
eBook - ePub
La metamorfosi
e altri racconti
- 266 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro
Il volume raccoglie i più significativi racconti scelti dallo stesso Kafka per la pubblicazione, quelli che meglio ne illustrano la complessa poetica: il senso dell'ambiguità, lo spiazzamento, la continua ricerca dell'allegoria e della metafora.
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Informazioni
Print ISBN
9788804492559eBook ISBN
9788852013065I
Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta da letto, vicina a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà, rispetto alla sua corporatura normale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinanzi ai suoi occhi.
Cosa m’è avvenuto? pensò. Non era un sogno. La sua camera, una stanzetta di giuste proporzioni, soltanto un po’ piccola, se ne stava tranquilla fra le quattro ben note pareti. Sulla tavola, un campionario disfatto di tessuti – Samsa era commesso viaggiatore e sopra, appeso alla parete, un ritratto, ritagliato da lui – non era molto – da una rivista illustrata e messo dentro una bella cornice dorata: raffigurava una donna seduta, ma ben dritta sul busto, con un berretto e un boa di pelliccia; essa levava incontro a chi guardava un pesante manicotto, in cui scompariva tutto l’avambraccio.
Lo sguardo di Gregorio si rivolse allora verso la finestra, e il cielo fosco (si sentivano battere le gocce di pioggia sullo zinco della finestra) lo immalinconì completamente. Che avverrebbe se io dormissi ancora un poco e dimenticassi ogni pazzia? pensò; ma ciò era assolutamente impossibile, perché Gregorio era abituato a dormire sulla destra, ma non poteva, nelle sue attuali condizioni, mettersi in quella posizione. Per quanto si gettasse con tutta la sua forza da quella parte, tornava sempre oscillando sul dorso: provò per cento volte, chiuse gli occhi per non veder le sue zampine dimenanti, e rinunciò soltanto quando cominciò a sentire nel fianco un dolore sottile e sordo, ancora non mai provato.
O Dio, pensava, che professione faticosa ho scelto! Ogni giorno su e giù in treno. L’affanno per gli affari è molto più intenso che in un vero e proprio ufficio, e v’è per giunta questa piaga del viaggiare, le preoccupazioni per le coincidenze dei treni, la nutrizione irregolare e cattiva; le relazioni cogli uomini poi cambiano ad ogni momento e non possono mai diventare durature né cordiali. Al diavolo ogni cosa! Sentendo un leggero prurito nella parte più alta del ventre, si spinse lentamente sulla schiena verso una colonnetta del letto per poter alzar meglio il capo: il punto che pizzicava era tutto coperto di puntini bianchi, di cui non sapeva che pensare; si provò a toccarlo con una gamba, ma subito la ritrasse perché al primo contatto lo aveva percorso un brivido.
Così sdrucciolò di nuovo nella posizione di prima: queste levatacce, pensava, istupidiscono completamente. L’uomo deve avere il suo sonno. Altri commessi viaggiatori vivono come donne di un harem. Quando io, per esempio, durante la mattinata vado alla trattoria per trascrivere le commissioni avute, quei signori stanno appena facendo colazione. Dovrei provare a farlo io, col mio principale! Volerei via in un baleno. Chi sa, del resto, potrebbe essere un vantaggio per me! Se non mi trattenessi per i miei genitori, mi sarei licenziato da un pezzo: me ne sarei andato dal principale e gli avrei detto il mio parere dal profondo del cuore. Sarebbe sceso allora dalla sua cattedra! Anche quella è una bella invenzione, mettersi in cattedra a parlare dall’alto in basso coll’impiegato, il quale poi gli si deve avvicinare sempre più a causa della sua sordità. Be’, ogni speranza non è perduta: una volta che io abbia raccapezzato del denaro per pagargli il debito dei genitori – ancora cinque o sei anni – questo lo farò senz’altro. Allora avverrà il gran distacco. Intanto bisogna che io mi alzi in ogni modo perché il treno parte alle cinque.
E dette un’occhiata alla sveglia, che ticchettava sul cassettone. Dio del Cielo! pensò. Erano le sei e mezzo e le lancette proseguivano tranquillamente il loro cammino, anzi la mezza era quasi passata e si avvicinavano già i tre quarti. La sveglia non aveva dunque funzionato? Si vedeva dal letto una lancetta regolarmente fissata sulle quattro e senza dubbio la sveglia doveva aver suonato. Ma era stato dunque possibile rimanere sordi nel sonno a quel suono che scuoteva i mobili? Certo, non aveva avuto un sonno tranquillo ma, forse perciò, tanto più pesante. Ed ora che cosa doveva fare? Il prossimo treno partiva alle sette; per riuscire ad acchiapparlo, bisognava che egli si affrettasse in maniera inverosimile; il campionario inoltre non era ancora pronto e del resto egli stesso non si sentiva molto fresco e svelto. Ma anche se fosse riuscito a prendere quel treno, un rimprovero del principale non c’era da evitarlo, perché il fattorino della ditta lo aveva atteso al treno delle cinque, e certamente aveva già riferito la sua trascuratezza. Era una creatura del principale, senza volontà né comprendonio. E se si desse malato? Ma ciò sarebbe stato molto penoso e sospetto, perché Gregorio non era stato malato neppure una volta nel suo quinquennio di impiego. Certamente sarebbe venuto il principale col medico della cassa malattie, avrebbe fatto delle rimostranze ai genitori per il figlio pigro, e avrebbe troncato tutte le obiezioni richiamandosi al dottore, per cui del resto non esistono che uomini completamente sani ma poltroni. E avrebbe avuto in questo caso tutti i torti? Gregorio si sentiva proprio bene, all’infuori di una sonnolenza veramente inspiegabile dopo un riposo così lungo, e aveva perfino ottimo appetito.
Mentre faceva tutte queste considerazioni in gran furia, senza potersi decidere a lasciare il letto – l’orologio suonò appunto le sei e tre quarti – sentì picchiare con prudenza alla porta a capo del letto.
«Gregorio» chiamava una voce (era la mamma) «è già un quarto alle sette. Non volevi partire?»
Oh, la dolce voce! Gregorio si spaventò quando sentì la propria risposta: era indiscutibilmente la sua voce di prima, ma vi si mischiava, quasi salisse dal basso, un pigolìo incontenibile, doloroso, che lasciava comprendere le parole soltanto in un primo momento, ma le confondeva poi talmente nell’eco da far dubitare di averle intese. Gregorio voleva rispondere distesamente e spiegare tutto ma, in queste condizioni, si limitò soltanto a dire: «Sì, sì, grazie mamma, sto già levandomi». La porta di legno impediva certamente che si notasse il cambiamento della sua voce; la madre infatti si tranquillizzò a questa risposta e se ne andò ciabattando. Ma da quel breve colloquio anche gli altri membri della famiglia erano stati avvisati che Gregorio, contro ogni aspettativa, era ancora in casa e già il padre bussava debolmente, ma con il pugno.
«Gregorio, Gregorio» chiamava «che c’è?» e dopo un piccolo intervallo ripeteva ancora a voce più bassa:
«Gregorio, Gregorio!»
Dall’altra porta laterale la sorella gemeva piano:
«Gregorio? Non ti senti bene? Hai bisogno di qualcosa?»
In tutt’e due le direzioni Gregorio rispose: «Sono già pronto» e si affannò a togliere alla sua voce ogni anormalità, con la più accurata dizione e con l’intercalare lunghe pause fra le singole parole. Il padre tornò alla sua colazione, ma la sorella sussurrò:
«Gregorio, apri te ne scongiuro.»
Ma Gregorio non ci pensava neanche ad aprire, anzi lodava in cuor suo la precauzione, acquistata col viaggiare, di chiudere a chiave anche a casa tutte le porte durante la notte.
Ora intanto voleva alzarsi tranquillo e indisturbato, vestirsi e soprattutto far colazione; solo allora avrebbe pensato al resto, poiché – se n’era ormai accorto – rimanendo a letto non sarebbe arrivato con le sue riflessioni ad una conclusione ragionevole.
Si ricordava di aver provato già più volte a letto un doloretto, forse provocato da una incomoda posizione, che poi, appena alzato, si era dimostrato soltanto pura immaginazione: era curioso di vedere come le sue fantasie sarebbero sfumate lentamente quel giorno. Egli non dubitava menomamente che il cambiamento della sua voce fosse soltanto l’annuncio di un forte raffreddore, un malanno professionale dei commessi viaggiatori.
Buttar via la coperta era una cosa molto semplice: bastò ch’egli si gonfiasse un poco per farla cadere da sé. Ma dopo cominciarono le difficoltà, specialmente perché egli era inverosimilmente largo. Avrebbe avuto bisogno di braccia e di mani per levarsi, e invece aveva soltanto tutte quelle zampine, che senza interruzioni si agitavano in ogni senso e che inoltre egli non sapeva comandare. Se provava a piegarne una, subito egli s’irrigidiva, e quando gli riusciva finalmente di far con quella zampina quel che voleva, tutte le altre si muovevano intanto come sfrenate ad una altissima e dolorosa intensità. «Basta non trattenersi più così inutilmente a letto!» si diceva Gregorio.
Dapprima voleva scendere dal letto con la parte inferiore del corpo, ma era troppo difficile smuoverla e poi egli non l’aveva ancora veduta e non sapeva neanche farsene un’idea esatta: era così lento a muoversi! Quando finalmente, quasi pazzo dalla rabbia e raccogliendo tutte le sue forze, si slanciò senza riguardo in avanti, sbagliò direzione, batté violentemente contro la colonnetta in fondo al letto, e il dolore cocente che provò allora gli insegnò che proprio la parte inferiore del suo corpo era forse momentaneamente la più sensibile.
Cercò perciò di scendere dal letto con la parte superiore, e voltò la testa con prudenza verso l’orlo del letto. Questa manovra riuscì facilmente, e nonostante la sua larghezza e il suo peso tutta la massa del corpo seguì alla fine lentamente il movimento della testa. Ma quando la sporse fuori del letto nel vuoto, ebbe paura di spingersi ancora innanzi: se infatti si lasciava cadere giù così, doveva proprio accadere un miracolo perché la testa non si ferisse. E i sensi, proprio ora, non doveva correre il rischio di perderli a nessun costo; piuttosto sarebbe restato a letto.
Ma quando, dopo altrettanta fatica, egli si ritrovò sospirando nella posizione di prima, e vide le sue zampine che combattevano sempre più furiosamente se era possibile, l’una contro l’altra, e non trovò nessun modo di portare in quella confusione ordine e calma, si disse ancora una volta che non poteva assolutamente restare a letto, e che l’idea più ragionevole era di fare qualunque sacrificio, se c’era anche la minima speranza di scenderne. Nello stesso tempo e quasi ad intervalli non si dimenticò che è preferibile una calma, anzi la più calma riflessione, a decisioni disperate. In quei momenti egli volgeva gli occhi con la maggior acutezza possibile verso la finestra, ma purtroppo a veder la nebbia mattutina, che nascondeva perfino le case di fronte nella stretta strada, c’era da acquistare poca fiducia e buon umore. «Già le sette» si disse al nuovo scoccar dell’ora «già le sette e ancora questa nebbia.» E per un poco se ne stette tranquillo respirando appena, come se aspettasse da una piena tranquillità il ritorno dei rapporti soliti e naturali.
Ma poi si disse: «Prima delle sette e un quarto bisogna assolutamente che abbia lasciato interamente il letto. Del resto nel frattempo sarà certo venuto qualcuno a domandare di me, poiché l’ufficio si apre prima delle sette». E si mise all’opera per spostare, con una oscillazione sempre uniforme, il corpo in tutta la sua lunghezza fuori del letto. Lasciandosi cadere in questa maniera, il capo, che cadendo voleva tenere ben sollevato, doveva rimanere logicamente illeso. La schiena sembrava essere dura, e cadendo sul tappeto non si sarebbe forse danneggiata. La preoccupazione più grave era per lo schianto che sarebbe avvenuto, e che probabilmente avrebbe destato dietro le porte, se non timori, per lo meno preoccupazioni. Ma bisognava rischiare.
Gregorio si sporgeva già a metà del letto – il nuovo metodo era piuttosto un giuoco che una fatica: bastava che egli continuasse a oscillare a scatti – quando gli venne in mente come tutto sarebbe semplice, se gli si venisse in aiuto. Due persone robuste – pensava a sua madre e alla donna di servizio – sarebbero bastate; avrebbero dovuto insinuare le braccia sotto la sua schiena arcuata e così farlo sgusciare dal letto; poi chinarsi col peso e permettere soltanto, colla dovuta cautela, che egli completasse la manovra sul pavimento, ove le zampine avrebbero probabilmente acquistato una ragion d’essere. Be’, a parte completamente il fatto che le porte erano chiuse a chiave, avrebbe veramente dovuto chiedere aiuto? Nonostante le sue disgraziate condizioni, a questo pensiero non poté reprimere un risolino.
Era già arrivato ad un punto che, a una maggior oscillazione, non sarebbe riuscito a mantenere l’equilibrio; doveva dunque decidersi, poiché tra cinque minuti erano le sette e un quarto: in quel momento si suonò alla porta di casa. «È qualcuno dell’ufficio» si disse Gregorio e si sentì quasi agghiacciare mentre le sue zampine ballavano ancor più velocemente. Per un attimo tutto rimase quieto. «Non aprono» si disse Gregorio preso da una illogica speranza. Ma poi la donna di servizio andò, come sempre, col suo passo pesante verso la porta e aprì. A Gregorio bastò intendere la prima parola di saluto del visitatore per capire subito chi fosse: il procuratore in persona. Perché mai Gregorio era condannato a lavorare in una ditta, presso la quale la più piccola trascuratezza provocava il maggior sospetto? Gli impiegati, erano dunque tutti quanti dei mascalzoni? Non esisteva dunque tra di loro un uomo affezionato e fidato che, quando non aveva utilizzato un paio d’ore della mattina per il lavoro, diventava come pazzo dal rimorso e non era quindi in condizioni di lasciare il letto? Non sarebbe dunque bastato farsi informare da un apprendista se pure questa inchiesta era necessaria – ma il procuratore in persona doveva venire, e dimostrare con ciò a tutta l’innocente famiglia che l’esame di questo caso sospetto poteva venire affidato soltanto alla sua intelligenza? E più per l’eccitamento a cui fu portato da queste considerazioni, che per una vera e propria decisione, Gregorio si slanciò con tutta la sua forza fuori del letto. Si sentì un colpo forte, ma non un vero schianto. La caduta fu attenuata un poco anche dal tappeto; inoltre la schiena era più elastica di quel che Gregorio non credesse; così ne venne fuori un suono cupo che non si notò però molto. Soltanto non era riuscito a tenere il capo abbastanza prudentemente, e lo aveva battuto, lo girò e lo stropicciò sul tappeto dalla rabbia e il dolore.
«Lì dentro è caduto qualcosa» disse il procuratore nella stanza accanto, a sinistra. Gregorio provò a immaginarsi se anche al procuratore non potesse succedere una volta qualcosa di simile a quel che capitava a lui oggi: una tale possibilità veramente bisognava pure ammetterla. Ma quasi per ribattere duramente a questa ipotesi il procuratore faceva ora due passi nella stanza accanto facendo scricchiolare le sue scarpe di vernice. Dalla stanza a destra la sorella, per informarlo, mormorava:
«Gregorio, c’è il procuratore.»
«Lo so» disse Gregorio tra sé, ma non osò levare la voce tanto che la sorella potesse udirlo.
«Gregorio» diceva ora il padre dalla stanza a sinistra «il signor procuratore è venuto ad informarsi perché non sei partito col treno dell’alba. Non sappiamo che cosa dobbiamo dirgli. Del resto vuole parlare personalmente con te. Perciò apri la porta, te ne prego. Egli avrà certo la bontà di scusare il disordine della stanza.»
«Buon giorno, signor Samsa» esclamò intanto amichevolmente il procuratore.
«Non si sente bene» diceva la mamma al procuratore, mentre il padre stava ancora parlando presso alla porta «non si sente bene, mi creda signor procuratore. Come avrebbe potuto altrimenti perdere il treno? Il mio figliolo non ha altro per la mente che gli affari. Io m’inquieto quasi perché la sera non esce mai. Ora è stato otto giorni in città, ma la sera restava sempre in casa: si mette accanto a noi a tavola, e legge il giornale o studia l’orario. È già una distrazione per lui quando si occupa con lavori d’intaglio. Così in due o tre sere per esempio ha intagliato una piccola cornice; lei si meraviglierà a vedere quanto è graziosa; è là nella stanza di Gregorio; appena apre, la vedrà subito. Io del resto sono contenta che lei è qui, signor procuratore; noi soli non saremmo riusciti a convincere Gregorio ad aprire la porta: è così testardo! Certamente non si sente bene, benché stamani l’abbia negato.»
«Vengo subito» disse Gregorio lentamente e cautamente, ma non si mosse per non perdere una parola del colloquio.
«Neanch’io, egregia signora, mi so spiegare altrimenti la cosa» disse il procuratore «speriamo che non sia niente di grave. D’altra parte debbo anche dire che noi, uomini d’affari, dobbiamo – per disgrazia o per fortuna, a piacere – trascurare senz’altro per necessità d’ufficio un piccolo malessere.»
«Può dunque il signor procuratore venire finalmente da te?» domandò il padre impaziente, picchiando alla porta ancora una volta.
«No» rispose Gregorio.
Nella stanza a sinistra subentrò un penoso silenzio, nell’altra a destra la sorella cominciò a singhiozzare.
Perché mai la sorella non si univa agli altri? Forse era appena scesa dal letto e non s’era ancora cominciata a vestire. E perché piangeva? Perché egli non si alzava e non lasciava passare il procuratore? Perché egli correva il rischio di perdere il posto e allora il principale avrebbe di nuovo perseguitato i genitori colle antiche richieste? Per ora queste preoccupazioni erano veramente fuori posto. Gregorio era ancora lì e non pensava neppure lontanamente ad abbandonare la sua famiglia. Per il momento certo era disteso sul tappeto, e chi avesse conosciuto il suo stato non avrebbe seriamente preteso da lui di lasciare entrare il procuratore. Ma per questa piccola scortesia, per cui più tardi si sarebbe pur trovata una scusa adeguata, Gregorio non poteva venir licenziato senz’altro. E gli sembrò che sarebbe stato molto più ragionevole lasciarlo in pace che disturbarlo con pianti e consigli. Ma era appunto l’incertezza che li angustiava e scusava il loro modo di comportarsi.
«Signor Samsa» disse ora il procuratore con voce più forte «che succede dunque? Lei si barrica nella sua camera, risponde soltanto con sì e no, procura ai suoi genitori dei gravi, inutili pensieri e trascura – questo sia accennato soltanto di passaggio – i suoi doveri d’impiegato in maniera veramente inaudita. Io parlo qui in nome dei suoi genitori e del suo principale, e la prego molto seriamente di una brevissima e chiara spiegazione. Io mi meraviglio, mi meraviglio; credevo di conoscerla come una persona quieta e di buon senso ed ora sembra che improvvisamente lei voglia fare sfoggio di capricci eccezionali. Il principale mi accennò veramente stamani una possibile spiegazione della sua negligenza – essa riguardava l’incasso da poco affidatole – ma io stavo quasi per dare la mia parola d’onore che questa spiegazione non poteva essere accettata. Ora io vedo qui la sua incomprensibile testardaggine e perdo proprio ogni voglia di impegnarmi neppure un poco per lei. E la sua posizione non è davvero la più sicura. Io avevo veramente l’intenzione da principio di parlare di tutto ciò a quattr’occhi, ma poiché lei mi fa perdere qui il tempo inutilmente, non vedo perché anche i suoi signori genitori non debbano venirne informati. Il suo lavoro dunque in questi ultimi tempi non era veramente molto soddisfacente; non è certo questa la stagione adatta per combinare degli affari straordinari, lo riconosciamo; ma una stagione in cui non si combinano affari, non esiste, signor Samsa, non deve esistere.»
«Ma signor procuratore» gridò Gregorio fuori di sé, dimenticando nell’eccitazione ogni altra cosa «apro subito, immediatamente. Un leggero malessere, un po’ di vertigine mi hanno impedito di alzarmi: sono ancora a letto. Ma ora mi sento di nuovo perfettamente a posto. Scendo dal letto subito. Soltanto un attimo di pazienza! Non va ancora così bene come credevo. Ma sto bene. Come questi guai possono cogliere a tradimento! Ieri sera ancora stavo benissimo, i miei genitori lo sanno bene, o meglio già ieri sera ho avuto qualche avvisaglia. Bisognava leggermelo in volto. Come mai non ho mandato un avviso all’ufficio! Ma si spera sempre di vincere ogni malanno senza restare a casa. Signor procuratore! Risparmi i miei genitori! Tutti i rimproveri che lei mi fa ora sono poi senza fondamento e inoltre non se n’è mai fatto parola con me. Lei forse non ha letto le ultime ordinazioni che ho mandato. Del resto anche col treno delle otto mi posso mettere in viaggio, questo paio d’ore di riposo mi ha rinforzato. Non si trattenga più, signor procuratore, io stesso vengo subito in ufficio; abbia la bonta di dirlo e di porgere i miei omaggi al signor principale.»
Mentre buttava fuori tutte queste parole in gran furia e senza quasi saper quel che dicesse, Gregorio si era, certo per la pratica acquistata sul letto, facilmente avvicinato all’armadio, e provava ora a rizzarsi attaccandovisi. Egli voleva realmente aprire la porta, realmente farsi vedere e parlare col procuratore; era desideroso di conoscere quel che avrebbero detto, vedendolo, quelli stessi che ora così insistentemente chiedevano di lui. Se si fossero spaventati, allora Gregorio non aveva più nessuna responsabilità e poteva starsene tranquillo; se invece avessero accettato tutto pacificamente, neanche lui allora aveva piu ragione di preoccuparsi e, affrettandosi, avrebbe potuto effettivamente essere alla stazione alle otto. Dapprima sdrucciolò alcune volte sul liscio armadio, ma finalmente dandosi un ultimo slancio, riuscì a raddrizzarsi, senza badare più affatto, per quanto fossero cocenti, ai dolori della parte inferiore del corpo. Poi si lasciò cadere contro la spalliera d’una seggiola vicina, ai cui orli si tenne attaccato con le zampine. Con ciò aveva anche riacquistato il dominio di sé, e ammutolì per ascoltare il procuratore.
«Hanno capito una sola parola?» domandava questi ai genitori. «Non si farà beffa di noi?»
«Per carità» gridò la mamma già in lacrime «forse è gravemente ammalato e noi lo tormentiamo. Rita! Rita!» urlò poi.
«Mamma!» rispose la sorella dall’altra stanza (s’intendevano attraverso la camera di Gregorio).
«Devi andare subito dal dottore. Gregorio è malato. Presto dal dottore. Hai sentito ora parlare Gregorio?»
«Questa era la voce di un animale» disse il procuratore così piano da esser notato, in confronto al gridìo della mamma.
«Anna! Anna!» chiamò il padre dall’ingresso verso la cucina, battendo le mani «vai subito a chiamare un fabbro.»
E già le due ragazze passavano correndo, con le sottane fruscianti, dall’ingresso (come aveva fatto la sorella a vestirsi così velocemente?) e spalancavano la porta di casa. Non si sentì richiuderla; l’avevano evidentemente lasciata aperta, come s’usa lasciarla nelle case in cui è avvenuta una grave disgrazia.
Ma Gregorio era divenuto molto più calmo. Dunque non si comprendevano più le sue parole, benché a lui fossero sembrate abbastanza chiare, anzi più chiare di prima, forse per l’abitudine dell’orecchio. Ma certo si credeva già che non tutto andasse bene e si era pronti ad aiutarlo. La fiducia e la sicurezza con cui erano state eseguite le prime disposizioni, gli fecero bene. Egli si sentiva nuovamente compreso in una cerchia umana e sperava da tutt’e due, il medico e il fabbro, senza veramente distinguerli con precisione, qualcosa di grandioso e di sorprendente. Per procurarsi una voce possibilmente chiara per le prossime decisive conversazioni, tossì un poco, sempre affannandosi a far ciò quasi sottovoce perché forse anche questo rumore suonava diversamente dal tossire degli uomini; egli stesso non si arrischiava più a giudicarlo. Nella stanza accanto tutto era tornato quieto. ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- LA CONDANNA [1912]
- LA METAMORFOSI [1912]
- UN MEDICO DI CAMPAGNA [1914-1917]
- NELLA COLONIA PENALE [1914]
- DURANTE LA COSTRUZIONE DELLA MURAGLIA CINESE [1914-1924]
- UN DIGIUNATORE [1922-1924]
- Indice