Per il tuo bene
eBook - ePub

Per il tuo bene

Piccoli crimini in nome dell'affetto

  1. 182 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Per il tuo bene

Piccoli crimini in nome dell'affetto

Informazioni su questo libro

Intervengono nella nostra vita. Manovrano gli scambi, dirottando i nostri destini su binari imprevedibili. Usano l'omissione, la menzogna e, in qualche caso, anche metodi più spicci e brutali. Eppure sono le persone che amiamo - e che ci amano - di più: genitori, coniugi, parenti, amici... A un certo punto se scopriamo il loro gioco, e chiediamo perché si siano comportati in quel modo, ci spiegano: "L'ho fatto per il tuo bene"; e ne sono convinti, anche se forse, qualche volta, hanno avuto in mente più la loro quiete della nostra. Resta il fatto che le migliori intenzioni hanno dato luogo a smarrimento, disordine e dolore. Per il tuo bene riunisce tre racconti che sono altrettante variazioni su questo tema, ispirate a Gianna Schelotto dalla sua esperienza di psicoterapeuta.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804501572
eBook ISBN
9788852010460

Per il tuo bene

Eppure ogni uomo uccide ciò che ama.
OSCAR WILDE, Ballata del carcere di Reading

Per il tuo bene

Il buio lo sorprese.
Aprendo il portone, aveva immaginato di trovare il chiarore; invece trovò una notte fitta. Alle quattro del mattino, tutto era ancora immerso nel silenzio; solo dalle luci accese dietro qualche finestra si capiva che la giornata stava pigramente cominciando.
Gli sembrava che il giorno precedente – un lungo giorno di angoscia – non fosse ancora finito, e già ne iniziava un altro, senza che il sonno gli avesse concesso, anche solo per un istante, il sollievo dell’incoscienza.
Indossò il casco molto prima di arrivare alla moto. Camminava, zaino in spalla, con la testa imprigionata nell’involucro luccicante, e per un attimo fu distratto dalla fantasia di essere un alieno, un abitante di mondi sconosciuti e lontani, inattaccabile dalle disgrazie terrestri. E tuttavia sapeva bene che la rabbia, il dolore, la paura da cui era stato attanagliato per tutte quelle ore, si sarebbero acquietati solo a operazione compiuta.
Pensò allo scopo della sua avventura notturna e fu scosso da un brivido. Fin da bambino l’idea di sfiorare un morto lo aveva atterrito. Sfiorare? Non era questo che si proponeva: doveva prelevare, tagliare… E il cadavere era quello di suo padre.
Inforcò la moto e partì.
La distanza era poca, tra la casa e l’obitorio; in assenza di traffico, la percorse in meno di dieci minuti.
Il cancello era chiuso e nessuna luce filtrava dall’edificio. Aveva preso in considerazione quella possibilità, al momento di partire; ma ora, toccando le sbarre fredde, gli sembrò che tutto gli fosse ostile, che tutto congiurasse contro di lui. Scosse le aste di ferro che lo separavano dal gelido magazzino dove erano stoccati i morti, vi poggiò la testa come se sperasse di introdurla in un interstizio e restò immobile, con gli occhi fissi nella penombra, in preda allo sconforto e alla disperazione.
«È chiuso!» disse una voce assonnata dall’interno: «apre alle sette!»
Si riscosse.
Doveva essere passato del tempo; forse si era addormentato, in piedi, appeso alle sbarre del cancello: e ora, aprendo gli occhi, vide nel chiarore incerto due ombre grigie, con secchi e ramazze. Si erano materializzate senza rumore, e avevano schiuso la porta e sceso i gradini della casa dei morti. Indossavano lunghi camici scuri.
«C’è mio padre là dentro» disse, allungando nell’aria una mano, come per trattenerli «ho bisogno di vederlo…»
«Apre alle sette» ribatté uno dei due custodi. Aveva la testa coperta da un berretto di lana da sciatore calato sugli occhi.
«Alle sette devo essere al lavoro» supplicò: «io guido gli autobus, non posso mancare… la prego, mi faccia entrare solo qualche minuto!»
«Pòvou figgieu! Povero ragazzo!» disse impietosito l’altro guardiano «Fallo entrare; tanto chi ci vede, a quest’ora?»
Senza rispondere l’uomo cercò le chiavi nella tasca del camice e si avvicinò al cancello.
«Va bene» disse, e, come per giustificare l’infrazione alle regole, aggiunse: «Anche mio fratello lavora all’Azienda trasporti: guida il 45; tu che linea fai?».
«Il 36 o il 33» rispose, e pensò che era fortunato: se avesse fatto un altro mestiere, forse quel cancello, che ora girava sui cardini, sarebbe rimasto chiuso, per lui; pensò anche che sarebbe stato cortese informarsi sul nome del fratello, abbozzare una conversazione, fermarsi a ringraziare; ma le due ombre grigie erano già alle sue spalle; e lui già aveva spinto la porta ed era entrato nel vestibolo illuminato da luci al neon.
«Pòvou figgieu!» sospirò ancora una volta il secondo custode, guardando l’ombra incerta del giovane sparire dietro i vetri opachi.
Alfredo scese impetuosamente per la ripida rampa di cemento a vista e spinse la porta di vetri e metallo.
Una luce azzurrina rendeva livido e tetro il lungo corridoio, su cui si affacciava una teoria di porte bianche.
Ogni porta, una targhetta con un nome.
Quelle targhette le aveva lette il giorno precedente, una per una, prima di scoprire con un tuffo al cuore, sulla porta della penultima cameretta, il nome di suo padre.
Mosse in quella direzione, a passi impazienti, ma insieme trattenuti. Il corridoio era lungo. Di tanto in tanto rallentava e si voltava indietro, come se temesse di essere seguito.
Nella piccola stanza in cui entrò ristagnava il profumo dei fiori.
Quello là, in un angolo, era il fascio dei suoi garofani.
Si avvicinò al morto e gli mise una mano sulla fronte diaccia come il marmo.
«Ora me lo dirai, pa’…» sussurrò, e nella sua intonazione vibrò una strana nota trionfale «ora verrà fuori la verità che mi hai sempre nascosto… La scoprirò da solo, che tu lo voglia o no…» e si massaggiò le dita intirizzite, come un pianista che si prepari a un concerto.
Aveva fatto scivolare lo zaino dalle spalle sulla panca e vi aveva frugato a lungo, in modo febbrile.
Ne aveva tratto, infine, un paio di piccole forbici e due sacchetti di plastica trasparente.
Poi si era messo all’opera, con gesti lenti e in certo modo solenni. Non ansimava più, come se da un momento all’altro il tumulto delle passioni si fosse placato.
Tornò vicino alla salma e, per prima cosa, strinse fra indice e pollice una ciocca di capelli, la sollevò dalla tempia e, con un colpo secco di forbici, la recise. Un certo numero di capelli cadde a terra. Si inginocchiò. Il pavimento di graniglia rendeva difficile la ricerca. Carponi, ne accarezzava con la mano la superficie gelida. E solo quando vide che alcuni sottilissimi fili bianchi erano rimasti attaccati al palmo della mano, come sul cranio di un calvo, si rialzò e li lasciò cadere, insieme agli altri, in uno dei due sacchetti di plastica.
Un po’ scontento, guardò il sacchetto controluce: quei capelli dovettero sembrargli pochi, e dunque ripeté l’operazione, tagliando una nuova ciocca.
Per le unghie fu più difficile: strette intorno al rosario, le dita, rigide e intrecciate fra loro, sembravano opporre una sprezzante resistenza.
Ma nulla poteva fermarlo. Del resto una volta districate le dita, l’operazione non presentò difficoltà: le unghie erano lunghe, forse cresciute dopo la morte.
Zac, zac… Mise il nuovo reperto nel secondo sacchetto e, dopo averli sigillati entrambi, li ripose nella tasca anteriore dello zaino.
“Non è stato poi così terribile” pensò.
Uscito dall’obitorio, Alfredo si trovò immerso nella luce del nuovo giorno, tra rumori di clacson.
Il calcolo del tempo lo riempì di meraviglia: erano passate soltanto poche ore da quando, finito il suo turno sul 36, era stato avvisato dal collega che lo sostituiva di telefonare subito a casa; eppure quel momento gli sembrava già così remoto!
“Tuo padre è morto” aveva sospirato Monica con voce quasi inudibile, come se sussurrare fosse il solo modo di attenuare la gravità della notizia. “Se passi a prendermi, andiamo all’obitorio insieme.”
Ma lui non voleva perdere nemmeno un istante, e aveva deciso di andarci senza passare da casa.
Proprio di fronte al capolinea del 36 c’era un fioraio, un amico.
Si scambiavano spesso battute, quando Alfredo saliva o scendeva dagli autobus: erano entrambi tifosi del Genoa e di tanto in tanto intavolavano lunghe discussioni sugli sbagli degli allenatori che si erano avvicendati negli anni, con risultati scoraggianti.
«È morto mio papà» così disse quel giorno entrando nel negozio con espressione smarrita; e l’amico, senza parlare, aveva preso da un gran vaso verde tutti i garofani disponibili e glieli aveva appoggiati sulle braccia.
Salì in macchina e partì a gran velocità, senza curarsi di semafori e precedenze. Era furioso con se stesso: era andato al lavoro, quella mattina, e invece avrebbe dovuto restare accanto a suo padre che moriva.
«Dove corri?” pensava. “Ormai tutto è finito e non puoi farci niente.” Ma gli sembrava che, arrivando prima degli altri, avrebbe potuto cogliere ancora qualche segno, sul viso non del tutto irrigidito: le tracce di un segreto che lo riguardava, e che suo padre portava con sé nella tomba.
Era già stato composto, le mani incrociate sul petto, un rosario fra le dita diafane, inverosimilmente lunghe nella loro magrezza.
In piedi da un lato c’era sua madre: guardava il marito, immobile, e solo di tanto in tanto, con gesti automatici, sistemava le invisibili pieghe del lenzuolo sul quale era adagiato.
Alfredo le si era avvicinato: «Ma’… mamma» era riuscito a dire con voce rotta; gli sembrava che, dentro, il cuore gli si spezzasse.
Lei non si era voltata, non aveva detto una sola parola. Lo sguardo era rimasto fisso sul morto, e solo la mano si era allungata, per stringere la sua.
La forza della stretta lo commosse. Era così raro che sua madre manifestasse, davanti a lui, un qualsiasi sentimento, che quel semplice gesto gli sembrò un regalo insperato. Fu lambito da un’ondata improvvisa di gratitudine e riuscì a stento a frenare il desiderio di abbracciarla; lo trattenne l’impressione che quella stretta, intensa ma breve, fosse anche un monito, un invito a starsene da parte, a evitare ogni eccesso di commozione.
Senza parlare si era seduto di fronte a lei, sulla panca appoggiata al muro. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo lui e la madre erano rimasti in silenzio: ore, forse, o minuti.
Poi era arrivato Guido, il maggiore dei suoi fratelli. Al rumore dei passi in corridoio la mamma si era girata ansiosamente verso la porta e, quando lo aveva visto, gli era corsa incontro. Si erano abbracciati piangendo, stringendosi forte, l’una nelle braccia dell’altro.
Alfredo, su quella panca ostile, li guardava incredulo.
Poi Guido gli si era seduto accanto e gli aveva stretto energicamente un braccio, come per un tacito, doloroso saluto.
La scena si era ripetuta identica quando era arrivata Manola. Alfredo aveva guardato la madre e la sorella abbracciarsi in lacrime, ognuna cercando nel dolore dell’altra una consolazione al proprio.
A quel punto era uscito.
Nemmeno in quella circostanza tragica veniva considerato alla pari degli altri.
Sua madre lo odiava. Quella scena non gli lasciava dubbi.
Alfredo ripensò alla discussione avuta con Monica, qualche ora più tardi.
A detta di Monica, sua madre non lo aveva abbracciato perché, arrivata da poco, era ancora convinta di potersi controllare.
“Se tu fossi arrivato più tardi avrebbe abbracciato anche te” sosteneva con aria sicura; e Alfredo si domandava con rabbia se fosse stupida, o se pensasse, invece, che lo stupido era lui. Anche lei non lo capiva, anche lei si schierava con gli altri; eppure era sua moglie; non solo: lo amava.
“Sei fissato” aveva insistito Monica “non vuoi renderti conto che è una questione di carattere, non di amore. Sai bene com’è tua madre: una donna schiva, riservata, molto genovese. Non puoi intestardirti a pretendere da lei quello che non sa dare.”
Sua moglie non capiva. Non riusciva a capire.
Che i suoi genitori non lo amassero, Alfredo lo aveva saputo fin da piccolo, ma per molto tempo si era affaticato a inventare spiegazioni razionali di quella mancanza d’amore, dando a se stesso la colpa.
“Forse” pensava “ho fatto qualcosa di sbagliato, ho detto qualcosa che non dovevo dire.”
Così aveva preso l’abitudine, al termine della giornata, di procedere a un minuzioso esame di coscienza, riuscendo quasi sempre a trovare un gesto, una frase, una piccola disobbedienza che, almeno ai suoi occhi, giustificavano i rifiuti di su...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Per il tuo bene
  3. Per il tuo bene
  4. L’ultimo a saperlo
  5. Chiaroscuri
  6. Postfazione - Se il buon Dio…
  7. Ringraziamenti
  8. Copyright