Mr McBride aveva il suo laboratorio nella vecchia fabbrica del ghiaccio in Lee Street, a qualche isolato dalla piazza nel centro di Clanton. Per trasportare avanti e indietro divani e poltrone, si serviva di un furgone Ford bianco con la scritta TAPPEZZERIA MCBRIDE in grossi caratteri neri, sotto la quale comparivano il numero di telefono e l’ indirizzo. Il furgone era sempre pulito, non andava mai di fretta ed era una vista abituale a Clanton, dove Mr McBride era abbastanza conosciuto, dato che era l’unico tappezziere della città. Prestava raramente il suo furgone, anche se le richieste erano più frequenti di quanto gli facesse piacere. La sua risposta standard era un educato: «No, ho delle consegne da fare».
Però aveva detto di sì a Leon Graney, e lo aveva fatto per due ragioni. Prima di tutto le circostanze che motivavano la richiesta erano estremamente insolite e, in secondo luogo, il capo di Leon alla fabbrica di lampadari era terzo cugino di Mr McBride. Visto che in una piccola città i rapporti di parentela sono quello che sono, Leon Graney si presentò come concordato al negozio del tappezziere alle quattro in punto di un caldo mercoledì pomeriggio di fine luglio.
Quasi tutti a Ford County stavano ascoltando la radio ed era noto che le cose non andavano molto bene per la famiglia Graney.
Mr McBride accompagnò Leon al furgone, gli diede le chiavi e gli disse: «Stacci attento».
Leon prese le chiavi e rispose: «Le sono molto grato».
«Ho fatto il pieno. Dovrebbe essercene più che abbastanza per andare e tornare.»
«Quanto le devo?»
Mr McBride scosse la testa e sputò sulla ghiaia, accanto al furgone.
«Niente. Offro io. Basta che me lo riporti con il serbatoio pieno.»
«Mi sentirei più a mio agio, se potessi pagare qualcosa» protestò Graney.
«No.»
«Be’, allora grazie.»
«Lo rivoglio per domani a mezzogiorno.»
«Ci sarò. Le dispiace se lascio qui il mio pickup?» Leon indicò un vecchio pickup giapponese, incuneato fra due auto nel parcheggio.
«Nessun problema.»
Graney aprì la portiera e salì sul furgone. Avviò il motore, poi regolò il sedile e gli specchietti. Mr McBride si avvicinò al finestrino, si accese una sigaretta senza filtro e guardò Leon. «Sai, ci sono persone alle quali questa storia non piace proprio.»
«Grazie, ma alla maggior parte della gente di qui non importa un accidente» ribatté Leon. Era preoccupato e non aveva voglia di chiacchierare.
«Per conto mio, sono convinto che sia sbagliato.»
«Grazie. Sarò di ritorno prima di mezzogiorno» disse Leon sottovoce, poi fece marcia indietro e scomparve lungo la strada. Si sistemò sul sedile, provò i freni, accelerò gradualmente per verificare la potenza del motore. Venti minuti dopo era già lontano da Clanton e si inoltrava fra le colline della parte settentrionale di Ford County. Superato il villaggio di Pleasant Ridge, la strada diventò ghiaiosa e le case si fecero più piccole e più distanziate. Leon imboccò un corto vialetto d’accesso e si fermò davanti a una casa a forma di scatola, con erbacce che crescevano di fianco alle porte e un tetto con tegole d’asfalto che aveva bisogno di riparazioni. Era la casa dei Graney, il luogo dove Leon era cresciuto insieme ai suoi fratelli, l’unica costante nelle loro vite tristi e caotiche. Un’improvvisata rampa in compensato multistrato saliva fino alla porta laterale in modo che la madre, Inez Graney, potesse entrare e uscire di casa sulla sua sedia a rotelle.
Quando Leon spense il motore, la porta laterale era già aperta e Inez stava per scendere lungo la rampa. Alle sue spalle c’era la mole massiccia del figlio di mezzo, Butch, che viveva ancora con lei perché non aveva mai vissuto da nessun’altra parte, almeno non nel mondo libero. Sedici dei suoi quarantasei anni erano trascorsi dietro le sbarre e Butch in effetti aveva la faccia giusta per la parte del criminale professionista: lunga coda di cavallo, borchie alle orecchie, ogni tipo di pelo facciale, bicipiti massicci e una collezione di brutti tatuaggi che gli aveva fatto un artista carcerario in cambio di sigarette. Nonostante il suo passato, Butch maneggiava la madre e la sedia a rotelle con grande attenzione e tenerezza, parlandole sottovoce mentre scendevano la rampa.
Leon guardò e aspettò, poi si spostò sul retro del furgone e ne aprì i due sportelli. Insieme a Butch sollevò con cura la madre, che venne sistemata a bordo. Butch poi la spinse avanti, fino al pannello centrale che separava i due sedili anteriori fissati al pavimento. Leon infine bloccò la sedia a rotelle con delle corde elastiche da imballo che qualcuno della tappezzeria McBride aveva lasciato sul furgone. Quando Inez fu ben assicurata, i suoi ragazzi presero posto davanti e il viaggio ebbe inizio. Dopo pochi minuti erano di nuovo sulla strada asfaltata, pronti per una lunga notte.
Inez, che aveva settantadue anni, era madre di tre figli e nonna di almeno quattro nipoti, una donna sola e malata che non ricordava l’ultima volta in cui aveva avuto un po’ di fortuna. Anche se si considerava single da una vita, non era, almeno per quanto ne sapeva, divorziata ufficialmente dalla miserabile creatura che l’aveva pressoché violentata a diciassette anni e sposata a diciotto, aveva generato i tre ragazzi e poi, grazie a dio, era scomparsa dalla faccia della terra. Quando ogni tanto le capitava di pregare, Inez non mancava mai di buttare dentro anche l’ardente richiesta che Ernie restasse lontano da lei, che rimanesse ovunque la sua miserabile vita l’aveva portato. Sempre che la sua vita non fosse già finita in qualche modo molto doloroso, il che era in effetti ciò che Inez sognava, ma non si azzardava a chiedere al Signore. Era a Ernie che attribuiva la colpa di tutto: la sua cattiva salute e la povertà, il basso status sociale, l’isolamento, la mancanza di amici, perfino il generale disprezzo nei confronti della famiglia. Ma l’accusa più grave che Inez muoveva a Ernie riguardava il trattamento che quell’uomo aveva riservato ai tre figli. Abbandonarli era stato di gran lunga un gesto più tenero che picchiarli di continuo.
Arrivati sulla highway, tutti e tre ormai avevano bisogno di una sigaretta. «Pensate che a McBride dispiaccia, se fumiamo?» domandò Butch. A una media di tre pacchetti al giorno, aveva già la mano in tasca.
«Qualcuno di sicuro ha fumato qui dentro» disse Inez. «Questo furgone puzza come una cava di catrame. Leon, è accesa l’aria condizionata?»
«Sì, ma non si sente, se teniamo i finestrini aperti.»
Con scarse preoccupazioni per le preferenze di Mr McBride riguardanti il fumo a bordo del suo furgone, ben presto tutti e tre stavano fumando, con i vetri dei finestrini abbassati e il vento caldo che soffiava all’interno turbinando. Una volta entrato, il vento non aveva via d’uscita, nessun altro finestrino, nessuna ventola, niente che gli permettesse di uscire, per cui tornava vorticando davanti e avvolgeva i tre Graney, che fumavano assorti fissando di fronte a sé, apparentemente dimentichi di tutto mentre il furgone avanzava lungo la strada della contea. Butch e Leon gettavano la cenere fuori dai finestrini. Inez la faceva educatamente cadere nella mano sinistra a coppa.
«Quanto ha voluto Mr McBride?» domandò Butch dal sedile del passeggero.
Leon scosse la testa. «Niente. Ha addirittura fatto il pieno. Ha detto che non è d’accordo su questa cosa. Ha detto che non piace a un mucchio di gente.»
«Non sono sicuro di crederci.»
«Io non ci credo.»
Finite le tre sigarette, Leon e Butch chiusero i finestrini e armeggiarono con l’aria condizionata e le ventole, che cominciarono a sparare aria bollente. Passarono parecchi minuti prima che il caldo diminuisse. Tutti e tre stavano sudando.
«Stai bene lì dietro?» domandò Leon, guardando al di sopra della spalla e sorridendo a sua madre.
«Sto bene, grazie. Funziona l’aria condizionata?»
«Sì, sta già diventando più fresco.»
«Io non sento niente.»
«Vuoi fermarti a bere qualcosa?»
«No. Andiamo avanti.»
«A me andrebbe una birra» dichiarò Butch e, come se l’annuncio fosse stato previsto, Leon scosse immediatamente la testa e Inez reagì con un enfatico: «No».
«Oggi non si beve» aggiunse, e l’argomento fu chiuso. Quando anni prima Ernie aveva abbandonato la famiglia, con sé aveva preso soltanto il fucile, qualche indumento e tutti i liquori della sua scorta privata. Era stato un ubriacone violento e i suoi ragazzi ne portavano ancora le cicatrici, fisiche ed emotive. Leon, il maggiore, aveva vissuto la brutalità del padre più dei fratelli minori e fin da bambino aveva identificato l’alcol con gli orrori di un padre manesco. Non aveva mai bevuto un drink in vita sua, anche se con il tempo aveva scoperto altri vizi. Butch, invece, aveva cominciato a bere parecchio fin da ragazzino, anche se non aveva mai avuto la tentazione di introdurre alcolici di nascosto a casa di sua madre. Raymond, il più giovane, aveva deciso di seguire l’esempio di Butch, piuttosto che quello di Leon.
Per evitare quell’argomento sgradevole, Leon domandò alla madre notizie di una sua amica che viveva poco lontano, una vecchia zitella che stava morendo di cancro ormai da anni. Inez si ringalluzziva sempre quando poteva parlare delle malattie e delle cure dei vicini di casa, e anche delle proprie. L’aria condizionata ebbe finalmente la meglio e la pesante umidità all’interno del furgone cominciò a diminuire. Non appena smise di sudare, Butch infilò una mano in tasca, pescò una sigaretta, se l’accese e poi abbassò di poco il finestrino. La temperatura salì immediatamente. Poco dopo stavano fumando tutti e tre e i vetri dei finestrini si abbassarono sempre di più, finché l’aria fu di nuovo satura di calore e nicotina.
Finite le sigarette, Inez disse a Leon: «Raymond mi ha telefonato un paio d’ore fa».
Non era una sorpresa. Erano giorni ormai che Raymond telefonava, a carico del destinatario, e non solo a sua madre. Ultimamente il telefono di Leon squillava così spesso che sua moglie (la terza) si rifiutava di rispondere. Anche altri in città declinavano l’addebito della chiamata.
«Cos’ha detto?» domandò Leon, ma solo perché doveva rispondere alla madre. Sapeva esattamente cosa aveva detto Raymond, magari non parola per parola, ma di sicuro in generale.
«Ha detto che le cose si stanno mettendo davvero bene, ha detto che probabilmente dovrà licenziare la squadra di avvocati che ha adesso per assumerne un’altra. Lo sai anche tu com’è Raymond: è lui che dice agli avvocati cosa devono fare e loro devono scattare per stare al passo.»
Senza muovere la testa, Butch lanciò un’occhiata a Leon, che gli restituì lo sguardo. Non dissero nulla perché le parole non erano necessarie.
«Ha detto che questa nuova squadra di legali lavora in uno studio di Chicago che ha mille avvocati. Ci pensate? Mille avvocati al lavoro per Raymond. E lui che gli dice cosa devono fare.»
Un’altra occhiata fra conducente e passeggero. Inez aveva la cataratta e la sua visione periferica era scarsa. Se avesse visto le occhiate che passavano tra i figli maggiori non ne sarebbe stata contenta.
«Raymond dice anche che hanno appena scoperto delle nuove prove che avrebbero dovuto essere presentate al processo, ma che la polizia e il procuratore avevano nascosto. E, grazie a queste nuove prove, Raymond è molto ottimista per quanto riguarda la possibilità di un nuovo processo a Clanton, anche se non è proprio sicuro di volerlo fare a Clanton, forse deciderà di spostarlo da un’altra parte. Sta pensando a un qualche tribunale nel Delta, perché nelle giurie del Delta ci sono più neri e lui dice che i neri sono sempre più comprensivi in casi come il suo. Tu cosa ne pensi, Leon?»
«Che di certo nel Delta ci sono più neri» rispose Leon. Butch grugnì e borbottò, ma le sue parole risultarono incomprensibili.
«Raymond dice che non si fida di nessuno a Ford County, specialmente della legge e dei giudici. Dio solo sa che non ci hanno mai dato un attimo di respiro.»
Sia Leon sia Butch annuirono in silenzio. Tutti e due erano stati stritolati dalla legge di Ford County. Butch molto più di Leon. E anche se nel corso di tutti i vari patteggiamen...