La quarta notte era all’inizio quando Ephraim passò davanti a casa sua mentre il gruppo era diretto da Setrakian per armarsi adeguatamente. Non vide polizia all’esterno, così si fermò. Stava correndo un rischio, ma erano giorni che non si cambiava e in cinque minuti se la sarebbe sbrigata. Indicò agli altri la finestra del secondo piano e disse che, una volta dentro, se non c’erano guai avrebbe tirato giù le tapparelle.
Entrò senza difficoltà nell’atrio dell’edificio e salì le scale. Scoprì che l’uscio del suo appartamento era socchiuso, allora si bloccò e tese l’orecchio. Una porta aperta non pareva roba da poliziotti.
Spinse il battente e chiamò: «Kelly?». Nessuna risposta. «Zack?» Erano gli unici ad avere la chiave.
All’inizio si allarmò per il cattivo odore, poi capì che era il cibo cinese lasciato nel secchio della spazzatura quando Zack era stato da lui. Parevano trascorsi anni. Andò in cucina per vedere se il latte nel frigo era ancora buono… e si fermò.
Impiegò qualche istante a capire che cosa aveva davanti agli occhi.
Due poliziotti in divisa, stesi sul pavimento della sua cucina, contro la parete.
Un ronzio iniziò a diffondersi nell’appartamento. Crebbe rapidamente fino a diventare quasi un grido, un coro di sofferenza. La porta si chiuse, con un colpo secco. Eph si girò di scatto.
Lì c’erano due uomini. O due esseri. Due vampiri.
Lui lo capì all’istante. La postura, il pallore.
Uno non lo conosceva. L’altro era uno dei superstiti, Bolivar. Pareva molto morto e molto pericoloso e molto affamato.
Poi percepì un pericolo ancora maggiore nella stanza. Perché i due revenant non erano la fonte del ronzio. Ci mise un’eternità a voltare la testa verso la stanza principale.
Un essere enorme in un lungo mantello scuro. In altezza occupava tutta la stanza, fino al soffitto e oltre, e teneva il collo piegato per guardarlo.
La sua faccia…
Eph era stordito. L’altezza sovrumana della creatura faceva sembrare piccola la camera, faceva sentire piccolo lui stesso. Si sentì mancare le gambe, anche mentre si girava per correre verso la porta e il corridoio.
Ora la creatura era lì davanti, fra lui e l’uscio, bloccando l’unica uscita. Era come se Eph in realtà non si fosse girato, ma il pavimento stesso avesse ruotato. Gli altri due vampiri di grandezza normale lo affiancarono, uno per parte.
La creatura adesso era più vicina. Si stagliò su di lui. Guardò giù.
Eph cadde sulle ginocchia. Il semplice fatto di trovarsi in presenza di quell’essere gigantesco lo paralizzava: era come se fosse stato abbattuto fisicamente.
Hmmmmmmmmmm.
Eph lo sentì. Come si sente nel petto una musica dal vivo. Un ronzio gli vibrava nel cervello. Distolse lo sguardo e fissò il pavimento. Era paralizzato dalla paura. Non voleva vedere di nuovo quella faccia.
Guardami.
Sulle prime credette che la creatura lo stesse strangolando con la forza della mente. Ma la mancanza di fiato era il risultato del puro terrore, un panico che gli invadeva l’anima.
Eph alzò gli occhi appena un poco. Tremando, scorse l’orlo della veste del Padrone e risalì con gli occhi fino alle mani sporgenti dalle maniche. Erano disgustosamente prive di colore e di unghie, disumanamente grandi. Le dita erano di lunghezza uniforme, tutte di dimensioni esagerate, a parte il medio, che sembrava perfino più lungo degli altri… e uncinato in punta come un artiglio.
Il Padrone. Lì per lui. L’avrebbe cambiato.
Guardami, maiale.
Eph ubbidì, alzò la testa come se una mano l’avesse afferrato per il mento.
Il Padrone lo scrutò dall’alto, da dove il capo si piegava per non urtare il soffitto. Afferrò con le grandi mani i lati del cappuccio e li scostò dal cranio. La testa era priva di capelli e di colore. Gli occhi, le labbra e la bocca non avevano sfumature, erano consunti e slavati, come lino liso. Il naso era consumato come quello di una statua rovinata dalle intemperie, un semplice grumo e due fori neri. La gola pulsava in una brutta imitazione di respiro. La pelle era così livida da essere trasparente.
Visibili sotto la carne, come una confusa mappa di un’antica terra devastata, c’erano vene dove non scorreva più il sangue. Vene che pulsavano di rosso. I vermi circolanti nel sangue. Parassiti capillari che scorrevano sotto la trasparente carne del Padrone.
Questa è la resa dei conti.
La voce cavalcò nella testa di Eph su un rombo di terrore. Lui si sentì rammollire. Ogni cosa divenne torbida e fioca.
Ho quel maiale di tua moglie. Presto quel maiale di tuo figlio.
La testa di Eph era gonfia da scoppiare, per il disgusto e per la rabbia. Gli pareva un pallone sul punto di scoppiare. Infilò il piede di piatto sotto il corpo. Barcollò e si rialzò davanti all’immenso demone.
Ti prenderò tutto e non lascerò niente. È il mio modo. Protese la mano in un movimento rapido, confuso.
Eph sentì, come un paziente anestetizzato sente la pressione del trapano del dentista, una stretta in cima alla testa e si trovò con i piedi staccati dal pavimento. Agitò le braccia e scalciò. Il Padrone tenne la testa sulla palma come un pallone di basket e con una mano sola lo sollevò verso il soffitto. A livello d’occhi, abbastanza vicino da scorgere i vermi di sangue contorcersi come spermatozoi della peste.
Io sono l’occultazione e l’eclissi.
Si portò alla bocca Eph come se fosse un succoso acino d’uva. Il palato era scuro, la gola una sterile caverna, una via diretta per l’inferno.
Eph, col corpo dondolante dal collo, era quasi fuori di senno. Sentiva il lungo artiglio medio contro la nuca, la pressione in cima alla spina dorsale. Il Padrone gli piegò all’indietro il capo, come avrebbe piegato la linguetta di una lattina di birra.
Sono un bevitore di uomini.
Un suono umido, crocchiante. Poi la bocca del Padrone cominciò ad aprirsi. La mascella si ritrasse, la lingua si arricciò in alto e all’indietro, l’orrendo pungiglione venne fuori.
Eph ruggì, in gesto di sfida bloccò con le braccia l’accesso al proprio collo, urlò sull’orrida faccia del Padrone.
E poi qualcosa – non l’urlo di Eph – indusse la grande testa del Padrone a girarsi di una frazione di centimetro.
Le narici pulsarono, l’annusare di un demone privo di fiato.
Gli occhi d’onice si puntarono di nuovo su Eph. Lo fissarono come due sfere morte. Lo guardarono storto, come se lui avesse in qualche modo cercato d’ingannare il Padrone.
Non da solo.
In quel momento, salendo le scale dell’appartamento di Eph, due gradini dietro Fet, Setrakian strinse all’improvviso la ringhiera, sbattendo la spalla contro la parete. Il dolore gli esplose nella testa, come un accecante aneurisma, e una voce, perfida, gongolante, blasfema rimbombò come una granata che esploda in un’affollata sala da concerti.
SETRAKIAN.
Fet si fermò e guardò indietro, ma con occhi frementi il vecchio gli indicò di proseguire. Riuscì solo a emettere un bisbiglio. «Lui è qui.»
Nora si rabbuiò. Gli stivali del disinfestatore pestarono gli scalini per correre al pianerottolo. Lei aiutò Setrakian, lo spinse dietro Fet, alla porta, nell’appartamento.
Vasiliy colpì il primo corpo che incontrò, un placcaggio da rugby: si abbassò e si lasciò afferrare, si buttò a terra e rotolò. Si rialzò subito in posizione di combattimento e affrontò l’avversario; vide la faccia del vampiro che non sghignazzava, ma teneva le labbra aperte come in un sogghigno, pronto a nutrirsi.
Poi notò il gigantesco essere nella stanza. Il Padrone, che teneva stretto Eph. Mostruoso. E ipnotico.
Il vampiro più vicino spinse Fet nella cucina, contro lo sportello del frigo.
Nora si precipitò dentro e riuscì ad accendere la lampada UVC proprio mentre il vampiro Bolivar si tuffava su di lei. La creatura emise un grido senza fiato e arretrò barcollando. Nora scorse il Padrone, la parte posteriore della testa, rivolta in basso, che toccava il soffitto. Poi vide Eph dondolare dal collo in giù nella stretta del mostro.
«Eph!»
Setrakian entrò con la lunga spada sguainata. Impietrì per un istante dinanzi al Padrone, il gigante, il demone. Lì davanti a lui, dopo tutti quegli anni.
Brandì la lama d’argento. Nora, da una direzione diversa, spinse Bolivar indietro verso la parete frontale della stanza. Il Padrone era con le spalle al muro. Aveva commesso il grave errore di attaccare Eph in uno spazio così limitato.
Con il cuore che batteva all’impazzata, il vecchio protese la spada e la conficcò nel demone.
Il ronzio nell’appartamento crebbe all’improvviso, un’esplosione di rumore dentro la testa di Setrakian. E in quella di Nora, di Fet, di Eph. Un’invalidante onda d’urto sonora che spinse il vecchio a ritrarsi per un momento… quanto bastava.
Setrakian pensò di vedere un nero sogghigno serpeggiare sulla faccia del Padrone. Il gigantesco vampiro scagliò nella stanza Eph che continuava a dibattersi, lo mandò a cozzare contro la parete più lontana e a cadere pesantemente a terra. Con la lunga mano munita d’artiglio agganciò Bolivar per la spalla… e si tuffò contro la finestra panoramica che dava su Worth Street.
Uno schianto fragoroso fece tremare l’edificio mentre il Padrone fuggiva in una pioggia di frammenti di vetro.
Setrakian corse verso l’improvvisa corrente d’aria, al telaio della finestra bordato di schegge acuminate. Tre piani più in basso la pioggia di vetri stava colpendo il marciapiede, brillando alla luce dei lampioni.
Il Padrone, con la sua velocità preternaturale, era già dall’altra parte della via e scalava l’edificio opposto. Con Bolivar appeso al braccio libero, scavalcò il parapetto superiore e scomparve sul tetto più alto, nella notte.
Il vecchio professore vacillò un momento, incapace di elaborare il fatto che il Padrone si fosse appena trovato in quella stessa stanza e fosse fuggito. Il cuore gli spasimava nel petto, batteva come se stesse per scoppiare.
«Ehi… datemi una mano!»
Setrakian si girò e vide che Fet, sul pavimento, stava tenendo a bada l’altro vampiro che la lampada di Nora neutralizzava. Il vecchio sentì una nuova esplosione di rabbia e si avvicinò, tenendo lungo il fianco la spada d’argento.
Vasiliy lo vide arrivare e sbarrò gli occhi. «Un momento…»
Setrakian colpì, trapassò il collo del vampiro a qualche centimetro dalle mani del disinfestatore. Con un calcio spinse via dal petto di Fet il corpo decapitato, prima che il sangue bianco toccasse la pelle dell’uomo.
Nora corse da Eph, accartocciato sul pavimento. Aveva un taglio sulla guancia e gli occhi dilatati e atterriti, ma non pareva cambiato.
Setrakian estrasse uno specchio per avere la conferma. Lo tenne davanti al viso di Eph e non vide un’immagine distorta. Nora gli illuminò il collo con la lampada. Niente, nessuna incisione.
Lo aiutò a mettersi seduto ed Eph trasalì di dolore quando gli toccò il braccio destro. Lei gli tastò il mento sotto la guancia tagliata: avrebbe voluto abbracciarlo, ma non voleva fargli male. «Cos’è successo?» chiese.
«Ha Kelly» rispose Eph.
Kelton Street, Woodside, Queens
Eph attraversò a tutta velocità il ponte che portava nel Queens. Mentre guidava, usò il cellulare di Jim per chiamare Kelly.
Nessuno squillo. Risposta immediata della segreteria telefonica.
«S...