Reduce
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Reduce

  1. 128 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

"Sono generazione su generazione erede di una famiglia di montagna che, da tempo immemorabile, ha fatto della pastorizia il suo sostentamento. Mai avuto problemi che non si potessero traversare guardandoli in faccia. Né pesantezza che non si può portare, né pesantezza che si debba fuggire. Una famiglia che ha combattuto, perso, pianto i suoi morti. Benedicendo il cielo mai è stata sradicata dal suo orizzonte. Sua dimora terre scoscese e aspre sotto i venti di un valico in faccia alla tramontana che, col gelo dell'inverno, tiene lontani pestilenze e miasmi, febbri malsane e bramosie di razziatori urbani." Giovanni Lindo Ferretti A partire dalla storia e dalla geografia della zona dell'Appennino emiliano da cui proviene la sua famiglia e dove lui stesso è nato, Giovanni Lindo Ferretti traccia una sorta di grande storia epica composta da diversi quadri, nei quali la vita dei suoi parenti e la sua si intrecciano a quella del mondo circostante, dal Sahara algerino alla Lisbona della Rivoluzione dei garofani, dalla ex Jugoslavia alla Mongolia, dal Salento al Sudafrica, da Reggio Emilia a Gerusalemme.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804574484
eBook ISBN
9788852011887

La mia geografia

All’inizio è sempre geografia.
Parola che mi porta a casa, parola che mi porta via. Basta pensarla, ne nasce storia.
È il primo inverno della vita che ricordo. La notte cala presto.
In cucina, vicino al fuoco, io e la nonna.
Scoppiettio della legna e lenta sonnolenza, dentro. Fuori è il finimondo da tormenta, acqua, grandine, tuoni e fulmini. Il vento si infila tra le piagne del tetto, nelle fessure delle finestre muove vetri e telai, fa tremare le porte, ulula, fischia e risucchia tra le scale e il solaio.
La nonna sta apparecchiando. La sua presenza argina e dissolve ogni paura possibile. È la mia forza, la mia sicurezza. Sostiene la casa tutta e il mondo intorno.
«Bimbo! vai di sopra a prendere due mele che la nonna è stanca e non sta tanto bene.»
È una richiesta spaventosa!
Si tratta di uscire in corridoio, salire le scale fino al primo piano, aprire la porta cigolante scura e pesante della sala, attraversarla che, nell’angolo, sulle assi del pavimento sono conservate le mele dell’orto per l’inverno.
Dire no alla nonna non si può. Dire sì come si fa?
Di là dalla porta della cucina c’è il buio, gli spifferi gelidi, i rumori, le scale che dal fondo non si vede in cima. La paura.
«Non avrai mica paura? Questa è la nostra casa e tu sei già un ometto.»
Devo farlo. Non c’è dubbio.
«Lascia la porta aperta così ci vedi.»
La scala è ripida, gli scalini altissimi, sarà dura. I primi scalini li faccio in ginocchio tirandomi su a fatica.
«Come va?» la voce della nonna mi rincuora.
«Nonna.»
«Sì, bimbo.»
«Va bene, nonna.»
La voce combatte la paura. Mi alzo in piedi e attaccato al corrimano salgo.
Ogni scalino, prima un piede poi tutti due, un richiamo.
«Nonna.»
«Sì, bimbo.»
«Sono qui.»
«Bravo.»
«Va bene.»
«Bravo.»
Dieci scalini, è fatta, spingo la porta e la grande stanza è tutta ombre.
Solo la voce mi può aiutare. Più forte: «Nonna».
«Sì, bimbo.»
«Sono qui. Nella sala.»
«Bravo. Prendi due mele e portale giù. Attento a non cadere.»
Occhi e orecchie sbarrati arrivo alle mele e mi volto. La luce fioca che sale col tepore del fuoco, adesso in fronte, fa più facile il ritorno, ma le gambe mi tremano e devo sedermi sul primo scalino per riprendermi.
Due mele nelle mani: «Nonna, ecco».
L’eccitazione addosso e l’orgoglio di aver compiuto l’impresa.
«Bravo bimbo, diventi grande alla svelta e la nonna è contenta, si può fidare di te. Atavola, adesso, che la cena stasera te la sei guadagnata come un ometto.»
Questo è il primo ricordo che lego alla scoperta del mondo. Una scoperta concentrica per allargamento. La casa con i fondi e il solaio e le stalle, il fienile, la legnaia hanno assorbito tutte le mie energie d’esploratore solitario. Più cresce la disinvoltura nel muovermi al coperto più aumenta la distanza che mi permetto nei campi e nei boschi attorno i lavori degli adulti. Così giorno dopo giorno arrampicando e rovinando da armadi, cassettoni, solai, muri, alberi, scivolando nelle scarpate e nei torrenti ho preso possesso per conoscenza palmo a palmo della mia casa e della valle. Ginocchia sbucciate, lividi e le croste delle piccole ferite che più diventano secche più non si resiste a staccarle e un po’ fa male e molto bene.
Un senso di gioia, di forza, mi ha reso la solitudine piena di sorprese e d’incanto. Anche nel momento più focoso e scatenato dell’amicizia, delle bande, dei giochi scapestrati e violenti, mai ho abbandonato lo spazio della solitudine. Un legame intimo e motivato nell’esperienza me l’ha tenuto caro e prezioso. Un attaccamento profondo tanto nella fisicità, nella contemplazione del mondo che poi nella lettura e nello studio. Nutro risentimento misto ad orrore verso quegli educatori che pretendono di riempire lo spazio della crescita comprimendolo in una maratona di attività organizzate. È la solitudine che apre ai vari regni della creazione, minerale, vegetale, animale. Apre alla mente, al proprio esser conforme. La solitudine è una ricchezza capace di arginare, crescendo, sia la noia che la logica del branco. Da lì s’ascende e si precipita e ci s’allarga intorno. La solitudine è benedetta, fiorisce e fa fiorire, se s’accompagna all’amore. Sicuro. Un bimbo può sopportare e reggere tutto e da tutto trarre profitto se si sente amato. Amato dai grandi e dai piccoli che lo circondano. La sua famiglia.
Nutro la mia geografia di lacune e mancanze. Ripeto, ribadisco, scopro continuamente lo stesso orizzonte nei vari modi in cui si presenta.
È una geografia dell’anima e lo spostamento necessariamente lento, fisiologico, ne è conseguenza e presupposto. Arriva il tempo della verifica, arriva come necessità, d’urgenza. I piedi vogliono muovere, vogliono muovere i sensi. Un camminare incontro il paesaggio, negli accadimenti, nei colori, nei profumi, nei suoni. Gli incontri. Ricordi, congetture, coincidenze. Perdersi e ritrovarsi per tornare poi ai soliti passi, più coscienti, a volte più complessi a volte semplici. Niente guide turistiche, un unicum sempre lo stesso in ogni angolo del mondo prevede il tutto assicurandoti contro le disgrazie che diventano allora l’unico viaggio possibile, l’unico accesso all’estraneo.
Viaggio le città e le lande deserte. Viaggio le montagne senza scalarle ma girandoci intorno sugli antichi sentieri e le strade moderne. Viaggio le montagne abitate dall’uomo fino al limite degli eremi, mai oltre. Le vette non sono degli uomini e doverosi i sacrifici umani che ne propiziano un’effimera conquista. Mi stupisco ancora di come l’arrampicare, le scalate, il conquistar le vette mi lasci disinteressato e insensibile.
Che spreco di energia! Le montagne sono state create per essere abitate e vissute da uomini liberi, tendenti alla solitudine, all’essenza. Giorno dopo giorno al cospetto della potenza della creazione. Trascendente orizzonte.
Lo sport mi è estraneo sempre. Ne ammiro, se l’occasione e il caso, la bellezza delle azioni, dei gesti. La bellezza infinita dei corpi.
Scendo in città a controllare ciò che succede nel mondo. Come cambia e perché. Quali sono i guadagni e cosa ci si perde. Fare spesa, anche. È il mio bel gioco e so che dura poco. Cerco di attraversare schivo quello che incontro. So l’importanza dei gesti, dei comportamenti, i vestiti e gli sguardi. Cammino macinando chilometri e chilometri di marciapiedi, traverso piazze e giardini. Per riposarmi i caffè, i bar per guardarmi intorno stando seduto.
La sera è dedicata alla cucina. La notte si concede, a volte, i luoghi del vizio, il costeggiar del sordido tra il lecito e l’illecito che è bene sapere, dove non si sa, com’è come non è il mondo. A ricordare che lo spazio non ha confini netti e l’incontro può fiorire dove meno l’aspetti. Un attimo d’incanto spesso fa il pari allo sciupìo dei giorni, al farli empi.
Un dono del divino all’umano. Un reso al divino dall’uomo.
Il primo viaggio in un mondo altro, di altri, per lingua costumi storia, per senso dell’umano e del divino, è stato il deserto. Sahara algerino. Anni ’70. Un sacco a pelo, uno zaino, un ricambio, un biglietto aereo aperto Milano Algeri, andata e ritorno.
In autostop sulla transahariana. Moazab, El Golea, In Salah e grazie ad un incontro sulle piste a Foggaret Ew Zwa, in un forte abbandonato della Legione Straniera. A scoprire, complice la febbre, il deserto. L’intontimento del giorno e l’eccitazione notturna. Le grandi dune, le oasi. La purezza dell’alba, i miraggi, l’angoscia del tramonto.
Lisbona l’ho conosciuta di persona per via della “rivoluzione dei garofani”, versione giovanile tardo-romantica.
Mi sono ritrovato una sera in una eccitazione forestiera su una Fiat con due mitragliatrici di ronda in periferia, poi a un posto di blocco in una prova di forza mai esplosa e persa, che ha fatto la fortuna dei socialdemocratici e risparmiato guai al Portogallo. Di guai ne aveva già e in abbondanza. Settimane su settimane a guardarmi intorno, senza soldi in tasca, senza capire bene ma informato degli accadimenti e felice. Prima ad Alfama, poi al Chado, poi un piccolo appartamento nuovo e vuoto in una palazzina tra il mare e l’estuario del Tago. Avanti e indietro in treno dal centro città al capolinea, un pendolare qualsiasi. Qualche bella mangiata, molta solitudine benedetta per leggere, per guardarmi intorno, per crescere.
Marrakesh sarebbe la mia porta d’accesso all’Africa nera subsahariana, ma resta soglia mai traversata. Continuo ad attardarmi in città, accogliente dalla prima volta senza soldi ed era lo squallore e lo sporco delle bettole e dei ricoveri notturni ad indirizzare, di necessità, le mie scelte, all’ultima, ospite nella ricchezza e nel buon gusto. Un grande letto a baldacchino avvolto in cotone e lino sul tetto di un antico riyad nella medina.
In piazza al pomeriggio affitto una carrozza per il giro della palmerie nel tramonto, scegliendo con attenzione i cavalli tra i berberi. Fermandomi ad ammirare un vecchio taxi, un mercedes, l’ho contrattato perché era una bella giornata, limpida, la neve sulle montagne abbagliante nel sole e sono partito per il deserto.
Sono entrato da un sarto povero ed elegante che chino sulla soglia cuciva con una vecchia Necchi da metà mattino al tramonto e mi sono vestito nuovo. Sopra e sotto. La lunga veste, la giacca, lo zuccotto. Tutto bianco.
Lui era soddisfatto, a me baluginavano gli occhi.
A Durban sono arrivato in cerca della nazione Zulu e delle tribù bianche dell’Africa. In corriera sono sceso a Capetown per arrivare in fondo e guardare stando dall’altra parte il mondo. A testa in giù?
Di notte il cielo è un ammasso confuso di stelle disordinate, gettate alla rinfusa in un firmamento ostico. Il mare ostile da percepirne coi sensi la profondità gelida, la vastità, la potenza. Alterità assoluta e infinita distanza.
Dall’altra parte del mondo, il mio mondo, per osservarmi, osservarlo con il dovuto distacco.
Il telegiornale dà le notizie in quest’ordine: Africa nera, India, Australia, Anglo America, Asia. Solo alla fine, se il caso, l’Europa che è piccola fuori mano e pare, da laggiù, tagliata fuori, al margine. Un po’ rifugio-museo, un po’ miraggio.
Sul terrazzino all’aperto di un piccolo bar ai margini del Waterfront, in faccia all’oceano, sferzato dal vento e intriso di salmastro ho riorganizzato la mia vita tracciando le poche direttive dei miei giorni nel nuovo millennio.
Facile computare i miei vuoti nel mondo. Mancano sia il nuovo che il nuovissimo.
Manca l’Oriente al Centro-Sud, medio ed estremo. Manca l’Africa nera.
A parte le città sono le lande poco abitate che m’attirano. Gli animali, le steppe, le foreste. Il deserto. Gli allevatori, i coltivatori, i nomadi. I villaggi, i borghi. Le montagne. I rumori del mondo pre-moderno e gli odori che me lo raccontano mentre lo contemplo. I monasteri, gli eremi. Le rovine delle civiltà nel tempo. I luoghi di culto.
Il mio viaggiare è lento negli intervalli tra i viaggi e negli spostamenti. Il vero guadagno sta nel perder tempo per trovare altro, cercando un passaggio, un possibile percorso. In camion e in corriera. Il treno per le lunghe distanze scendendo spesso per scacciare la fretta. I mercati. Le camminate, un giro a cavallo.
L’esser per casualità, per dono di Dio, ospite. Cercando d’esser sorpresa e conforto, non sgradevole confronto, non peso morto.
Algeria e Iugoslavia sono i due paesi che m’hanno innamorato negli anni ’70, reso felice negli ’80 e mi hanno costretto, nell’orrore e nel dolore, a riconsiderarli e riconsiderarmi negli anni ’90. Frequentati e viaggiati in autostop, senza soldi, in macchina col pieno di benzina, un pane, un pezzo di formaggio. Negli ultimi tempi, nell’agiatezza.
Sono stato tentato di comprarvi casa e trasferirmi a vita nuova, altro orizzonte, altra storia.
La guerra che li ha avvinti ha vanificato con sarcasmo il progetto, il che dimostra, oltre ogni dubbio e buongusto, quanto di società e politica non abbia mai capito niente, né coltivo illusione a venire nel tempo.
Dell’Algeria amavo il Magreb, il dipartimento del Sud. Il deserto, le oasi, l’Hoggar. L’incontro a gennaio con i Tuaregh in risalita dal Mali a commerciare i propri tesori per scampare la siccità. Soprattutto gioielli in argento e pietre dure dalle doti delle donne, barattati con misure di miglio, di semola, di grano, d’orzo.
L’ospitalità. L’indole gentile e pudica dei suoi abitanti. Una società di giovanissimi e giovani nata attraverso una lotta di liberazione che aveva stupito il mondo facendo di dannati della ter...

Indice dei contenuti

  1. Reduce
  2. Converso
  3. Della Storia nostra
  4. La mia geografia
  5. Del paesaggio familiare
  6. Nel bianco e nel blu
  7. I pensieri del mar Morto
  8. Il tempo del ritorno
  9. Aprire gli occhi alla bellezza