La ballata dell'amore salato
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La ballata dell'amore salato

  1. 224 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La ballata dell'amore salato

Informazioni su questo libro

Genova, 1990. È una fredda domenica di fine novembre e Girolamo Moggia aspetta a pranzo il figlio che deve arrivare da Milano, dove ha fatto carriera diventando un importante manager. Girolamo Moggia è un picchettino, uno di quegli operai che scendono nelle caldaie a pulirle quando una nave si ferma nel porto, e delle scelte del figlio non è mai stato tanto convinto.
Girolamo Moggia è un uomo pratico, di poche parole, anche ruvido, ma è uno senza maschera, che dice e fa quello che pensa.
Per quel pranzo domenicale ha comprato i corzetti, una tipica pasta genovese, e non vede l'ora di cuocerli. Non tanto per la fame, quanto perché deve andare allo stadio. C'è il derby Genoa-Sampdoria, e non ha nessuna intenzione di perderselo. Ma il figlio tarda. Eppure devono discutere di questioni importanti.
Girolamo Moggia è da poco diventato vedovo di una moglie molto amata, ma adesso tutto il suo amore, nato negli anni della guerra e cresciuto nel tempo, più forte delle differenze sociali, si è trasformato in rancore. Ogni volta che ripensa alla moglie, l'odio e la rabbia lo assalgono come una mareggiata cattiva in certi giorni d'inverno.
Che cosa ha scoperto?
No, non si tratta di un tradimento, anche se, in qualche modo, è come se lo fosse.
E che cosa deve decidere adesso, così urgentemente, con il figlio?
Qualcosa è intervenuto inaspettatamente a scompaginare le sue certezze, e adesso Girolamo Moggia, volente o nolente, si trova a farci i conti, in un andirivieni di ricordi, alcuni ormai aspri, salati, altri, malgrado tutto, ancora dolcissimi.
Senza compiacimenti, con brio e acutezza pungente, Roberto Perrone mette in scena il conflitto tra l'amore e l'orgoglio, in un romanzo di amicizie e di contrasti, di slanci e di tormenti, di sentimenti e risentimenti lungo cinquant'anni. Un romanzo che ha il ritmo suadente di una ballata, che avvolge e trascina, sorprende ed emoziona, e resta in mente come uno di quei motivi che non passano e continuano a risuonare dentro di noi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804587538
eBook ISBN
9788852010453

L’amore del picchettino

Riconobbe i suoi capelli.
Del resto non si accorse, non vi prestò attenzione. Non era un uomo che amava insistere, anche semplicemente con una occhiata. I suoi sguardi erano come velati, silenziosi, aveva questa capacità di farsi notare, di far capire il suo interesse, ma senza risultare invadente o, peggio, molesto. I suoi sguardi non facevano rumore. Gli altri, attorno alla pista da ballo, si concentrarono sul resto, sulle gambe, sui seni, sulla curva del sedere. Lui, invece, le accarezzò da lontano i capelli e seppe che erano i suoi immediatamente.
La cassiera del bar Tremarella si sarebbe risentita se lo avesse visto così, intento a scrutare la ragazza, quasi rapito da quel tappeto nero e lucente che la seguiva svolazzandole alle spalle. Per lei non aveva mai avuto quella intensità, non aveva mai provato quell’emozione, malgrado i suoi sorrisi, i suoi tentativi di approccio, la scollatura generosamente offerta ai suoi occhi. Aveva un décolleté che non passava inosservato. D’inverno lo metteva in mostra slacciando i bottoncini di un maglione d’angora nero, o rosso. Le uniche variazioni.
D’estate con uno di quei vestitini vaporosi che lasciavano scoperte le spalle.
Il nome della cassiera era Ines, ma gli avventori la chiamavano “Gina”, perché assomigliava a Gina Lollobrigida. Stessi capelli, stesse forme, stesso sguardo da “bersagliera”, che era, appunto, l’altro suo soprannome. Lei lasciava fare, ci stava. Ma solo allo scherzo, alle battute, purché non superassero un certo limite. E, come sosteneva Gilfredo Mariotti, aveva un debole per lui, Girolamo Moggia, proprio perché non si spingeva mai oltre quel limite. E poi perché era un bell’uomo.
«Eccolo qua, il mio bel picchettino» diceva Gina ogni volta che Girolamo Moggia entrava nel bar nella pausa pranzo per ordinare un panino e una birra. Non beveva mai vino a mezzogiorno, neanche un bicchiere. Una birra era l’unico accenno d’alcol che si consentiva, a pranzo, ma non sempre. Perché mangiare gli piaceva, ma con l’alcol aveva un rapporto discreto. E poi perché era un mestiere, il suo, dove si rischiava la pelle e voleva rimanere concentrato. Non che gli altri, al porto, sulle gru o su e giù con i carichi enormi dalle navi, non facessero un lavoro pericoloso. Ma lui e i suoi compagni stavano spesso al buio, e secondo Girolamo Moggia al buio era tutto più pericoloso. Un suo compagno, che aveva una moglie e due figli, c’era morto, dentro la cisterna di una nave, dov’era sceso a pulire. Non era stato attento e non si era accorto del residuo di nafta in un angolo. C’era stato uno sfregamento, una scintilla, qualcosa, e la nafta era andata a fuoco, investendolo. Un altro, invece, in un altro turno, era stato vittima dei gas che ristagnavano nella stiva.
Non si guadagnava male a fare il picchettino, a scendere nelle caldaie e pulirle quando una nave si fermava nel porto.
Girolamo Moggia, dopo la guerra, aveva fatto per un paio d’anni quelli che un sindacalista, durante una riunione giù alla Sala Chiamata, aveva definiti “lavori saltuari”. A Girolamo Moggia piaceva l’espressione, perché dava l’idea che spesso dovevi saltare il pranzo o la cena, o tutti e due, perché il lavoro non c’era o non bastava per coprire entrambi i pasti.
Dopo la guerra aveva ricominciato da dove aveva lasciato. Era tornato ai mercati generali. Aiutava a scaricare cassette e a caricarle sui camion. Da lì, aveva visto cambiare Genova e l’Italia, da quei mattini freddi o caldi in corso Sardegna. Sui giornali spiegavano perché e per come. Lui aveva un metro di giudizio più semplice.
«Venissero a contare le cassette che mi sfondano la schiena.»
All’inizio le cassette erano poche, i camion li potevi contare sulla punta delle dita. Molti non erano camion, ma carrettini che venivano dall’entroterra, frutta e verdura prodotte da famiglie. Orti che in parte servivano a sfamare quelli di casa e in parte a racimolare qualche lira con la vendita dei prodotti. Poi, a poco a poco, i camion erano aumentati, le cassette si erano moltiplicate e la vita aveva ripreso a girare insieme con i soldi.
Girolamo Moggia trovava sempre qualcosa da fare, in quel periodo. Era alto, forte e non aveva paura di niente. Con le prime lire che non se n’erano andate per comprarsi qualcosa da mangiare e dei vestiti, acquistò una bici per venire giù da Molassana, dalla stanza nella casa popolare che divideva con il suo amico. Gli piaceva pedalare. Gilfredo Mariotti gli sconsigliò di fare quell’investimento.
«Girolamo, te la rubano la bicicletta, l’hai visto il film.»
«Il cinema non mi piace e non ho i soldi.»
«Be’, conta di uno che per lavorare ha bisogno della bici e gliela rubano.»
«Sono stufo di usare i mezzi pubblici o di andare a piedi. La bici mi piace, così vado e vengo quando voglio e in fretta.»
«Sarà, ma secondo me non ti dura molto.»
E invece gli durò, ce l’aveva ancora, dieci anni dopo. Un giorno andò dove raccoglievano i materiali di ferro usati e si prese una catena pesantissima. Pesava più la catena della bicicletta.
«Prova a toglierla» disse un giorno a Gilfredo sulla salita che portava alle case popolari.
L’amico stava uscendo per andare da una. Però gli piaceva avere ragione quindi si mise d’impegno per grattargli la bici. Tentò di togliere la catena, smadonnò, si sporcò la camicia che si era appena cambiato, lo insultò pesantemente e poi rinunciò a uscire e se ne tornò a casa. Con la camicia sporca.
Si volevano bene, però. Girolamo Moggia pensava che loro fossero una famiglia. L’Altra famiglia stava lassù, appena l’aurelia scavallava dal Bracco, dov’era sempre stata. Solo che si era ridotta a una persona sola, sua madre. Quando la guerra era finita era tornato da sua madre e suo padre. Come in un film, aveva pensato, uno dei pochi che aveva visto giù al Sud dove avevano attraccato con la nave e ce li avevano portati quasi a forza, in quel cinema all’aperto. C’era uno che tornava a casa proprio come lui, proprio come quando si era trovato con la sacca da soldato davanti alla sua vecchia casa. Sua madre aveva aperto la porta e se l’era visto lì, davanti: era uscito che era un bambino e rispuntava che era un uomo. Suo padre era morto dopo un anno.
Ogni tanto Girolamo Moggia andava a trovare sua madre. Prendeva il treno fino a Sestri Levante e poi la corriera. Stava poco. Dei suoi fratelli e sorelle ne era rimasta solo una, gli altri erano andati a lavorare in giro per l’Italia, qualcuno vicino, qualcuno lontano. Un fratello aveva aperto un negozio di alimentari a Sestri. Era quello con cui manteneva dei rapporti.
Gilfredo era sempre contento quando Girolamo Moggia gli comunicava che andava al paese. Tornava sempre con qualcosa da mangiare. Dei funghi, qualche ortaggio o un fondo di salame che suo fratello gli incartava nel negozio, dove passava sempre, o all’andata o al ritorno. La sorella che era rimasta era quella che Girolamo Moggia amava di meno. Non è che non le volesse bene, ma sapeva riconoscere una persona maligna e questa sorella lo era. Non era come Cornelia, la sua prediletta, che era andata a raggiungere l’altra sorella a Roma da prima della guerra. Si scrivevano, talvolta. Lei faceva le lettere grandi, gli ricordava Giovanni Costaguta. Giovanni gli tornava in mente spesso. Dove sarebbe stato? Cosa avrebbe fatto? Non avrebbe potuto certo riprendere a vivere sui monti, campare d’accattonaggio, come prima. Sarebbe stato curioso di vederlo, in quel mondo in movimento.
A Girolamo Moggia viaggiare aveva sempre fatto una strana impressione. Quando era più piccolo, prima della guerra, gli sembrava che una città come Roma, la capitale, fosse irraggiungibile. Lontanissima. Quando ci mandarono a servizio sua sorella – la prima che se ne andò – temette per lei, aveva paura che non ci sarebbe mai arrivata, che le sarebbe successo qualcosa lungo la strada. Girolamo Moggia aveva paura per gli altri, ma non per se stesso. Lui, anche prima di partire per Genova, credeva che raggiungerla rappresentasse un’avventura. Ma quando toccò a lui partire non ebbe alcun timore.
Era così, Girolamo Moggia. Non cambiava mai. Invece tutto, attorno a lui, stava mutando. In fretta. Adesso, su e giù per i tornanti del Bracco, le automobili erano in aumento. Girolamo Moggia se ne accorse dal concerto nervoso dei clacson, un giorno che stava seduto sulla corriera che saliva da Sestri a passo d’uomo. Guardò fuori dal finestrino e vide una coda di auto con gente che si sbracciava agitata alle spalle del bus.
Era lo stesso concetto delle cassette. Prima, sul Bracco, le auto erano rare apparizioni. Roba da ricchi o piuttosto autocarri che trasportavano merci. Adesso le auto andavano e venivano, come i camion. Cambiò anche il suo lavoro. E quindi cambiò anche la sua casa. L’unico aspetto della sua vita che non cambiò mai, dal 1946, da dopo la guerra, era il Genoa. Da quella volta cominciò ad andare regolarmente allo stadio, all’inizio con Gilfredo Mariotti, poi da solo.
Mariotti, che ce l’aveva portato quasi di forza, perse interesse per il Genoa e per il calcio. Aveva conosciuto quella che sarebbe diventata sua moglie e lei non tollerava che il suo fidanzato (e ancor di più suo marito) perdesse il suo pomeriggio libero allo stadio, in mezzo a una folla di scalmanati.
Si erano incontrati una volta che con Girolamo Moggia erano andati in Riviera. Ogni tanto lo facevano. Prendevano il treno e scendevano a Camogli, a Santa Margherita, a Rapallo. Raramente a Chiavari. Sulla passeggiata di Santa Margherita, in quella domenica di settembre (in cui il Genoa giocava a Roma, in trasferta, sia chiaro, perché altrimenti Girolamo Moggia non sarebbe stato lì), Gilfredo Mariotti aveva adocchiato una coppia di ragazze. Una alta e mora, con le forme abbondanti. A Gilfredo piacevano quelle sode, come Gina del bar Tremarella. L’altra ragazza non la guardò neanche, perché aveva già trovato quella che cercava.
Girolamo Moggia era divertito dalle partenze a razzo di Gilfredo. Non lo fermava nessuno, non aveva paura delle brutte figure. Aveva un bell’aspetto e investiva i suoi risparmi in camicie con il colletto duro. Girolamo Moggia era convinto che un aggeggio del genere gli avrebbe spezzato il collo, ma Gilfredo, per nulla infastidito dall’amido, faceva un figurone. Poi era abile con la brillantina. Un velo, non di più, per dare la giusta piega ai capelli. Sottile. E poi la sua forza era la favella. Cominciava a parlare e ti prendeva per sfinimento. Anche quella volta s’avventò sulla mora alta. Ma qualcosa andò storto, Girolamo Moggia non ricordava bene cosa, e l’amico si mise con l’altra, quella che non aveva neanche degnato di uno sguardo, e finì addirittura per sposarla. Accalappiato.
La futura signora Mariotti era un tipino magro e nervoso. Aveva sempre qualcosa da fare, qualcosa da dire. Faceva la sarta e, pur non essendo di chiesa, non lo fece entrare nel suo letto fino alla prima notte di nozze. Questo lo sapevano tutti, perché lui se ne lamentava in pubblico. Però tenne duro, innamorato cotto.
«E c’ho dei dubbi che gliel’abbia data anche in quell’occasione» commentò, con realismo, l’altro testimone dello sposo (il primo, naturalmente, era Girolamo Moggia), un collega di Mariotti alla Teti.
Girolamo Moggia era finito a fare l’amore con l’altra, la mora alta e formosa. Il suo nome era Gianna e faceva l’operaia in una piccola azienda del Tigullio.
«Almeno avevo visto giusto» si consolava Gilfredo, quando vedeva partire per la Riviera Girolamo o quando questi gli chiedeva di lasciargli la casa per “ricevere” (usava questo verbo e l’amico lo canzonava) Gianna. La mora alta era veramente formosa, con i vestiti, ma soprattutto senza. E non si faceva problemi a far l’amore. A Girolamo Moggia piaceva perché non pensava a mettere su casa, a creare una famiglia, non faceva discorsi di questo tipo. Per mettere su casa, per formarsi una famiglia bisognava avere un lavoro. Ma soprattutto bisognava averne voglia. Trovare quella giusta. O quello giusto. A Gianna piaceva far l’amore e non avere complicazioni. A Girolamo Moggia invece piaceva guardarla mentre si rivestiva, specialmente quando si allacciava il reggicalze. Lo trovava emozionante.
«Sei fatto strano» rideva lei, «l’unico uomo che si eccita quando una donna si riveste.»
Lui allargava le braccia.
«Spogliarsi è facile, ma rivestirsi dopo aver fatto l’amore è difficile. Ci vuole stile.»
«Io ce l’ho?» chiedeva lei, con un tono di voce che temeva la sua risposta.
«Ti guarderei, altrimenti?»
Sapevano tutti e due che non sarebbero convolati a nozze, ma erano contenti così. Anche perché a Gianna piaceva parlare e a Girolamo Moggia ascoltare. Di donne così ne ebbe tante, perché era un bel ragazzo, forte, alto e gentile. Un signore, prima di tutto. A lui veniva da sorridere, quando glielo dicevano, e ricordava quando al paese lo chiamavano “il principe” perché non voleva usare il maleodorante gabinetto in comune sul “palazzio” e se ne andava in mezzo ai campi di granturco.
Un giorno, la guerra era già finita da un po’, Gilfredo Mariotti gli disse che era andato a fare un impianto telefonico giù, al porto, in una ditta, la Garbarino e figlio.
«Solo che il figlio non c’è più, è morto in guerra. C’è solo il padre, il signor Garbarino. È alto un metro e un poco. Ha la fascia nera del lutto al braccio e una foto del figlio nell’ufficio. Era l’unico figlio. Lui manda avanti la ditta e non sa per chi o per che cosa.»
Era una sera che stavano seduti su un muretto davanti alla casa popolare. Faceva caldo. Era giugno, uno di quelli che solo a Genova esistono, pensava Girolamo Moggia, con l’aria che sa di mare e ti si appiccica addosso, calda, umida.
«Meschinetto» commentò.
«Però lavora sodo e ci dà dentro.»
Chissà perché gli raccontava questa storia, si domandò Girolamo Moggia.
Ebbe la risposta.
«La sua ditta lavora sulle navi, pulisce le caldaie, le stive, le cisterne, ha le calderine per l’acqua calda. Ha bisogno di gente forte. Gli ho fatto il tuo nome. È un mestiere vero, in regola, ti fai finalmente un po’ di soldi.»
Abbastanza, in regola. Si era soggetti ai caporali. Girolamo Moggia stette al gioco, ma solo all’inizio. Andava al porto alle cinque del mattino e stava lì, sbuffando nel freddo dell’inverno, o cominciando a sudare nell’afa di un’alba d’estate, mentre aspettava la chiamata. Poi però cominciò a stufarsi di dover sottostare a certe angherie. “Sotto padrone va bene” si diceva, “perché a un certo punto della vita bisogna trovare qualcosa da fare, costruire qualcosa, ma la sottomissione è un’altra cosa.” E allora smise di passare attraverso i caporali. Una volta ne affrontò un paio e li squadrò dall’alto in basso. Quelli capirono che Girolamo Moggia era meglio farlo andare per la sua strada, non ostacolarlo. Lui non sapeva ancora qual era, la sua strada, ma per il momento si mise a lavorare stabilmente per il signor Garbarino. Il padrone lo prese subito in simpatia e lo mandava anche in trasferta. A Savona, a La Spezia. Una volta a Milano a pulire una caldaia di una fabbrica. Fu quella la sua prima volta lassù in quella metropoli che, al confronto con Genova, gli pareva enorme, informe, inospitale.
«È un mestiere duro» gli aveva spiegato il signor Garbarino, la prima volta che si erano incontrati, giù, nell’ufficio al porto. Dalle finestre si vedevano le navi, sulla parete, sopra uno scaffale di ferro era appesa la foto di un ragazzo in divisa. Il signor Garbarino era veramente piccolo e portava un vestito grigio, sempre lo stesso, in qualsiasi stagione dell’anno. Sul braccio sinistro c’era una fascia nera. Ogni tanto fissava, con lo sguardo che si alzava oltre il pince-nez sempre incollato sul suo naso, la foto del figlio. Era come un tic. Però era un brav’uomo, uno che lavorava per vivere. Questo valeva per tutti, ma per il signor Gar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. Il tocco
  6. 381
  7. Ali è più facile
  8. Sul mitragliere
  9. L’orologio della corsia
  10. L’amore del picchettino
  11. Corzetti da solo
  12. Rimettere, rimettersi
  13. La convocazione
  14. Il senso della pioggia
  15. Traiettorie
  16. Ringraziamenti
  17. Indice