
- 210 pagine
- Italian
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eBook - ePub
L'Eros
Informazioni su questo libro
Ricordi di esperienze vissute, passioni e morbosità, sensazioni e indimenticabili personaggi popolano le pagine del libro di Bevilacqua, nel quale trova posto, allo stato puro, l'idea di eros che anima da sempre le sue opere.
L'insolita narrazione compone un inaspettato intreccio, quasi un romanzo, avvincente e ricco di armonia.
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Informazioni
Print ISBN
9788804460060eBook ISBN
9788852011320Ironie, ironie...
I
Al Portico d’Ottavia, gli uomini della malavita romana giocano a pallamuro. In sotterranei impensabili che, agli stessi tipi, servono nottetempo da poligoni di tiro: i segni delle pallottole crescono a vista d’occhio. Si sono rinvenuti due corpi di persone assassinate.
Qui regnano la vastità, i rossi e i neri che sembrano dipinti dalla mano di Scipione, l’acre odore dell’acqua tiberina che s’infiltra, stagnando intorno a finestroni e spioncini, tra barlumi di ponti lontani. Ci andavo spesso. Contavo sugli incontri che vi sono possibili. Se ho continuato a vivere a Roma, è perché la città ha anche questo potere perverso: genera, e subito degenera, sorprendenti incroci d’esistenze.
Così è stato con Donata.
Premetto che la pallamuro differisce dalla pallamano e dalla pelota. È un gioco privo di passato, certamente di futuro. Forse esiste soltanto al Portico d’Ottavia. Il giocatore scaglia la palla col guantone di cuoio, a forma di nera pinna; il bersaglio, azionato meccanicamente, si sposta con rapidità. Bisogna centrare le tre macchie rosse. È una metafora della lotta col tempo. Le palle hanno traiettorie insensate e accompagnate da bestemmie; la mano dell’uomo, ricevendone i colpi, le rilancia con l’ottusità di arrivare esattamente, e più in là. Il tempo non è forse violenza, fine a se stessa, di andate e ritorni?
Donata – ho impiegato poco a scoprirlo – era una violenta egoista di natura duplice: un po’ palla e un po’ guantone. Feroce e inutile come il giocatore.
Sedeva nel seggiolino di ferro accanto al mio, ai bordi del sotterraneo: le palle ci fischiavano intorno come, di notte, le pallottole devono inseguire le vittime designate della malavita romana. Si intuiva, in lei, una sessualità non meno oscura di minacce del poligono: diciotto anni al massimo, odor di femmina che richiamava l’acre tiberino, il seno affetto da ipermastia. Mi chiedevo cosa ci facesse lì. Quali fossero i suoi rapporti coi giocatori, probabilmente assassini, fasciati da grembiuli di cuoio che mandavano lampi, col sudore che inondava le spalle e le braccia nude; e gli altri, addossati alle pareti, che incrociavano scommesse con gridi rauchi.
Un sentore di genitali eccitati spingeva Donata a un gesto che pareva da nulla, in realtà osceno. Le dita della mano destra, dalle unghie laccate di rosso, scivolavano per l’interno della coscia compressa dai jeans, e davano rapide strette al pube. Mi giravo a fissarla. Lei non smetteva. Come non dava peso ai rimbalzi delle palle che rischiavano di fracassarle il cranio. Finalmente, mi ha sorriso. Dentatura da cannibale, ho pensato.
Non ci siamo mossi finché i giocatori non hanno smesso. Nel sotterraneo, non è rimasto nessuno. Ora l’ambiente assomigliava alla piazza di un mercato, dopo il mercato: rare lampade accese; i grembiuli da macellaio sulle grucce; i guantoni a pinna pendevano dalle rastrelliere, conservando la morsa rabbiosa delle mani che li avevano calzati. Le palle sparse a terra. Una gigantesca lettera A sul muro di fronte e uccelli notturni ai finestroni.
«Andiamo a casa mia» mi ha detto.
Donata non mi comunicava che vuoto. Il corpo si muoveva con le disarmonie della sordidezza carnale. Cosa mi spingeva, dunque, dietro i suoi passi che andavano spediti nel buio, confermando pratica dei meandri? Il disgusto? La finzione, fin troppo evidente, con cui si proponeva di trarre qualche partito dalla mia presunta ingenuità?
Qualcosa di meno e di più. Ero provocato dal nulla. Non metafisico, bensì il nulla nulla che si insinua fra le piccole bellezze e crudeltà della vita, formandone a suo modo il connettivo. Donata mi invitava con una mancanza di attrazione così perfetta da farsi irresistibile.
È stata, in questo senso, una notte gratificante.
Una cameretta. Un letto sfatto contro la parete, con una coperta di finto leopardo. Lo sormontavano tamburi di guerra africani. Una lancia somala. Sul pavimento, pacchi di giornali polverosi. Ho sbirciato titoli di cronaca su reati vari. Poi scarpe, in gran parte maschili; le punte, dai diversi colori, sbucavano come nasi di clown. Ma i battitori liberi della cameretta, presumibilmente gli stessi della pallamuro, avevano disseminato qua e là altri resti: slip, canottiere e cinghie. La porta del bagno era aperta e una lampadina azzurra rischiarava la solitudine. La finestra, da cui penetrava ben poca aria, dava a livello della strada (eravamo nello scantinato di un palazzone a San Giovanni).
Donata si è preoccupata di spegnere la luce. Ha tirato con cura la tenda alla finestra. Le ho chiesto ragione.
«Perché non sappiano che ci sono» ha risposto. «Che esisto.»
«Ma chi?»
«Gli uomini» ha detto bruscamente.
«Quali uomini?»
Sguardo impassibile.
«Ci sono specie e specie» ho insinuato. «Gli intellettuali, per esempio, e i tutori dell’ordine. Quali temi, tu? Gli uomini della pallamuro?»
«Gli uomini. Tutti. Vorrei vederli tutti impiccati per i piedi a Piazzale Loreto.»
Non ha aggiunto di più.
Avrei voluto farle notare che anch’io appartenevo alla spregiata razza. Ma sarebbe stato un errore. Era chiaro che lei, mentre rifuggiva la realtà maschile, si lasciava sedurre dal maschile nulla, nella stessa misura in cui il nulla femminile, quella notte, incuriosiva me. E io lo rappresentavo ai suoi occhi. Due nulla che si attiravano come calamite.
Da quello, afrodisiaco, di Donata ho spremuto il massimo. Gli ho dato caccia nelle sue parti anatomiche, come nelle segrete di un labirinto. Mi districavo nei capelli che aveva lunghi fino al bacino, corvini, sporchi. Il neonato succhia dai capezzoli della madre nutrimento per il suo niente ancora fetale; io mi servivo delle grandi mammelle della ragazza. Esploravo il suo ventre, la gramigna del pube, stampato su di lei come la minacciosa lettera A nella parete della pallamuro.
A sua volta, Donata mi esplorava a tentoni, con la sua cecità spirituale: e i ciechi, si sa, al buio sono imbattibili.
In diversi momenti, ho temuto di dissolvermi dentro quel ventre. Capivo la saggezza degli antichi testi: Talmud, Zohar, Isaia. Donata incarnava il trio della demonologia caldeo-assira (la più esatta, a mio avviso): Lilù, demone incubo; Lilitu, demone succubo; e Ardat Lili, la serva delle prime due, che sceglie gli amanti di cui divorare, oltre al fallo, ogni materia adamitica che li compone. Molti lampi, alla mia mente. Ma uno, argenteo, a forma di acuminato cuore, su tutti si imponeva; non un miraggio, bensì un reale stocco: la lancia somala!
Mi sarei servito di quella, in casi estremi.
Quando ho aperto la finestrella, il primo sole ha rischiarato Donata, ansante e in un bagno di sudore. Come me. Si è limitata a incrociare le gambe sul letto e a sorridere. Il sorriso distaccato con cui chiedeva che ricambiassi l’ospitalità:
«Com’è casa tua?» ha chiesto.
«Spaziosa» le ho risposto, guardandomi intorno nella camera dove si soffocava. «Panoramica.»
«Con chi ci vivi?»
«Un tempo con mia moglie. Ora con nessuno.»
«Andiamo» ha detto.
Avevo invaso il suo nulla, anche ambientale. Era risoluta a invadere il mio.
Non mi ha dato il tempo di replicare. È uscita con una sola borsa e i tamburi di guerra messi in una rete. D’altra parte – pensavo – il nulla non conosce né passato né futuro, e ha bisogno solo di se stesso, della sua musica divoratrice. Siamo saliti in macchina. Subito mi ha fatto deviare in più direzioni: ci siamo trovati a prendere certe viuzze di San Giovanni, anch’esse sordide fra i caseggiati imponenti.
«Frena!» ha ordinato.
Mi ha pregato di aspettarla. È riapparsa da un portone reggendo un’uccelliera dove saltellavano uccellini di varie razze. Da altre due case – di amici senza dubbio intimi – è emersa con grandi buste di cellophane piene di vestiti; e gli amici in persona, con le facce degli assassini che giocano alla pallamuro, l’hanno aiutata a caricare abiti, scatoloni, giradischi, posters arrotolati. Senza degnarmi, ovvio, di un cenno.
Dunque, Donata rinasceva dalle ceneri. La perfidia del suo calcolo si mutava in piena allegria. Abbiamo continuato a fermarci qua e là, e di nuovo mi costringeva a frenare con bruschi avvertimenti. Indicava porte e finestre. Scendeva correndo, tornava con animali sottobraccio; cani e gatti andavano a far compagnia ai volatili, le cose alle cose, smascherando, di Donata, un retroscena esistenziale che mai avrei supposto e che si traduceva, con continui svolazzi, in un oggetto, un animale, un pacco misterioso, un pacchettino.
Altri uomini con barbe incolte, ragazze livide, madri chiaramente mezzane delle figlie, portieri con la corruzione dipinta in faccia, uscivano passo passo dietro di lei portando il loro contributo. L’automobile straripava. Mi figuravo il mio appartamento; con la differenza che mentre io avevo invaso il rifugio di Donata assaporando il gusto della cancellazione, la sua presa di possesso prevedeva, oltre che uno stabile insediamento, la tecnica della superfetazione.
«Un attimo, cara» le ho detto.
Ho fermato la macchina sotto l’obelisco di Piazza del Popolo.
«Un attimo solo.»
L’ho lasciata che fumava spavalda, col gomito fuori dal finestrino. Stava con la ferocia soddisfatta di una domatrice di leoni fra uccellini che cantavano il loro color verde, cani che raschiavano il lunotto, scatole che si rovesciavano in altre scatole, vestiti che ondeggiavano al vento. L’automobile era un piccolo circo che già veniva accostato da vigili sospettosi.
Sono entrato al Caffè Canova e ne sono uscito immediatamente, facendomi scudo con uno sconosciuto. Essere vili, in certi casi, è bellissimo. Sono fuggito verso il Pincio. Da anni non correvo con simile trasporto; e mi sorprendevo di essere capace, oltre che di una discreta velocità, di fingere tanta noncuranza.
Non ho più saputo nulla di Donata, né della mia macchina (mi sono limitato a denunciarne il furto). Non sono più tornato al Portico di Ottavia, a vedere gli uomini della malavita che giocano a pallamuro. Ho letto sul giornale che, in uno dei sotterranei, hanno rinvenuto un altro corpo senza vita. Che si tratti di lei? La vittima portava unghie laccate di rosso. In questo caso, avrei avuto ragione. Il nulla tende al nulla e – nella fattispecie – diventa metafisico, eterno. C’è, insomma, una giustizia per tutto.
II
Le vetrate della casa di Sybille Weiser si affacciano sull’Isola Tiberina. In un salone che ha l’aspetto di un atelier, lampade rischiarano, ad effetto, gli smalti viennesi di Mohn, gigantografie delle modelle di Egon Schiele e oggetti degli artisti di Gabbonz. Tra i suoi poteri, Roma ha anche questo di creare oasi che racchiudono modi e gusti di altri popoli.
Questa casa è il rifugio che di notte preferisco. E poiché Sybille è maestra di stratagemmi, io la chiamo, fra me, “la donna delle mille e una notte”. Lei continua a ricevermi, lietamente, a qualunque ora capiti. Mi stima. A suo modo, mi ama. Ma abbiamo deciso di mantenerci a quel prima dove – l’amica è categorica – è divertente inventare preamboli e, forse, sta il meglio di un rapporto.
«Non è forse l’alba più suggestiva del giorno?» sostiene. «E la sete, prima che ci dissetiamo magari a una fresca fontanella di montagna, non è forse un piacere torturante, sì, ma impagabile?»
A momenti, riesce quasi a convincermi. Sul prima... Prima che accadano, le cose sono più belle. Ne convengo, anche con ironia: la vita, prima della morte, non è forse più bella della morte stessa? Basta intendersi, sulle cose.
Sybille ha trent’anni. Il suo corpo mi ricorda la donna che, nel Pesce d’oro di Klimt, ostenta glutei invitanti all’osservatore. Quando capita che restiamo soli a fare l’alba e poi lei si mette a letto spogliandosi con noncuranza di fronte a me, vengo invitato a riflettere che, nelle intenzioni di Klimt, quel quadro avrebbe dovuto intitolarsi “Il Prima”:
«Lo vedi come il prima può essere geniale? Il desiderio si tende al massimo, ti senti irresistibilmente spinto a sollevare la mano, a sfiorare, toccare... Ma non sfiori che l’illusione di un dipinto.» Mi invita: «Avanti, sfiorami, toccami».
Eseguo. Ma non riesco ad arrivare fino a questo punto: a ritenere che i suoi glutei siano frutto di illusione. Glielo confesso. Lei ribatte:
«È perché non sai staccarti dal tuo passato.» Cade in un gioco di parole: «Non hai mai fatto l’amore con il prima, prima di incontrare me?».
«Mai» riconosco.
«È un vizio di cui devi liberarti. Testardo consumatore del dopo, sei come un fumatore accanito. Bisogna che cominci. L’importante è gettar via la prima sigaretta che, con gesto automatico, ti capita di infilarti fra le labbra... Proviamo, avanti.»
Mi spiega la prova:
«Spogliati anche tu. Entra nel letto con me. Dormiamo insieme, senza fare nulla. Assaporiamo semplicemente il calore dei nostri due corpi. In questo reciproco calore che ci sfiora, c’è già il coito, c’è già l’orgasmo. Chiudi gli occhi, rilassati, e scoprirai che ho ragione.»
Io chiudo gli occhi. Tengo inchiodata la mano che appena sfiora la sua coscia. Lei prende a parlarmi di vaghezze che sarebbe facile soddisfare; ma il bello sta nel non soddisfarle...
«Stai rilassandoti? Lo senti che il sonno sta per venire?»
«No, Sybille. Mi dispiace. Ma non preoccuparti, pensa tu a dormire. Lascia a me il prima, me la vedrò io... Il prima della creazione. In fondo, allora non c’erano guai, né solitudini, né tentazioni impossibili...»
«Lo vedi che ho ragione?»
«Già. E poi venne il fiat lux... Dormi, Sybille. Tanto, fra poco è l’alba. E verrà la luce. E io potrò alzarmi e andarmene, lasciandoti abbracciata al nostro prima, che è un amante fantastico.»
Sybille, logicamente, ama Schönberg. Mi invita, di nuovo:
«Torna bambino. E come quando contavi le pecore, pensa intensamente al Pierrot lunaire. Ah, il Lied “Messa Rossa”, nel quale Pierrot si arrampica sull’altare e poi mostra ai fedeli l’ostia scarlatta di sangue. Essa è il suo cuore, stretto fra le dita, e lo offre come monito a non dissipare se stessi nella banalità dell’amore, nel fuoco della realtà che porta tutto a rapide ceneri.»
Ci provo. Sono arrivato a detestare sia il Pierrot che Schönberg:
«Io amo Verdi e Rossini, Sybille. Che posso farci?»
«Bassa artigianeria.»
Reagisco, la tocco. Ma in nome di un ideale di poesia, di melodie che nessuno è mai riuscito a spegnermi nel cuore. La sensualità non c’entra. Il prima resta intatto:
«Troppe lacrime» afferma sprezzante, girandosi sul fianco, nella posizione del Pesce d’oro. E io faccio lo stesso, nella posizione, più banale, di chi dà semplicemente le spalle. Lei aggiunge: «Sempre un troppo di passione».
... ma, in questa notte, le lacrime e un troppo di passione sono sue, di Sybille. Capisco che uno dei suoi amanti – con cui non ha mai fornicato con il prima, a differenza che con me – l’ha lasciata di punto in bianco, trattandola brutalmente.
Sybille, infatti, concede solo a me il raro privilegio del prima, di cui considera gli altri indegni. Con gli altri, passa subito al dopo. E sono in molti – si vocifera – ad essere destinatari di tanto disprezzo.
Dovrei ritenermi fortunato. Non è cosa di tutti i giorni il ritrovarsi favorito da una donna piena di fascino. E che conosce a memoria il “controsenso” atonale di Schönberg.
III
L’episodio accadde fra il mio trovarmi, bambino e con innocenza, di fronte alla nudità di Albina Savi, sulle ghiaie dei greti padani, e la mia prima volta con Ada Vitali, a Ghiare: il paese delle falci.
Vidi la curiosità per le donne nascere, negli uomini, intorno a me. Furono due scoperte insieme: scoprii che scoprire quella curiosità mi rallegrava. Ero un ragazzino che se ne andava solo, in periferia, a Parma. Mi fermavo di fronte al villino in cui abitava Fabrizia Orlandini, detta “Ballo senza maschera”.
Il villino sorgeva, con un’aria di sudditanza, dirimpetto a un edificio in costruzione, i cui lavori duravano da anni: concepito per essere una scuola, subiva continue e un po’ misteriose interruzioni. Restava lì, con i suoi cinque piani tracciati nel vuoto, senza mura, come un grande scaffale di cemento, e l’anonima arroganza degli stabili incompiuti. Nient’altro, in quel tratto di periferia. Un suddito spiritoso, il villino, un re squinternato.
Mi nascondevo e spiavo le assi malferme, le recinzioni di canne, insomma la sdentata corona del re. Un ragazzino è un detective abilissimo. Non dovendo risolvere l’enigma della vita, indaga e spesso risolve fenomeni erroneamente ritenuti laterali. Mi accorsi, perciò, della pantomima che gli uomini organizzavano con un solo scopo: vedere dentro le finestre della Fabrizia che, in seguito, avrei conosciuto anch’io come la più spericolata e seducente esibizionista della città.
“Vanno a vedere il corpo da dio dell’Orlandini” si vociferava degli individui che si arrampicavano per l’edificio. “Vanno ad assistere, dal loggione, al Ballo senza maschera.”
Gli arrampicatori erano di diversa specie. Salivano muratori che non erano muratori; geometri e periti edili decisamente menzogneri. Prima di avventurarsi, costoro si toglievano giacche e panciotti, si mettevano in testa cappelli di carta e si arrotolavano le maniche della camicia. Si trattava, in realtà, di avvocati, medici e insegnanti, trasformati per l’occasione in maldestri acrobati. Conquistato il giusto posto d’osservazione, si aggiravano reggendo pile di mattoni, con l’aria di non sapere dove collocarli, mentre non perdevano d’occhio le finestre più in basso.
Scalavano l...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Questa mia avventura…
- Dialogo con l'amica A.B.
- L'Eros è un incontro felice…
- Cronaca di due complici amanti…
- L'Eros della purezza
- Lettera a una compagna per spiegarle la "nota di Toscanini"
- Le prime volte…
- Febbraio. Milano. 1982
- L'Eros e la malvagità della maldicenza
- L'Eros della violenza e della vendetta
- Dialogo con l'amica A.B. sul "Ballo della Gelosia"
- Le fantasie erotiche. L'Eros ha le sue favole…
- L'Eros è anche amabile leggenda…
- L'Eros di quando meno te l'aspetti…
- Tra due amici…
- L'Eros sfida il tempo
- L'Eros della rinuncia
- L'Eros coniugale, che ritorna…
- Le Donne-Meccano…
- L'Eros della dedizione
- L'Eros e il gioco…
- La "Bramosa di te stesso"…
- L'Eros della memoria improvvisa
- Dal "Taccuino dei giorni che passano"
- Stranezze, stranezze…
- L'Eros del piccolo sotterfugio…
- L'Eros ha le sue ossessioni e perversioni
- L'Eros può essere una carezza, una lettera…
- Ricordo di Nuvola
- Celebri e segrete ambiguità
- Ironie, ironie…
- Il gergo dell'Eros
- Il tradimento
- L'Eros della trovata affettuosa…
- Gli itinerari dell'Eros
- Nota in margine: Dialogo tra due amiche sull'Eros frainteso da certi uomini
- Esiste un Eros dell'addio, della fine
- L'Eros della madre e del padre
- L'Eros della fratellanza fra le creature
- L'Eros e la scrittura segreta…
- Immense e piccole allegrie…
- Dal "Taccuino dei giorni che passano"
- L'Eros di ciò che non fu
- L'Eros del rimorso
- Le Donne-Doradus…
- Addio all'amica A.B.
- Frammento felice
- Le Puttane…
- Ci sono tappe obbligate, prima di chiudere i conti…
- Primi amori
- E così, nella luce delle cose che inevitabilmente hanno una fine…
- Indice