Con la neve che cadeva fitta sui tetti e sulle torrette illuminate dai fari, il Cremlino sembrava uscito da una fiaba. Quando il furgone con la scritta HIBERNIAN TELECOM sulla fiancata si avvicinò al cancello principale, Kit immaginò per un istante di essere il Cavaliere Nero che andava all’assalto di un castello.
Era un sollievo essere finalmente arrivati. Contrariamente alle previsioni, la nevicata si stava trasformando in una vera e propria tormenta, e il tragitto dal campo di aviazione aveva richiesto più tempo del previsto. Quel ritardo lo impensieriva. Ogni minuto che passava rendeva sempre più probabile che ostacoli imprevisti mettessero in pericolo il suo piano.
La telefonata di Toni Gallo lo preoccupava. L’aveva messa in comunicazione con Steve Tremlett temendo che, sentendo un messaggio registrato di linea interrotta, lei potesse decidere di venire al laboratorio per verificare di persona cosa stava succedendo. Dopo aver ascoltato la conversazione, però, Kit temeva che decidesse di farlo comunque. Era una vera sfortuna che lei si trovasse a Inverburn anziché in un centro termale a ottanta chilometri da lì.
La prima delle due sbarre si sollevò e il furgone avanzò fino a fermarsi all’altezza della guardiola. All’interno c’erano due uomini, come previsto. Elton abbassò il finestrino. «Ci fa piacere vedervi, ragazzi» disse uno dei due, sporgendosi fuori.
Kit non lo conosceva ma, ricordando la conversazione con Hamish, capì che doveva essere Willie Crawford. Guardando meglio, Kit vide Hamish seminascosto dietro di lui.
«Siete gentili a venire a Natale» proseguì Willie.
«È il nostro lavoro» rispose Elton.
«Siete in tre, giusto?»
«Più Riccioli d’Oro, dietro.»
«Bada a come parli, faccia di merda» ringhiò Daisy a voce bassa.
Kit represse un gemito. Come potevano mettersi a litigare in un momento come quello?
«Piantatela, voi due» mormorò Nigel.
Willie parve non aver udito il battibecco. «Devo vedere i documenti di tutti, per favore.»
Tirarono fuori i falsi tesserini di riconoscimento. Nel prepararli, Elton si era basato sulle indicazioni di Kit, che ricordava a grandi linee come fossero fatti gli originali. Il sistema telefonico si guastava raramente e Kit contava sul fatto che nessuno degli addetti alla sorveglianza avesse ben presente un vero documento di riconoscimento della Hibernian Telecom. Mentre la guardia di sorveglianza osservava i tesserini come se fossero banconote da cinquanta sterline sospette, Kit trattenne il fiato.
Willie annotò i nomi di tutti, copiandoli dai documenti, che poi restituì senza fare commenti. Kit distolse lo sguardo e riprese a respirare.
«Andate fino all’ingresso principale» disse Willie. «Se restate fra i lampioni, non dovreste avere problemi.» La strada non si vedeva, coperta com’era dalla neve. «Alla reception troverete un certo signor Tremlett che vi dirà dove andare.»
La seconda sbarra si alzò ed Elton ripartì.
Erano dentro.
Kit si sentiva male per la paura. Aveva già infranto la legge una volta, con la truffa per cui era stato licenziato, ma allora non gli era parso di commettere un crimine, sembrava più come barare alle carte, cosa che faceva regolarmente dall’età di undici anni. Questa volta si trattava di un furto in piena regola, per il quale avrebbe potuto finire dentro. Deglutì e cercò di concentrarsi. Pensò all’enorme somma che doveva a Harry Mac. Ricordò il terrore cieco di quella mattina, quando Daisy gli aveva tenuto la testa sott’acqua e lui aveva creduto di morire. Doveva farlo.
«Cerca di non far arrabbiare Daisy» disse Nigel a Elton, calmo.
«Era solo una battuta» rispose Elton, sulla difensiva.
«Non ha il senso dell’umorismo.»
Se Daisy sentì, non fece commenti.
Elton parcheggiò il furgone davanti all’ingresso principale e scesero. Kit aveva con sé il suo computer. Nigel e Daisy scaricarono le cassette degli attrezzi dal retro del furgone. Elton portava una valigetta di pelle bordeaux con la chiusura in ottone, sottile e dall’aspetto costoso, ma un po’ fuori luogo per un tecnico dei telefoni.
Passarono in mezzo ai leoni di pietra del porticato ed entrarono nel grande atrio. Le luci notturne facevano assomigliare ancora di più l’interno vittoriano a una chiesa: le finestre ornate di colonnine, gli archi a sesto acuto, le file serrate di travi a vista del tetto. La penombra non ostacolava le telecamere di sicurezza che, Kit lo sapeva bene, operavano a raggi infrarossi.
Al moderno bancone della reception in mezzo all’atrio c’erano altre due guardie. Una era una giovane donna molto attraente che Kit non riconobbe, l’altro era Steve Tremlett. Kit si tenne indietro: non voleva che Steve lo guardasse troppo da vicino. «Vorrete andare all’unità centrale di smistamento» disse Steve.
«È da lì che dobbiamo cominciare» rispose Nigel.
Nel sentire l’accento londinese, Steve inarcò le sopracciglia ma non fece commenti. «Susan vi mostrerà la strada. Io devo restare vicino al telefono.»
Susan aveva capelli corti e un piercing al sopracciglio. Portava una camicia con le spalline, cravatta, calzoni dell’uniforme di serge scuro e scarpe nere con i lacci. Rivolse loro un sorriso cordiale e li condusse per un corridoio pannellato di legno scuro.
Kit sentì scendere su di sé una calma strana. Era dentro, scortato da una giovane guardia di sicurezza, e stava per commettere un furto. Le carte erano state distribuite, lui aveva fatto la sua puntata: non restava altro che giocare la mano, vincere o perdere.
Entrarono nella sala di controllo.
Il posto era più pulito e più ordinato di come Kit se lo ricordava: i cavi sistemati con cura, i registri allineati su uno scaffale. Immaginò fosse opera di Toni. Anche lì c’erano due guardie anziché una. Controllavano i monitor, sedute alla lunga scrivania. Susan li presentò come Don e Stu. Don era un indiano dalla pelle scura con un marcato accento di Glasgow, Stu un rosso con le lentiggini. Kit non li riconobbe. Una guardia in più non era un grosso problema, si disse: solo un altro paio di occhi a cui nascondere le cose, un altro cervello da distrarre, un’altra persona da far scivolare nell’apatia.
Susan aprì la porta che dava nella sala macchine. «L’unità centrale è qui dentro.»
Un attimo dopo, Kit era nel sancta sanctorum. Così, in un momento, pensò, anche se ci erano volute settimane di preparazione. Lì si trovavano i computer e le altre apparecchiature che gestivano non solo il sistema telefonico, ma anche l’illuminazione, le telecamere di sicurezza e gli allarmi. Anche solo arrivare fin lì era un trionfo.
«Grazie mille» disse a Susan. «Adesso ci arrangiamo da soli.»
«Se avete bisogno di qualcosa, venite alla reception» rispose lei, e si allontanò.
Kit posò il portatile su uno scaffale e lo collegò all’unità che gestiva il sistema telefonico. Avvicinò una sedia e orientò il computer in modo che lo schermo non potesse essere visto dalla porta. Si sentiva addosso lo sguardo di Daisy, sospettoso e ostile. «Va’ nell’altra stanza» le disse «e tieni d’occhio le guardie.»
Lei gli lanciò un’occhiata risentita e carica d’odio, ma poi fece come le era stato ordinato.
Kit respirò a fondo. Sapeva esattamente cosa fare. Doveva lavorare in fretta e con la massima attenzione.
Per prima cosa entrò nel programma che controllava l’uscita video delle trentasette telecamere a circuito chiuso. Guardò l’ingresso del BSL4, che sembrava normale. Controllò il banco della reception e vide Steve, ma non Susan. Passando in rassegna le immagini provenienti dalle altre telecamere trovò Susan che pattugliava un’altra zona dell’edificio. Prese nota dell’ora.
L’enorme memoria del computer immagazzinava le immagini trasmesse dalle telecamere per quattro settimane per poi caricare altri dati. Kit conosceva bene quel programma: era stato lui stesso a installarlo. Localizzò le riprese delle telecamere nel BSL4 relative alla stessa ora della sera precedente. Visionò le immagini, controllandole a caso per accertarsi che non ci fosse stato in giro qualche solerte scienziato pazzo nel cuore della notte, ma tutte mostravano locali vuoti. Bene.
Nigel ed Elton lo osservavano in un silenzio teso.
Kit trasferì le immagini relative alla notte precedente sui monitor delle guardie.
Ora era possibile andarsene in giro per il BSL4 e fare tutto quello che si voleva senza che loro se ne accorgessero.
I monitor erano dotati di sistemi di controllo in grado di rilevare eventuali manomissioni, per esempio nel caso che l’uscita video delle telecamere venisse sostituita dal segnale proveniente da un nastro preregistrato. Quelle immagini, però, non venivano da una fonte esterna, ma direttamente dalla memoria del computer centrale, e quindi non facevano scattare l’allarme.
Kit entrò nella sala di controllo vera e propria. Daisy era stravaccata su una sedia, la giacca di pelle sopra la tuta della Hibernian Telecom. Kit osservò la fila di schermi. Sembrava tutto normale. La guardia dalla pelle scura, Don, lo scrutò con aria interrogativa. «Qui c’è qualche telefono che funziona?» chiese Kit, come copertura.
«Nessuno» rispose Don.
In basso, su ogni schermo, erano indicate ora e data. L’ora corrispondeva esattamente a quella del momento, di adesso – Kit se n’era accertato –, ma la data delle riprese era quella del giorno prima.
Kit contava sul fatto che nessuno guardasse mai la data. Le guardie controllavano i monitor alla ricerca di attività sospette, non avrebbero mai perso tempo con una scritta che diceva loro quello che già sapevano.
Sperava di non sbagliarsi.
Don si stava chiedendo perché mai il tecnico dei telefoni fosse così interessato ai monitor. «Desidera qualcosa?» disse, con aria di sfida.
Daisy grugnì e si mosse sulla sedia, come un cane che avverte la tensione fra gli umani.
Il cellulare di Kit squillò.
Tornò nella sala macchine. Il messaggio sullo schermo del portatile diceva: “Cremlino chiama Toni”. Pensò che Steve volesse comunicare a Toni l’arrivo della squadra di tecnici. Decise di lasciar passare la telefonata. Era possibile che Toni si rassicurasse e decidesse di non venire lì. Premette un tasto e rimase in ascolto con il suo cellulare.
«Parla Toni...