
- 224 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Maggie Cassidy
Informazioni su questo libro
Scritto nel 1953 e pubblicato per la prima volta nel 1959, Maggie Cassidy rievoca gli amori giovanili di Jack Duluoz, alter ego letterario di Kerouac. Fortemente autobiografico e intessuto di ricordi nostalgici, il romanzo prende spunto dal triangolo amoroso fra il protagonista, la dolce e rassicurante Maggie e la vivace e spregiudicata Pauline, per offrire al lettore uno spaccato della gioventù dell'autore nella Lowell natale: gli amici, la famiglia, la scuola, le gare sportive, gli amori; fino alla partenza per New York, momento di rottura della tranquilla vita nella provincia. Nel racconto di una sofferta esperienza sentimentale giovanile, un Kerouac toccante e straordinario alle prese con i grandi temi della letteratura e della vita.
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Informazioni
Print ISBN
9788804519683eBook ISBN
97888520133931
Era l’ultimo dell’anno, nevicava nel Nord. Gli amici percorrevano sottobraccio la strada piena di neve barcollando, sorreggendo una figura al centro che cantava da sola con una triste voce spezzata e roca quello che aveva sentito cantare al cowboy al Gates Theater venerdì pomeriggio, «Jack o diamonds, Jack o diamonds, you’ll be my downfall»,1 ma non conoscendo la parte che si riferiva alla rovina, cantava solo Jack o, e mormorava il resto con una cantilena lamentosa. Quello che cantava era G.J. Rigopoulos. La testa ondeggiava come quella di un ubriaco mentre trascinavano le sue scarpe nella neve, le braccia abbandonate e i fianchi in fuori come quelli di un idiota, con un tremendo atteggiamento del tutto incurante che costringeva gli altri a procedere con fatica e a scivolare sulla neve per reggerlo in piedi. Ma dal suo collo che sembrava rotto come quello di una bambola provenivano le note lamentose, «Jack o diamonds, Jack o diamonds», mentre grossi fiocchi di neve si posavano sulle loro teste. Era il capodanno del 1939, prima della guerra, prima che ognuno sapesse quali fossero le intenzioni del mondo nei confronti dell’America.
Gli amici erano tutti francocanadesi tranne il giovane greco G.J. Non era mai passato per la testa a nessuno di loro, gli altri, Scotty Boldieu, Albert Lauzon, Vinny Bergerac e Jacky Duluoz, di chiedersi perché G.J. avesse trascorso l’intera giovinezza con loro come amici e compagni di adolescenza invece che con altri ragazzi greci, quando tutto quello che doveva fare era attraversare il fiume e vedere un sacco di ragazzi greci, oppure salire sulla collina di Pawtucketville fino al vasto quartiere greco dove avrebbe trovato molti amici. Lauzon avrebbe potuto pensare al perché G.J. non finiva mai tra i greci, Lousy, che era il più sensibile e il più riflessivo del gruppo; ma visto che lui pensava a tutto, non ne aveva mai fatto parola – fino a quel momento. Ma l’amore per il giovane greco che provavano tutti e quattro questi ragazzi francocanadesi era fantastico, forte, spassionato e non contaminato dalle altre cose del mondo e del tutto serio. Gli stavano aggrappati con tutta la forza, ansiosi di vedere ogni nuovo scherzo da lui scelto nel suo ruolo di Giullare del Re. Camminavano sotto immensi e bellissimi alberi dalle membra scure dell’inverno nero, scure braccia contorte e sinuose dal marciapiede in su; sovrastavano la strada, Riverside Street, un tetto solido per diversi isolati oltre le vecchie case spettrali con enormi verande e le luci di Natale sepolte lì dentro; vecchi edifici dei tempi in cui stare sul fiume significava e richiedeva abitazioni costose. Ma ora Riverside Street era un miscuglio che partiva da un piccolo emporio greco illuminato debolmente ai limiti di un campo sabbioso, con vie di villette che scendevano verso il fiume; da lì a un campo sabbioso di baseball più o meno lo scenario di grovigli di erbacce, palle nulle che rompevano i vetri delle finestre, e fuochi nelle notti di ottobre di teppisti e ragazzini di strada della città, categoria a cui erano appartenuti e appartenevano ancora G.J. e la sua banda.
«Datemi una palla di neve, ragazzi» disse G.J. riprendendosi dalla scena dell’ubriaco, barcollando; Lauzon tornando in sé gli passò la palla con un risolino d’attesa.
«Che ci vuoi fare, Mouse?»
«Gliela tiro addosso a quel cretino che passa!» ringhiò. «Urrà per la rivoluzione! I ruttatori alzeranno la gamba e faranno la cacca sulle spiagge del Sud, Palm Miami Beach –» e lanciò la palla di neve con un rabbioso movimento del braccio su una macchina che stava passando e centrò proprio il parabrezza, un soffice tonfo, un’esplosione di neve che lasciò una stella lucente sul vetro e nei loro occhi mentre scoppiavano a ridere e si piegavano sulle gambe e cadevano in ginocchio, il tonfo aveva fatto abbastanza rumore per attirare l’attenzione dell’automobilista che stava guidando una vecchia Essex rumorosa con un carico di legna e un albero di Natale sul sedile posteriore e un po’ di ceppi anche su quello anteriore con un ragazzino che li teneva fermi, il figlio, agricoltori di Dracut; si girò appena e li guardò in cagnesco per un istante e proseguì torvo verso Mill Pond e i pini di vecchie strade asfaltate.
«Ah ah ah, avete visto che faccia?» gridò Vinny Bergerac con vibrante vivacità saltellando sulla strada e afferrando G.J. per trascinarlo in una folle e isterica vertigine di gioia. Sprofondarono in un cumulo di neve.
Un po’ scostato, e tranquillo, camminava Scotty Boldieu, la testa avvolta nei pensieri come se si trovasse da solo in una stanza a studiare la punta della sigaretta; spalle grosse, basso, faccia da falco e liscia, quasi moro, gli occhi castani. Si girò per unirsi al baccano generale degli altri con una risatina cortese e distratta. Allo stesso tempo gli passò negli occhi un barlume di incredulità per le loro buffonate, un riconoscimento grave e sorpreso di tutti loro, una specie di silenziosa padronanza dell’anima di ognuno, perciò Lousy vedendolo così assorto e confuso dall’ilarità poggiò la testa per un secondo sulla sua spalla con una risata da sorella maggiore, scuotendolo e facendolo tornare in sé: «Ehi, Scotty, non hai visto El Mouso centrare con quella palla il vetro di quel tizio, proprio come quando ha tirato il gelato sullo schermo di quel film sull’ipoteca al Crown? Accidenti! Che svitato! Merda?».
Scotty fece un gesto con la mano e annuì, mordendosi le labbra, e aspirò un profondo tiro meditabondo da una Chesterfield, probabilmente la trentesima o quarantesima di una nuova vita, diciassette anni, destinata ad affondare nella fatica per gradi lenti, pesanti, rilassati, tragico e magnifico vedere la neve abbellirgli le sopracciglia e la testa ben pettinata e senza berretto.
Vinny Bergerac era magro come un chiodo, gridava per tutto il tempo, felice; il nome del padre doveva essere Joy; dentro il cappotto che svolazzava di energia e gridolini, l’esile, sottile corpo sciupato faceva perno su fianchi inesistenti e lunghe, bianche, tragiche gambe. Il viso era affilato come un rasoio, di una bellezza aguzza, sagomata con una lima; occhi azzurri, denti bianchi, brillanti, occhi folli; i capelli umidi erano pettinati in avanti a formare una “banana”, dietro erano spazzolati e lisci, lisci e scuri sotto la sciarpa di seta bianca. Le sopracciglia erano folte e in rilievo, un po’ come quelle di un Tyrone Power, perfetto e consapevole del suo bell’aspetto. Ma lui era sempre stato un pazzoide svitato. La sua risata stridula invadeva tutta la silenziosa strada innevata piena di gente affrettata che lavorava anche nei giorni di festa, alle prese con bottiglie e pacchetti, mentre tirava su col naso nella sera. La neve cadeva sulla sua testa e sull’assurdo fiotto di gridolini. G.J. si era rialzato dalla sua tomba di soffice neve, dove «quel topo schifoso» era caduto, rabbrividendo nel freddo; ora, alzatosi bianco, afferrò Vinny per la vita, se lo caricò sulle spalle e gli fece quella presa dell’aereo in avvitamento che avevano visto nelle gare di lotta al Rex e alla CMAC e nei cortili, organizzate da loro stessi – gridando folli, ballarono intorno all’inevitabile apoteosi negli orgogliosi cappotti svolazzanti dell’adolescenza.
Non avevano neanche iniziato a bere.
G.J. e Vinny caddero insieme nella neve, tutti ballavano e schiamazzavano; la neve scendeva, ne cadeva anche dai rami tremanti nella sera; era l’ultimo dell’anno.
1. «Fante di quadri, fante di quadri, sarai la mia rovina.» (NdT)
2
Albert Lauzon posò lo sguardo su Jack Duluoz, che era inaspettatamente pensoso al suo fianco.
«Ehi, Zaaaagg, l’hai visto? Mouse l’ha placcato con quella presa volante – come chiami quella presa, Zagg, merda?» Questa parola era un suono convulso nella sua bocca. «Quello svitato di Vinny l’aveva scaraventato a terra, non l’hai visto quel topo schifoso sprofondarlo nella merda? Ehi, Zagg?» e lo afferrò per il braccio per scuoterlo e fargli vedere quello che era appena successo. Ma qualche lontano ricordo o pensiero che aleggiava nella sua mente teneva avvinto l’altro ragazzo e lui dovette voltarsi e guardare attentamente Lousy per capire quale reazione si aspettasse da parte sua nel momento in cui stava sognando. Vide gli occhi tristi di Lauzon, in qualche modo entrambi vicini a un lungo naso strano, qualcosa di velato e nascosto sotto un grande cappello di feltro, il solo che portava un cappello della compagnia; non rivelava altro che una risata ansiosa che fiammeggiava ubriaca di gioventù negli occhi ravvicinati, nella lunga mascella, nella lunga bocca in attesa. Un lieve contrarsi, la vibrazione di qualcosa sfiorò l’angolo della bocca di Lauzon mentre scorgeva la lunga esitazione di Zagg fare ritorno dai propri pensieri; una sorta di delusione era venuta e se n’era andata per sempre nell’esame dell’altro ragazzo; e nella propria mente Zagg Duluoz aveva solo ripensato a quando aveva quattro anni e nel tardo pomeriggio rosso di maggio aveva tirato un sasso a un’automobile di fronte ai pompieri e la macchina si era fermata e l’uomo era sceso con un’espressione di grande preoccupazione e il vetro era rotto, così vedendo il guizzo di delusione di Lauzon si chiese se dovesse raccontargli del sasso dei quattro anni ma Lauzon era davanti a lui. «Zagg, hai perso l’occasione di vedere il grande Mouse atterrato dallo scheletrico Vinny Bergerac, è sensazionale!» Lauzon lo stava infastidendo. «Non sto scherzando, eri a mille miglia da qui, non hai visto, non lo dimenticheremo mai: immagina l’unico e ineguagliabile G.J. – guarda adesso che sta facendo! Zagg, oh, cavolo! Merda!» gridò mentre gli dava una botta e una spinta e lo scuoteva. Fu tutto dimenticato in un momento. L’uccello disturbatore era volato qui, si era seduto sulle anime di perla e se n’era andato di nuovo. A un lato del gruppo camminava faticosamente Scotty, ancora solo, ancora perso dentro di sé.
G.J., soprannominato Mouse, nato Rigopoulos, o probabilmente Rigolopoulakos, il cognome accorciato da quei grandi lavoratori dei suoi genitori, adesso era in piedi e senza scherzare o cercando seriamente se possibile con una certa gravità di scuotere la neve dal suo cappotto nuovo pensava proprio in quel momento alla madre che gliel’aveva regalato orgogliosa la settimana prima, a Natale. «Piano, ragazzi, riposo, la mia vecchia mi ha appena regalato questo cappotto di cachemire qui, la targhetta del prezzo era così abnormosa che mi è toccato di metterci il mio segno di immemoriale –» ma di colpo energia e vitalità balzarono fuori di nuovo con la forza di un’esplosione, il suo interesse nei confronti di tutti era così assolutamente illimitato che era come l’impulso irrefrenabile di un ubriaco di correre e ricominciare da zero, sfiancare il mondo, baciare le fondamenta del mondo – «Zagg, ehi, Zagg, ehi! Qual è la parola immemorosa che mi hai detto in piazza non proprio in piazza di fronte al municipio l’altra notte, hai detto che l’avevi letta sull’enciclopedica, Zagg, la parola con il monumento –»
«– immemor –»
«Immemoraliamus – Ahahah!» gridò Mouse lanciandosi su Zagg attraverso le braccia degli altri e afferrandolo con un’ansia febbricitante. «Gli immemoriali della guerra mondiale – sei milioni di memoriali del – Wadworth Longfellow – tanto tempo fa – Zagg, qual è la parola? Dicci qual è… la… parola!» urlò con estrema impazienza afferrandolo e tirandolo, i movimenti così frenetici ed eccitati e «abboccaperta» come diceva lui e pareva che in qualsiasi momento potesse volare in aria per un’esplosione inarrestabile di suspense. Era, nella sua sciarada, una questione di tale importanza e senza esagerazioni – «Quest’uomo deve essere immediatamente decapitato, chiamate la Torre, 1269, chiamate dall’ufficio, chiamiamo la luna, l’abbiamo in ceppi, pronti a partire, quest’uomo si rifiuta di dircelo, Boris Karloff e compagni e Bela Lubusi e noi vampiri e tutti quelli che hanno a che fare con Frankenstein e…» in un sussurro furbetto – «con… la casa… di… Muxy Smith…» Al che tutti si tirarono indietro scoppiando a ridere divertiti; solo qualche settimana prima avevano riportato a casa un vecchio ubriaco di Pawtucketville, in Riverside Street, era una casa coloniale di 175 anni, scrostata e andata completamente in rovina nel suo giardino triste e cadente vicino a un bivio per Dracut e Lakeview; era spettrale nella sera; incespicando avevano portato il vecchietto in cucina, si era accasciato borbottando; diceva di sentire sempre i fantasmi nelle altre stanze; mentre se ne stavano andando il vecchio inciampò su una sedia a dondolo e cadde e picchiò la testa e giacque sul pavimento gemendo. Lo aiutarono a trascinarsi al divano; sembrava stare bene. Ma udirono il vento sui cornicioni, nella mansarda in disuso sopra le scale… si erano affrettati tutti verso casa. E più si avvicinavano a casa più G.J., parlando in preda all’eccitazione anche allora, si convinse che Muxy Smith fosse morto, che si fosse ucciso. «Sta su quel divano pallido come un lenzuolo e morto come un fantasma» sussurrò. «Ve lo dico io… d’ora in poi ci sarà il fantasma di Muxy Smith»; cosicché al mattino, era domenica, tutti cercarono sul giornale con apprensione per vedere se Muxy Smith fosse stato trovato morto nella sua vecchia casa infestata. «Sapevo che c’era la luna quando l’abbiamo incontrato su quel marciapiede del Textile – brutto segno, non dovevamo accompagnarlo quel vecchio è quasi morto» continuava a dire G.J. a mezzanotte. Ma al mattino non c’erano notizie che raccontassero che un branco di giovani se l’era svignata da una casa lasciando un uomo morto con un livido procurato da un oggetto pesante; così si erano incontrati dopo la funzione, i francocanadesi che andavano nella chiesa di Sainte Jeanne d’Arc sulla collina di Pawtucketville, e G.J. di là dal fiume con la scura madre velata di nero e le sorelle nella chiesa greca bizantina ortodossa vicino al canale, e si rassicurarono a vicenda. «Muxy Smith» G.J. sussurrò nella neve dell’ultimo dell’anno «e la sua jazz band immemoriale si stanno dando da fare… ma che parola! Ehi, Lousy, sentita la parola? Scot? IMMEMORIALE. Per tutti i secoli dei secoli sulla pietra. Ecco che vuol dire. Solo Zagg poteva scoprire una parola del genere. Ha studiato per anni nella sua stanza, imparando… IMMEMORIALE. Zagg, Dolcezza della Memoria, scrivi qualche altra parola del genere. Sarai grande. Ti faranno presidente onorario dei ruttatori al convegno degli scorreggiatori del settore trasporti dei pezzi grossi di Wall Street. Ci sarò, Zagg, con una bionda, una bottiglia, un appartamento che aspetteranno i tuoi comodi… ah, signori, sono stanco. È stato un incontro di lotta che – come posso ballare stasera? Come faccio a ballare stasera?» E di nuovo, tralasciando ogni altra cosa adesso, cantò Jack o diamonds in quel modo che aveva appena imparato, triste, incredibilmente triste come un numero di cani ammaestrati, o come gli uomini che cantano, sospesi nell’aria e distrutti e profetici nella neve della notte, Jack o diamonds, mentre a braccetto si trascinavano al ballo dell’ultimo dell’anno al Rex Ballroom, ciascuno al suo primo ballo, il primo e ultimo futuro davanti a loro.
3
Per tutto il tempo, dall’altra parte della strada e parallelo a loro aveva camminato Zaza Vauriselle che se non fosse stato per la mandibola prognata da idrocefalo e quindici centimetri in meno sarebbe potuto passare per il cesellato fratello francocanadese dal sorriso felice di Vinny Bergerac; faceva parte del gruppo, ma per un po’ si era estraniato sull’altro marciapiede come uno che fosse abituato a fare lunghe passeggiate in compagnia e a pensare, a muoversi dentro una cosa propria, anche se ogni tanto rivolgeva loro, a mala pena udito, commenti come «Maledetto branco di idioti» (in francese, gange de baza), oppure «Oh, guardate che belle ragazze stanno uscendo da quella casa, ehi».
Zaza Vauriselle era il più vecchio del gruppo, vi si era introdotto solo di recente su invito di Vinny e aveva fatto colpo sugli altri scettici o no solo perché era un idiota fantastico, capace di ogni buffonata e battuta, la più famosa era «Farei qualsiasi cosa mi dicesse Vinny, qualsiasi»; e il suo valore aggiunto era che sapeva tutto sulle ragazze e sul sesso per esperienza diretta. Aveva le stesse fattezze piacevoli di Vinny, ma era molto basso, le gambe arcuate, era buffo da vedere, gli occhi sfuggenti, la mascella pronunciata, tirava su col naso difettoso; si masturbava sempre di fronte agli altri, aveva circa diciotto anni; eppure c’era in lui qualcosa di curiosamente innocente e sciocco quasi di angelico sebbene in effetti pareva stupido e probabilmente ritardato mentale. Anche lui portava una sciarpa di seta bianca, un cappotto scuro, le galosce, nessun cappello, e camminava determinato sulla neve alta cinque centimetri verso il ballo che era stata una sua idea; in un posto in Lakeview Avenue, in una casa del centro dove una festa per gente adulta stava iniziando, i ragazzi erano usciti, dalla casa di G.J. e da quella di Zagg, l’ultimo luogo di incontro, per andare a prendere Zaza. Ciò voleva dire una passeggiata e un grande entusiasmo adatto a un giorno di festa; nessuno avrebbe avuto una macchina fino a quell’estate. «On va y’allez, andiamo!» aveva urlato Zaza. Ora Zaza Vauriselle fece una palla di neve e la tirò a Vinny il suo campione. «Ehi, Vinny, siediti su quel maledetto cesso e piantala prima che ti spezzi le gambe…» Dolcemente, dall’altra parte della strada, con un sorriso stupido che tutti gli altri videro luccicare con gusto. G.J. barcollò nell’udirlo, mormorando e indicandolo agli altri, «Sentito cosa pensa?… Maledetto Zazay!» e attraversò di corsa la strada, calò sulle spalle di Zaza e lo trascinò su un cumulo di neve mentre Zaza, non abituato alle maniere forti, urlava con ansia genuina «Ehi! ehi!» e tutto elegante di sartoria con il soprabito e la sciarpa venne sbattuto nella neve; gli altri accorsero e lo attaccarono da ogni parte, e infine lo tirarono su in posizione orizzontale e se ne andarono giù per la Riverside gridando e portando con sé il loro Zaza.
A questo punto avevano raggiunto un prato lungo un ripido pendio dietro una staccionata, vicino a qualcosa che sembrava quasi un castello di pietra con delle torri, che si ergeva su Riverside Street. In cima al pendio erboso, bianco nella sera, partiva un muro di sassi costruito a ridosso di una rupe, con residui rinsecch...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Maggie Cassidy
- 1
- 2
- 3
- 4
- 5
- 6
- 7
- 8
- 9
- 10
- 11
- 12
- 13
- 14
- 15
- 16
- 17
- 18
- 19
- 20
- 21
- 22
- 23
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- 25
- 26
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