Cuore
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Cuore

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Le celeberrime gesta del buon Garrone e del perfido Franti, del tamburino sardo e della piccola vedetta lombarda. Opera dello scrittore-giornalista ligure (1846-1908), apparso nel 1886, Cuore è uno dei più importanti e intramontabili successi letterari italiani.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804251200
eBook ISBN
9788852010774

MAGGIO

I BAMBINI RACHITICI
Venerdì, 5.
Oggi ho fatto vacanza perché non stavo bene, e mia madre m’ha condotto con sé all’istituto dei ragazzi rachitici, dov’è andata a raccomandare una bimba del portinaio; ma non mi ha lasciato entrar nella scuola...
«Non hai capito perché, Enrico, non ti lasciai entrare? Per non mettere davanti a quei disgraziati, lì nel mezzo della scuola, quasi come in mostra, un ragazzo sano e robusto: troppe occasioni hanno già di trovarsi a dei paragoni dolorosi. Che triste cosa! Mi venne su il pianto dal cuore a entrar là dentro. Erano una sessantina, tra bambini e bambine... Povere ossa torturate! Povere mani, poveri piedini rattrappiti e scontorti! Poveri corpicini contraffatti! Subito osservai molti visi graziosi, degli occhi pieni d’intelligenza e di affetto: c’era un visetto di bimba col naso affilato e il mento aguzzo, che pareva una vecchietta; ma aveva un sorriso d’una soavità celeste. Alcuni, visti davanti, son belli, e paion senza difetti; ma si voltano... e vi danno una stretta all’anima. C’era il medico, che li visitava. Li metteva ritti sui banchi, e alzava i vestitini per toccare i ventri enfiati e le giunture grosse; ma non si vergognavano punto, povere creature; si vedeva che eran bambini assuefatti a essere svestiti, esaminati, rivoltati per tutti i versi. E pensare che ora son nel periodo migliore della loro malattia, ché quasi non soffron più. Ma chi può dire quello che soffrirono durante il primo deformarsi del corpo, quando col crescere della loro infermità, vedevano diminuire l’affetto intorno a sé, poveri bambini, lasciati soli per ore ed ore nell’angolo d’una stanza o d’un cortile, mal nutriti, e a volte scherniti, o tormentati per mesi da bendaggi e da apparecchi ortopedici inutili! Ora però, grazie alle cure, alla buona alimentazione e alla ginnastica, molti migliorano. La maestra fece fare la ginnastica. Era una pietà, a certi comandi, vederli distender sotto i banchi tutte quelle gambe fasciate, strette fra le stecche, nocchierute, sformate; delle gambe che si sarebbero coperte di baci! Parecchi non potevano alzarsi dal banco, e rimanevan lì, col corpo ripiegato sul braccio, accarezzando le stampelle con la mano: altri, facendo la spinta delle braccia, si sentivan mancare il respiro, e ricascavano a sedere, pallidi; ma sorridevano, per dissimulare l’affanno. Ah! Enrico, voi altri che non pregiate la salute, e vi sembra così poca cosa lo star bene! Io pensavo ai bei ragazzi forti e fiorenti, che le madri portano in giro come in trionfo, superbe della loro bellezza; e mi sarei prese tutte quelle povere teste, me le sarei strette tutte sul cuore, disperatamente; avrei detto, se fossi stata sola: non mi movo più di qui, voglio consacrare la vita a voi, servirvi, farvi da madre a tutti fino al mio ultimo giorno... E intanto cantavano; cantavano con certe vocine esili, dolci, tristi, che andavano all’anima, e la maestra avendoli lodati, si mostrarono contenti; e mentre passava tra i banchi, le baciavano le mani e le braccia, perché senton tanta gratitudine per chi li benefica, e sono molto affettuosi. E anche hanno ingegno, quegli angioletti, e studiano, mi disse la maestra. Una maestra giovane e gentile, che ha sul viso pieno di bontà una certa espressione di mestizia, come un riflesso delle sventure che essa accarezza e consola. Cara ragazza! Fra tutte le creature umane che si guadagnan la vita col lavoro, non ce n’è una che se la guadagni più santamente di te, figliuola mia.
TUA MADRE.
SACRIFICIO
9, martedì.
Mia madre è buona, e mia sorella Silvia è come lei, ha lo stesso cuore grande e gentile. Io stavo copiando ieri sera una parte del racconto mensile Dagli Apennini alle Ande, che il maestro ci ha dato a copiare un poco a tutti, tanto è lungo; quando Silvia entrò in punta di piedi e mi disse in fretta e piano: – Vieni con me dalla mamma. Gli ho sentiti stamani che discorrevano: al babbo è andato male un affare, era addolorato, la mamma gli faceva coraggio: siamo nelle strettezze, capisci? non ci sono più denari. Il babbo diceva che bisognerà fare dei sacrifici per rimettersi. Ora bisogna che ne facciamo anche noi dei sacrifici, non è vero? Sei pronto? Bene, parlo alla mamma, e tu accenna di sì e promettile sul tuo onore che farai tutto quello che dirò io. – Detto questo, mi prese per mano, e mi condusse da nostra madre, che stava cucendo tutta pensierosa; io sedetti da una parte del sofà, Silvia sedette dall’altra, e subito disse: – Senti, mamma, ho da parlarti. Abbiamo da parlarti tutti e due. – La mamma ci guardò meravigliata. E Silvia cominciò: – Il babbo è senza denari, è vero? – Che dici? – rispose la mamma arrossendo. – Non è vero! Che ne sai tu? Chi te l’ha detto? – Lo so, – disse Silvia risoluta. – Ebbene, senti, mamma; dobbiamo fare dei sacrifici anche noi. Tu m’avevi promesso un ventaglio per la fin di maggio, e Enrico aspettava la sua scatola di colori; non vogliamo più nulla; non vogliamo che si sprechino i soldi; saremo contenti lo stesso, hai capito? – La mamma tentò di parlare; ma Silvia disse: – No, sarà così. Abbiamo deciso. E fin che il babbo non avrà dei denari, non vogliamo più né frutta né altre cose; ci basterà la minestra, e la mattina a colazione mangeremo del pane; così si spenderà meno a tavola, che già spendiamo troppo, e noi ti promettiamo che ci vedrai sempre contenti ad un modo. Non è vero, Enrico? – Io risposi di sì. – Sempre contenti ad un modo, – ripeté Silvia, chiudendo la bocca alla mamma con una mano; – e se c’è altri sacrifizi da fare, o nel vestire, o in altro, noi li faremo volentieri, e vendiamo anche i nostri regali; io do tutte le mie cose, ti servo io di cameriera, non daremo più nulla a fare fuor di casa, lavorerò con te tutto il giorno, farò tutto quello che vorrai, son disposta a tutto! A tutto – esclamò gettando le braccia al collo a mia madre; – pur che il babbo e la mamma non abbian più dispiaceri, pur ch’io torni a vedervi tutti e due tranquilli, di buon umore come prima in mezzo alla vostra Silvia e al vostro Enrico, che vi vogliono tanto bene, che darebbero la loro vita per voi! – Ah! io non vidi mai mia madre così contenta come a sentir quelle parole; non ci baciò mai in fronte a quel modo, piangendo e ridendo, senza poter parlare. E poi assicurò Silvia che aveva capito male, che non eravamo mica ridotti come essa credeva, per fortuna, e cento volte ci disse grazie, e fu allegra tutta la sera, fin che rientrò mio padre, a cui disse tutto. Egli non aperse bocca, povero padre mio! Ma questa mattina sedendo a tavola... provai insieme un gran piacere e una gran tristezza: io trovai sotto il tovagliolo la mia scatola, e Silvia ci trovò il suo ventaglio.
L’INCENDIO
11, giovedì.
Questa mattina io avevo finito di copiare la mia parte del racconto Dagli Apennini alle Ande, e stavo cercando un tema per la composizione libera che ci diede da fare il maestro, quando udii un vocìo insolito per le scale, e poco dopo entrarono in casa due pompieri, i quali domandarono a mio padre il permesso di visitar le stufe e i camini, perché bruciava un fumaiolo sui tetti, e non si capiva di chi fosse. Mio padre disse: – Facciano pure, – e benché non avessimo fuoco acceso da nessuna parte, essi cominciarono a girar per le stanze e a metter l’orecchio alle pareti, per sentire se rumoreggiasse il foco dentro alle gole che vanno su agli altri piani della casa.
E mio padre mi disse, mentre giravan per le stanze: – Enrico, ecco un tema per la tua composizione: I pompieri. Provati un po’ a scrivere quello che ti racconto. Io li vidi all’opera due anni fa, una sera che uscivo dal teatro Balbo, a notte avanzata.* Entrando in via Roma, vidi una luce insolita, e un’onda di gente che accorreva: una casa era in fuoco: lingue di fiamma e nuvoli di fumo rompevan dalle finestre e dal tetto; uomini e donne apparivano ai davanzali e sparivano, gettando grida disperate, c’era gran tumulto davanti al portone; la folla gridava: – Brucian vivi! Soccorso! I pompieri! – Arrivò in quel punto una carrozza, ne saltaron fuori quattro pompieri, i primi che s’eran trovati al Municipio, e si slanciarono dentro alla casa. Erano appena entrati che si vide una cosa orrenda: una donna s’affacciò urlando a una finestra del terzo piano, s’afferrò alla ringhiera, la scavalcò, e rimase afferrata così, quasi sospesa nel vuoto, con la schiena in fuori, curva sotto il fumo e le fiamme, che fuggendo dalla stanza le lambivan quasi la testa. La folla gettò un grido di raccapriccio. I pompieri, arrestati per isbaglio al secondo piano dagli inquilini atterriti, avevan già sfondato un muro e s’eran precipitati in una camera; quando cento grida li avvertirono: – Al terzo piano! Al terzo piano! – Volarono al terzo piano. Qui era un rovinio d’inferno: travi di tetto che crollavano, corridoi pieni di fiamme, un fumo che soffocava. Per arrivare alle stanze dov’eran gli inquilini rinchiusi, non restava altra via che passar pel tetto. Si lanciaron subito su, e un minuto dopo si vide come un fantasma nero saltar sui coppi, tra il fumo. Era il caporale arrivato il primo. Ma per andare dalla parte del tetto che corrispondeva al quartierino chiuso dal fuoco, gli bisognava passare sopra un ristrettissimo spazio compreso tra un abbaino e la grondaia; tutto il resto fiammeggiava, e quel piccolo tratto era coperto di neve e di ghiaccio, e non c’era dove aggrapparsi. È impossibile che passi! – gridava la folla di sotto. Il caporale s’avanzò sull’orlo del tetto: – tutti rabbrividirono, e stettero a guardar col respiro sospeso: – passò: – un immenso evviva salì al cielo. Il caporale riprese la corsa, e arrivato al punto minacciato, cominciò a spezzare furiosamente a colpi d’accetta coppi, travi, correntini, per aprirsi una buca da scender dentro. Intanto la donna era sempre sospesa fuor della finestra, il fuoco le infuriava sul capo, un minuto ancora, e sarebbe precipitata nella via. La buca fu aperta, si vide il caporale levarsi la tracolla e calarsi gi; gli altri pompieri, sopraggiunti, lo seguirono. Nello stesso momento un’altissima scala Porta, arrivata allora, s’appoggiò al cornicione della casa, davanti alle finestre da cui uscivano fiamme e urli da pazzi. Ma si credeva che fosse tardi. – Nessuno si salva più, – gridavano. – I pompieri bruciano. – È finita. – Son morti. – All’improvviso si vide apparire alla finestra della ringhiera la figura nera del caporale, illuminata di sopra in giù dalle fiamme; – la donna gli s’avvinghiò al collo: – egli l’afferrò alla vita con tutt’e due le braccia, la tirò su, la depose dentro alla stanza. La folla mise un grido di mille voci, che coprì il fracasso dell’incendio. Ma e gli altri? e discendere? La scala, appoggiata al tetto davanti a un’altra finestra, distava dal davanzale un buon tratto. Come avrebbero potuto attaccarvisi? Mentre questo si diceva, uno dei pompieri si fece fuori della finestra, mise il piede destro sul davanzale e il sinistro sulla scala, e così ritto per aria, abbracciati ad uno ad uno gli inquilini, che gli altri gli porgevan di dentro, li porse a un compagno, ch’era salito su dalla via, e che, attaccatili bene ai pioli, li fece scendere, l’un dopo l’altro, aiutati da altri pompieri di sotto. Passò prima la donna della ringhiera, poi una bimba, un’altra donna, un vecchio. Tutti eran salvi. Dopo il vecchio, scesero i pompieri rimasti dentro; ultimo a scendere fu il caporale, che era stato il primo ad accorrere. La folla li accolse tutti con uno scoppio d’applausi; ma quando comparve l’ultimo, l’avanguardia dei salvatori, quello che aveva affrontato innanzi agli altri l’abisso, quello che sarebbe morto, se uno avesse dovuto morire, la folla lo salutò come un trionfatore, gridando e stendendo le braccia con uno slancio affettuoso d’ammirazione e di gratitudine, e in pochi momenti il suo nome oscuro – Giuseppe Robbino – suonò su mille bocche... Hai capito? Quello è coraggio, il coraggio del cuore, che non ragiona, che non vacilla, che va diritto cieco fulmineo dove sente il grido di chi muore. Io ti condurrò un giorno agli esercizi dei pompieri, e ti farò vedere il caporale Robbino; perché saresti molto contento di conoscerlo, non è vero?
Risposi di sì.
– Eccolo qua, – disse mio padre.
Io mi voltai di scatto. I due pompieri, terminata la visita, attraversavan la stanza per uscire.
Mio padre m’accennò il più piccolo, che aveva i galloni, e mi disse: – Stringi la mano al caporale Robbino.
Il caporale si fermò e mi porse la mano, sorridendo: io glie la strinsi; egli mi fece un saluto ed uscì.
– E ricordatene bene, – disse mio padre, – perché delle migliaia di mani che stringerai nella vita, non ce ne sarà forse dieci che valgan la sua.

DAGLI APENNINI ALLE ANDE

(Racconto mensile)
Molti anni fa un ragazzo genovese di tredici anni, figliuolo d’un operaio, andò da Genova in America, – solo, – per cercare sua madre.
Sua madre era andata due anni prima a Buenos Aires, città capitale della Repubblica Argentina, per mettersi al servizio di qualche casa ricca, e guadagnar così in poco tempo tanto da rialzare la famiglia, la quale, per effetto di varie disgrazie, era caduta nella povertà e nei debiti. Non sono poche le donne coraggiose che fanno un così lungo viaggio con quello scopo, e che grazie alle grandi paghe che trova laggiù la gente di servizio, ritornano in patria a capo di pochi anni con qualche migliaio di lire. La povera madre aveva pianto lacrime di sangue al separarsi dai suoi figliuoli, l’uno di diciott’anni e l’altro di undici; ma era partita con coraggio, e piena di speranza. Il viaggio era stato felice: arrivata appena a Buenos Aires, aveva trovato subito, per mezzo d’un bottegaio genovese, cugino di suo marito, stabilito là da molto tempo, una buona famiglia argentina, che la pagava molto e la trattava bene. E per un po’ di tempo aveva mantenuto coi suoi una corrispondenza regolare. Com’era stato convenuto fra loro, il marito dirigeva le lettere al cugino, che le recapitava alla donna, e questa rimetteva le risposte a lui, che le spediva a Genova, aggiungendovi qualche riga di suo. Guadagnando ottanta lire al mese e non spendendo nulla per sé, mandava a casa ogni tre mesi una bella somma, con la quale il marito, che era galantuomo, andava pagando via via i debiti più urgenti, e riguadagnando così la sua buona reputazione. E intanto lavorava ed era contento dei fatti suoi, anche per la speranza che la moglie sarebbe ritornata fra non molto tempo, perché la casa pareva vuota senza di lei, e il figliuolo minore in special modo, che amava moltissimo sua madre, si rattristava, non si poteva rassegnare alla sua lontananza.
Ma trascorso un anno dalla partenza, dopo una lettera breve nella quale essa diceva di star poco bene di salute, non ne ricevettero più. Scrissero due volte al cugino; il cugino non rispose. Scrissero alla famiglia argentina, dove la donna era a servire; ma non essendo forse arrivata la lettera perché avean storpiato il nome sull’indirizzo, non ebbero risposta. Temendo d’una disgrazia, scrissero al Consolato italiano di Buenos Aires, che facesse fare delle ricerche; e dopo tre mesi fu risposto loro dal Console che, nonostante l’avviso fatto pubblicare dai giornali, nessuno s’era presentato, neppure a dare notizie. E non poteva accadere altrimenti, oltre che per altre ragioni, anche per questa: che con l’idea di salvare il decoro dei suoi, ché le pareva di macchiarlo a far la serva, la buona donna non aveva dato alla famiglia argentina il suo vero nome. Altri mesi passarono, nessuna notizia. Padre e figliuoli erano costernati; il più piccolo, oppresso da una tristezza che non poteva vincere. Che fare? A chi ricorrere? La prima idea del padre era stata di partire, d’andar a cercar sua moglie in America. Ma e il lavoro? chi avrebbe mantenuto i suoi figliuoli? E neppure avrebbe potuto partire il figliuol maggiore, che cominciava appunto allora a guadagnar qualche cosa, ed era necessario alla famiglia. E in questo affanno vivevano, ripetendo ogni giorno gli stessi discorsi dolorosi, o guardandosi l’un l’altro, in silenzio. Quando una sera Marco, il più piccolo, uscì a dire risolutamente: – Ci vado io in America a cercar mia madre. – Il padre crollò il capo, con tristezza, e non rispose. Era un pensiero affettuoso, ma una cosa impossibile. A tredici anni, solo, fare un viaggio in America, che ci voleva un mese ad andarci! Ma il ragazzo insistette, pazientemente. Insistette quel giorno, il giorno dopo, tutti i giorni, con una grande pacatezza, ragionando col buon senso d’un uomo. – Altri ci sono andati, – diceva, – e più piccoli di me. Una volta che son sul bastimento, arrivo là come un altro. Arrivato là, non ho che a cercare la bottega del cugino. Ci son tanti italiani, qualcheduno m’insegnerà la strada. Trovato il cugino, è trovata mia madre, e se non trovo lui, vado dal Console, cercherò la famiglia argentina. Qualunque cosa accada, laggiù c’è del lavoro per tutti; troverò del lavoro anch’io, almeno per guadagnar tanto da ritornare a casa. – E così, a poco a poco, riuscì quasi a persuadere suo padre. Suo padre lo stimava, sapeva che aveva giudizio e coraggio, che era assuefatto alle privazioni e ai sacrifizi, e che tutte queste buone qualità avrebbero preso doppia forza nel suo cuore per quel santo scopo di trovar sua madre, ch’egli adorava. Si aggiunse pure che un Comandante di piroscafo, amico d’un suo conoscente, avendo inteso parlar della cosa, s’impegnò di fargli aver gratis un biglietto di terza classe per l’Argentina. E allora, dopo un altro po’ di esitazione, il padre acconsentì, il viaggio fu deciso. Gli empirono una sacca di panni, gli misero in tasca qualche scudo, gli diedero l’indirizzo del cugino, e una bella sera del mese di aprile lo imbarcarono. – Figliuolo, Marco mio, – gli disse il padre dandogli l’ultimo bacio, con le lacrime agli occhi, sopra la scala del piroscafo che stava per partire: – fatti coraggio. Parti per un santo fine e Dio t’aiuterà.
Povero Marco! Egli aveva il cuor forte e preparato anche alle più dure prove per quel viaggio; ma quando vide sparire all’orizzonte la sua bella Genova, e si trovò in alto mare, su quel grande piroscafo affollato di contadini emigranti, solo, non conosciuto da alcuno, con quella piccola sacca, che racchiudeva tutta la sua fortuna, un improvviso scoraggiamento lo assalì. Per due giorni stette accucciato come un cane a prua, non mangiando quasi, oppresso da un gran bisogno di piangere. Ogni sorta di tristi pensieri gli passavan per la mente, e il più triste, il più terribile era il più ostinato a tornare: il pensiero che sua madre fosse morta. Nei suoi sonni rotti e penosi egli vedeva sempre la faccia d’uno sconosciuto, che lo guardava in aria di compassione e poi gli diceva all’orecchio: – Tua madre è morta. – E allora si svegliava soffocando un grido. Nondimeno, passato lo stretto di Gibilterra, alla prima vista dell’Oceano atlantico, riprese un poco d’animo e di speranza. Ma fu breve sollievo. Quell’immenso mare sempre eguale, il calore crescente, la tristezza di tutta quella povera gente che lo circondava, il sentimento della propria solitudine tornarono a buttarlo giù. I giorni, che si succedevano vuoti e monotoni, gli si confondevano nella memoria, come accade ai malati. Gli pareva d’essere in mare da un anno. E ogni mattina, svegliandosi, provava un nuovo stupore di esser là solo, in mezzo a quella immensità d’acqua, in viaggio per l’America. I bei pesci volanti che venivano ogni tanto a cascare sul bastimento, quei...

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