senso, scorgendovi un tentativo da parte mia di dare liberissimo campo alla mia immaginazione facendole varcare i confini del mondo dell’umanità che vive e che soffre. Ma, a dirla tutta, la mia immaginazione non è costituita da un materiale tanto elastico. Credo che se cercassi di tenderla fino al mondo dei fatti preternaturali fallirebbe miseramente e mostrerebbe uno sgradevole strappo. Ma io non avrei mai potuto fare un tentativo simile, poiché l’intero mio essere, intellettuale e morale, è penetrato dall’invincibile convinzione che tutto quanto cade sotto il dominio dei nostri sensi deve appartenere alla natura, e, per quanto eccezionale, non può, nella propria essenza, essere diverso da ogni altro effetto del mondo visibile e tangibile di cui siamo parte senziente. Il mondo dei vivi, quale è, non è certo privo di meraviglie e misteri; meraviglie e misteri che influenzano le nostre emozioni e la nostra intelligenza in modi così inspiegabili da giustificare quasi il concetto della vita come di una condizione incantata. No, sono troppo saldo nella mia consapevolezza del meraviglioso per essere sedotto dal preternaturale, che (prendetelo come volete) è qualcosa di artefatto, costruito da menti insensibili agli intimi piaceri del nostro rapporto con i morti e con i vivi, nella loro incalcolabile moltitudine; una dissacrazione delle nostre più tenere memorie; un’offesa alla nostra dignità.
Quale possa essere la mia naturale modestia, non si abbasserà mai a cercare un aiuto alla mia immaginazione in quelle vane fantasie comuni a tutte le epoche che valgono da sole a riempire di indicibile tristezza chi ama l’umanità. Quanto all’effetto di uno choc morale o mentale su una mente normale, questo è un argomento legittimo di studio e di descrizione. La natura morale del signor Burns riceve un grave choc nei suoi rapporti con l’ex capitano, e, nello stato di debolezza fisica dovuto alla malattia, questo si trasforma in una fantasia superstiziosa fatta di paura e di avversione. Questo fatto è uno degli elementi base del racconto, ma non vi è nulla che non sia naturale, nulla, per così dire, che venga di là dai confini di questo mondo dove, in verità, vi sono misteri e terrori a sufficienza.
Forse se avessi pubblicato il racconto, che ho avuto a lungo in mente, con il titolo “Primo comando”, nessun lettore imparziale, critico o non, vi avrebbe trovato alcun accenno a fatti preternaturali. Non intendo parlare qui del sentimento che fece nascere nella mia mente il titolo attuale, La linea d’ombra. Lo scopo principale di questa narrazione era di presentare alcuni fatti innegabilmente connessi con il passaggio dalla giovinezza, noncurante e fervida, al periodo più consapevole e più tormentoso dell’età matura. Nessuno dubiterà che, pensando alla prova suprema di tutta una generazione, io sentissi acutamente la natura modesta e insignificante della mia oscura esperienza. Non è il caso di parlare di analogie. Non vi ho mai pensato. Ma vi era una sensazione di identità, seppure su scala immensamente diversa: come di una singola goccia paragonata all’amara e tempestosa immensità dell’oceano. E anche questo era molto naturale. Quando infatti prendiamo a meditare sul senso del nostro passato, questo sembra riempire il mondo intero in tutta la sua profondità e vastità. Questo libro è stato scritto negli ultimi tre mesi del 1916. Di tutti gli argomenti che un narratore sente più o meno consapevolmente in sé, questo è il solo che allora mi parve possibile affrontare. La profondità e la natura del sentimento con cui lo affrontai vengono espresse forse nel modo migliore dalla dedica che ora mi colpisce come affatto sproporzionata: una nuova testimonianza della schiacciante grandezza che per noi assume la nostra emozione.
Avendo detto questo, posso fare ora alcune osservazioni sul materiale vero e proprio del racconto. Il luogo si situa in quella parte dei Mari Orientali dalla quale ho tratto, nella mia vita di scrittore, il maggior numero di suggerimenti. Poiché ho affermato di aver pensato a lungo a questo racconto con il titolo “Primo comando”, il lettore indovinerà che si riferisce alla mia esperienza personale. E si tratta in verità di un’esperienza personale, vista in prospettiva con l’occhio della mente e colorata con quell’affetto che non è possibile non sentire per gli avvenimenti della propria vita dei quali non si ha ragione di vergognarsi. E questo affetto è intenso (mi rivolgo ora all’esperienza universale) quanto la vergogna, l’angoscia quasi, con la quale si ricordano certe sventurate azioni, fino ai semplici errori di linguaggio, perpetrate in passato. Per effetto della prospettiva, nella memoria le cose appaiono immense, poiché i fatti essenziali si stagliano isolati sullo sfondo degli insignificanti eventi quotidiani che naturalmente si sono quasi cancellati dalla propria mente. Ricordo con piacere quel periodo della mia vita sul mare perché, iniziato in modo ben poco promettente, si è rivelato poi un successo da un punto di vista personale, lasciandone una prova concreta nella lettera che gli armatori della nave mi scrissero due anni dopo, quando mi dimisi dal comando per tornare a casa. Le dimissioni segnarono l’inizio di un’altra fase della mia vita di uomo di mare, la fase estrema, per così dire, che ha dato a modo suo la propria impronta a un’altra parte della mia opera di scrittore. Allora non sapevo quanto fosse prossima alla conclusione la mia vita sul mare, e non provavo dunque alcuna pena, se non nel separarmi dalla nave. Mi dispiaceva anche troncare i rapporti con gli armatori che avevano voluto accogliere con amichevole cortesia – e gli avevano accordato la loro fiducia – un uomo che era entrato al loro servizio in modo accidentale e in circostanze avverse. Senza voler sminuire la serietà del mio intento, sospetto ora che la fortuna abbia avuto una non piccola parte nel felice esito della fiducia riposta in me. E sarebbe impossibile non ricordare con piacere un periodo in cui i propri sforzi sono stati assecondati dalla fortuna.
Le parole «degnia del mio imperituro ricordo» scelte come motto sul frontespizio sono una citazione dal testo del libro; uno dei miei critici aveva dedotto che si riferissero alla nave, ma dalla loro collocazione nel testo è evidente che si riferiscono all’equipaggio della nave: perfetti estranei per il loro nuovo capitano che tuttavia sostennero mirabilmente in quei venti giorni che sembrarono trascorrere sull’orlo di una lenta e straziante distruzione. E questo è il ricordo più grande di tutti! Poiché non è certo una cosa da poco aver comandato un pugno di uomini degni di imperituro ricordo.
J.C.
1920
a. In inglese, worthy. Termine che nell’originale può essere, come tutti gli aggettivi in inglese, maschile o femminile, singolare o plurale; il che spiega l’errore del critico e la precisazione di Conrad che, nella versione italiana, sarebbero il primo impossibile, la seconda superflua. (NdR)
I
Soltanto i giovani hanno momenti del genere. Non dico i più giovani. No. Quando si è molto giovani, a dirla esatta, non vi sono momenti. È privilegio della prima gioventù vivere d’anticipo sul tempo a venire, in un flusso ininterrotto di belle speranze che non conosce soste o attimi di riflessione.
Ci si chiude alle spalle il cancelletto dell’infanzia, e si entra in un giardino di incanti. Persino la penombra qui brilla di promesse. A ogni svolta il sentiero ha le sue seduzioni. E non perché sia questo un paese inesplorato. Lo sappiamo bene che l’umanità tutta è passata di lì. È piuttosto l’incanto dell’universale esperienza, da cui ci aspettiamo emozioni non ordinarie o personali, qualcosa che sia solo nostro.
Si va avanti ritrovando i solchi lasciati dai nostri predecessori, eccitati, divertiti, facendo tutt’un fascio di buona e cattiva sorte – zuccherini e batoste, si può dire –, il pittoresco lascito assegnato a tutti, che tante cose riserba a chi ne avrà i meriti, o forse a chi avrà fortuna. Già. Si va avanti. E anche il tempo va, fino a quando innanzi a noi si profila una linea d’ombra, ad avvertirci che bisogna dire addio anche al paese della gioventù.
Questo è il periodo della vita in cui è più facile sopraggiungano i momenti che ho detto. Che momenti? Be’, momenti di noia, di stanchezza, d’insoddisfazione. Momenti d’avventatezza. Voglio dire momenti in cui chi è ancora giovane si trova a commettere azioni avventate, come ad esempio sposarsi all’improvviso o abbandonare senza motivo un posto di lavoro.
Questa non è la storia d’un matrimonio. Non mi andò poi così male. Per quanto avventata, la mia azione fu piuttosto qualcosa come un divorzio, quasi una diserzione. Senz’alcuna ragione comprensibile alla luce del buonsenso, abbandonai il posto di lavoro – sbaraccai la mia cuccetta –, lasciai una nave di cui il peggio che si potesse dire è ch’era una nave a vapore, e dunque, forse, non degna della cieca lealtà che… Ma è inutile adesso voler abbellire ciò che all’...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione - di Ian Watt
- Cronologia
- Bibliografia
- La linea d’ombra - Una confessione
- The Shadow-Line - A Confession
- Postfazione - di Italo Calvino
- Note
- Copyright