— Le stagioni non sono piú quelle di una volta! — si lamentava Antonia sbuffando per il caldo e facendosi vento con un cartone da torta. — Quando mai si sono visti trenta gradi ai primi di maggio?
Al di là delle persiane accostate, il terrazzo di cucina, con le sue piastrelle chiare, splendeva d’un bianco accecante. L’aria tremava per il calore e le piante di geranio nei vasi si ammosciavano come verdura bollita.
— Ines — chiese Prisca entrando in cucina. — Per caso hai visto Dinosaura?
— No. Qui non c’è. Ho appena spazzato e lavato per terra e l’avrei vista.
— E in terrazzo? Sei sicura che non sia uscita in terrazzo?
Bisognava trovarla assolutamente. Prisca sapeva per esperienza che le tartarughe sono bestie robustissime, resistenti a qualsiasi privazione, a qualsiasi incidente. Solo una cosa può considerarsi davvero micidiale per una tartaruga: il sole a picco nelle ore piú calde, se la poveretta non trova un cantuccio d’ombra dove rifugiarsi. Oltre una certa temperatura infatti il suo cuore non resiste, e la tartaruga muore, come aveva spiegato lo zio Leopoldo, di collasso cardiocircolatorio.
Prisca aveva già fatto la triste esperienza, quando era piccola, con una tartarughina che teneva in una scatola da scarpe e che un dopopranzo aveva dimenticato sul davanzale di una finestra dove il sole estivo picchiava senza tregua per tutto il pomeriggio. Quanto piangere, e quanti buoni proponimenti quando, per consolarla, le avevano regalato Dinosaura!
Ora sapeva che anche in terrazzo, a una cert’ora, non ci sarebbe stato un filo d’ombra, neppure dietro i vasi dei gerani. Aprí la porta della cucina e si mise a chiamare: — Dinosaura! Dinosaura! — Niente. Andò a prendere in frigorifero due ciliegie e le posò allettanti sotto al gradino. — Su, bella! Vieni a fare merenda! — Niente.
Allora uscí e si mise a perlustrare il terrazzo palmo a palmo, spostando tutti i vasi, ma Dinosaura proprio non c’era. Al di là della ringhiera il catrame che ricopriva la tettoia di quelli del piano di sotto si scioglieva per il caldo.
— Hai guardato nel terrario? — chiese Ines. Il terrario, una grande cassetta di legno piena di terra, sassi, erba e persino una bacinella d’acqua che faceva da laghetto, si trovava sul balcone della camera da letto di Prisca. Ma Dinosaura non ci stava volentieri e preferiva andarsene in giro per la casa.
— Ho guardato. Lí non c’è — disse Prisca, piena di tristi presentimenti.
— Smettila di preoccuparti. Sarà in salotto o in camera da letto di tua madre, nascosta sotto qualche mobile — la consolò Ines. — A ogni modo, sai cosa facciamo? Mettiamo fuori una sedia e la copriamo con un asciugamano bagnato che penda su tre lati. Cosí se per caso Dinosaura salta fuori da qualche parte, trova un po’ d’ombra dove rifugiarsi.
Ines aveva sempre delle idee straordinarie! Prisca le mandò un bacio sulle dita e corse a vestirsi. Era in ritardo per la lezione di matematica.
Ormai mancava poco piú d’un mese all’esame. La maestra aveva annunciato che c’erano solo ancora una decina di brani da imparare a memoria, e che poi la classe si sarebbe dedicata a un Grande Ripasso Generale.
La signora Sforza era serena, di buonumore, orgogliosissima della sua classe, adesso che aveva eliminato anche quell’ultima nota stonata di nome Guzzòn Adelaide.
Ancora non sapeva che Elisa, nel suo registro delle ingiustizie, aveva scritto in grande con la matita rossa
BASTA
e poi, nella riga piú sotto
VENDETTA
e in quella ancora piú sotto
CARNEFICINA
Adesso che non c’era piú il rischio di procurare guai alla povera Adelaide, Elisa aveva deciso di riprendere la sua battaglia e di costringere la signora Sforza a picchiarla, in modo da provocare la vendetta dello zio Casimiro. E probabilmente anche degli altri due zii, perché era improbabile che Leopoldo e Baldassarre se ne sarebbero restati con le mani in mano, non fosse altro che per emulazione nei confronti del fratello piú giovane.
Aveva fatto un sondaggio, per verificare che lo zio Casimiro fosse sempre nella stessa disposizione d’animo.
Un giorno, al ritorno da scuola, invece di salire di corsa a casa, si era seduta sul primo gradino delle scale e si era messa a pensare alle cose piú tristi che riusciva a farsi venire in mente. Non si era dovuta sforzare molto. C’erano il papà e la mamma lassú al cimitero, e quella povera bambina morta della fotografia. E c’era Iolanda che doveva fare la serva a quella superbiosa della nonna di Sveva, e Adelaide che veniva picchiata in quel modo terribile dalla madre, e poi c’era Domenico che mangiava gli avanzi tutti mescolati nel barattolo, e lo zio Casimiro, anche lui, poverino, che amava Ondina Múndula, e lei invece era innamorata di uno sconosciuto.
Elisa era una bambina molto sensibile, e dopo cinque minuti stava già piangendo a dirotto. Stando attenta a non pensare a niente di allegro che facesse cessare le lacrime e aiutandosi con dei singhiozzi, che sono come le ciliegie (diceva Prisca) perché uno tira l’altro, salí le scale, suonò il campanello e si gettò fra le braccia della tata che era venuta ad aprire.
— Santo cielo! Cosa c’è? Cosa ti hanno fatto? — strillò la tata, liberandola dalla cartella e spingendola verso la stanza da pranzo, dove gli zii e la nonna erano già seduti a tavola.
La nonna Mariuccia balzò in piedi e cominciò ad asciugarle la faccia col tovagliolo. — Cos’è successo?
— Ha detto… — singhiozzò Elisa. — Ha detto… che mi picchia… se lo faccio ancora.
Piú andava avanti e piú le riusciva facile. Quasi quasi le sembrava che quello che stava per raccontare fosse accaduto davvero e non fosse invece un’invenzione di Prisca, che naturalmente, insieme a Rosalba, la sosteneva e la assisteva in tutta la faccenda.
— Chi ha detto che ti picchia, se fai ancora cosa? — domandò lo zio Baldassarre.
— La maestra. Ho fatto cadere il calamaio sul pavimento e l’inchiostro è schizzato dappertutto. È dovuto venire il bidello, a pulire con lo straccio… — disse Elisa, fra un singhiozzo e l’altro. — E lei mi ha detto che se lo faccio un’altra volta mi picchia con la bacchetta. Ma io non l’ho fatto apposta.
— Con la bacchetta, eh? Che ci si provi! — disse subito lo zio Casimiro in tono feroce.
— Magari mi darà solo uno schiaffo… — suggerí Elisa smettendo di singhiozzare, ma con tono piagnucoloso.
— Uno schiaffo? Se ti mette le mani addosso l’avrà a che fare con me — disse lo zio Baldassarre.
— Non mi piacciono questi metodi di punizione — disse lo zio Leopoldo. — Quasi quasi domani passo a prenderti, all’uscita di scuola, e con l’occasione le dico che non si azzardi a toccarti. Se fai qualcosa di male, che ci avverta, e saremo noi a decidere se punirti e in che modo.
— No, no! Lascia stare. Altrimenti le mie compagne mi prendono in giro, mi dicono che sono una fifona… — disse Elisa, preoccupata che la sua bugia potesse venire scoperta. La maestra non si era mai sognata di minacciarla, e comunque non l’avrebbe certo picchiata soltanto per un calamaio.
— Hai ragione. I tuoi problemi scolastici li devi risolvere da sola — disse lo zio Leopoldo.
— Però se quella strega si azzarda a torcerti… che dico a torcerti? Se si azzarda a sfiorarti un capello, dillo a me — ripeté lo zio Casimiro.
Rassicurata da questa promessa, Elisa la riferí alle due amiche e insieme concordarono di riprendere il vecchio piano allo stesso punto in cui l’avevano lasciato, al momento cioè dell’espulsione di Iolanda.
— Però m… non lo voglio piú dire — protestò Elisa. — È una parola troppo volgare, e mi vergogno.
— D’accordo. Inventeremo qualche altra cosa.
Prisca e Rosalba si sentivano un po’ in colpa, perché il piano prevedeva che loro due restassero dietro le quinte a dare suggerimenti, e che fosse soltanto Elisa a sfidare apertamente le ire della maestra.
D’altronde non era affatto certo che – se la maestra avesse messo le mani addosso a una di loro due – qualche grande sarebbe intervenuto a chiedere vendetta. Nel caso di Prisca anzi, era probabile che suo padre le avrebbe detto: — Arrangiati — e a Rosalba, sua madre si sarebbe limitata a sospirare che le punizioni corporali non hanno niente di artistico, e suo padre, forse, avrebbe affidato il compito di protestare al signor Piras, che non era all’altezza di affrontare la maestra e comunque il suo intervento avrebbe coperto Rosalba di ridicolo.
Il loro sacrificio sarebbe dunque risultato inutile. — Sarebbe uno spreco farsi picchiare senza provocare in cambio una carneficina — le tranquillizzava Elisa.
Prisca era di pessimo umore perché non riusciva a trovare Dinosaura. L’aveva cercata dappertutto, ma la tartaruga sembrava scomparsa nel nulla.
— Sei sicura che Filippo non l’abbia gettata dalla finestra? — chiedeva angosciata a Ines. Loro abitavano al quinto piano.
— Non lo lascio mai avvicinare alla finestra, sta’ tranquilla — la rassicurava la bambinaia. — Se poi si arrampica e casca di sotto, altro che tartaruga! E chi la sente la signora?
— Gabriele! Sei stato tu! L’hai portata in soffitta per i tuoi esperimenti!
— Io sono contrario alla vivisezione — protestava Gabriele indignato.
— Vedrai che torna! — diceva Antonia. — Vedrai che me la ritroverò ancora tra i piedi. La mala erba non muore mai…
— Ma da DOVE torna? Dov’è, che è andata?
Nonostante lo sconforto causato da quella scomparsa, Prisca riuscí a dedicare mezz’ora al “Piano Carneficina” e il risultato fu una composizione poetica che Elisa imparò subito a memoria (con tutti quei brani, ormai era allenata!).
L’indomani, nell’ultima fase delle Grandi Manovre, Marcella, che era stata ingaggiata perché si infiltrasse come spia tra le Leccapiedi, disse sottovoce a Sveva, che dopo la scomparsa di Adelaide era tornata ad aprire la fila al suo fianco: — Ascolta un po’ cosa sta cantando Elisa Maffei! Secondo me non sono le parole giuste della canzone.
Sveva ascoltò, e un sorriso maligno le illuminò la faccia.
Il giorno seguente, a ricreazione, aspettò che Prisca, Elisa e Rosalba se ne andassero insieme al gabinetto (lo avevano fatto apposta: faceva parte del piano) e ordinò al resto della classe: — Oggi, all’uscita, che nessuna canti “Finito è un giorno” per intero. Solo le prime due o tre parole. Poi tacciamo all’improvviso. Sentirete che bella sorpresa.
I Conigli protestarono che la maestra le avrebbe punite.
— Se punirà qualcuno, quella non sarà nessuna di noi, ve lo garantisco. Mentre se non mi ubbidite, un paio di schiaffoni a testa non ve li leva nessuno.
Cosí, al momento della canzone, tutta la classe intonò “Finito è un giorno…” e si interruppe. Nell’atrio risuonò alta e limpida la voce solista di Elisa che cantava a gola spiegata:
In fronte ha un corno lavato nel cloro,
gli occhi ha porcini: non è una beltà
la mia maestra, medaglia d’oro
di cattiveria e di falsità.
La gente che si trovava piú vicino, grandi e piccoli, si misero a ridere, mentre le compagne guardarono Elisa esterrefatte. Era diventata pazza all’improvviso? Ma no! Se Sveva se n’era accorta fin dal giorno prima, evidentemente quei versi oltraggiosi venivano cantati già da qualche tempo. E la signora Sforza come l’avrebbe presa?
La maestr...