Qualcosa da tenere per sé
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Qualcosa da tenere per sé

  1. 280 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Qualcosa da tenere per sé

Informazioni su questo libro

Le severe architetture di Torino si tingono di colori, le strade brulicano di persone: è l'atmosfera elettrica ed euforica delle Olimpiadi invernali, grazie alle quali anche la prof Camilla Baudino gode di una vacanza fuori programma. Scuole chiuse, marito e figlia in montagna per seguire da vicino le gare, Camilla resta in città. Ma i suoi propositi di riposo vengono sconvolti dall'incontro con Liuba, una ventiduenne dura e al tempo stesso fragile, che lavora in un sexy shop e vive in una comune. È proprio Liuba a chiedere aiuto a Camilla: vorrebbe ritrovare il goffo e lento Quantunque, l'ultimo arrivato nella comune, un ragazzo di cui nessuno sa niente e che è scomparso nel nulla. La ricerca delle due donne s'intreccia presto con l'indagine della polizia sull'assassinio della prostituta Flora, in un contrappunto serrato tra l'inchiesta ufficiale e quella - più discreta e "femminile", ma non meno efficace - della prof, che finirà per trovarsi di fronte a una domanda tanto difficile quanto urgente: la giustizia coincide necessariamente con lo svelamento della verità, di tutta la verità?

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804583240
eBook ISBN
9788852012082

1

Quantunque aveva vent’anni e la goccia al naso. Una goccia come quella che viene giù da un rubinetto con la guarnizione lasca, che si ingrossa piano piano, si fa oblunga e poi si stacca e cade. Tic… tic… si aspetta il prossimo tic e non si riesce a pensare ad altro. La goccia di Quantunque non faceva rumore, finiva sulla felpa scolorita e chiazzata di macchie o sulla mano che la spazzava con un gesto veloce, ma lo sguardo di chi gli stava vicino ne era come incatenato. Adesso mancava da qualche giorno e Liuba cominciò a preoccuparsi.
«Da quand’è che non lo vedi?» chiese all’Avvocato, che non era avvocato ma si era studiato i codici meglio di un principe del Foro.
«Boh. Mica gli sto a far da balia. Da quattro o cinque giorni, chi lo sa.»
«Cinque forse no. Mi sembra che giovedì gli ho parlato» ribatté lei.
«E allora cosa chiedi a fare?»
«Chiedo perché magari qualcuno l’ha visto dopo. Non è mai stato via più di due giorni.»
«E invece stavolta sta via cinque o sei. Perché cazzo ti preoccupi tanto, mi chiedo.»
Invece Liuba era preoccupata. Non tanto, ma un po’ sì, perché si sentiva responsabile da quando l’aveva adottato, come dicevano gli altri. Se l’era trovato di fianco a una manifestazione contro gli sfratti, l’aveva preso per mano, gli diceva salta o grida e lui lo faceva come se fosse contento di ubbidire. Poi, quando il corteo s’era sciolto, l’aveva seguita come un cane o un gatto sperduto che tiri a trovare qualcuno che lo tolga dalla strada, tre passi dietro a lei, senza parlare, senza chiedere niente. Sempre dietro a lei era salito prima sul 18 poi sul 57, senza biglietto, come lei e come tanti, e con lei era sceso a una fermata tra le borgate Barca e Bertolla. Quando erano arrivati davanti al portone scassato dello Schirrù, era stata lei a chiedergli:
«Embè?»
«Quantunque…» aveva risposto lui.
«Quantunque cosa?»
«Niente.»
Però non si schiodava, solo bilanciava il peso del corpo ora su una gamba ora sull’altra, come un orso addomesticato.
«Da dove vieni?»
«Dal paese. Sono partito stamattina.»
«E adesso dove vai?»
«Non lo so.»
«Perché sei partito?»
«Volevo sperdermi. Quantunque…»
«Quantunque?»
«Niente.»
«Ho capito. Scommetto che non hai idea di dove andare a dormire.»
«Sì.»
«Sì vuol dire che ce l’hai o no?»
«No.»
Liuba si mise a ridere. Un ragazzo grande e grosso ma con il cervello da bambino. E con la goccia al naso come un bambino.
«Non puoi soffiartelo sto naso?»
«Sì, ma tanto ricomincia subito a perdere. È una malattia.»
«Allora curala.»
«Ci va un’operazione.»
«Fattela fare.»
«Ho paura.»
«Perché volevi sperderti?»
«Così. Se mi sperdo loro sono contenti. Quantunque…»
«Loro sarebbero i tuoi?»
«Sì.»
«Puoi dormire qui, per stanotte.»
«Qui dove?»
«Allo Schirrù.»
«Cosa vuol dire?»
«Niente, lascia perdere. Vuoi sì o no?»
«Sì.»
Era cominciata così, e Quantunque era diventato un inquilino fisso dello Schirrù. Che era uno stanzone, una ex rimessa di carri agricoli, nel cortile di una specie di cascinotta che aveva conosciuto tempi migliori. Gli altri occupanti stanziali, cioè l’Avvocato, Nabil, Vanessa e il Gordo, l’avevano accettato senza entusiasmo e senza insofferenza; i saltuari non avevano mostrato alcun interesse o curiosità per lui e lo vedevano come un elemento trascurabile dell’ambiente, un pezzo di muro scrostato, una sedia spaiata, un pagliericcio. Liuba invece se l’era preso a cuore, gli parlava, e adesso era in pensiero per lui, perché forse si era sperduto di nuovo ed era ancora inverno.
L’inverno, se si ha un tetto sulla testa, è la stagione più bella di Torino. Quella in cui i colori hanno una nettezza nordica e gli spazi delle piazze diventano percepibili nella loro grandezza; quella in cui l’ombra fredda sotto i portici divide il selciato in parti che non comunicano tra loro, appartenenti a spaccati diversi di una scenografia monumentale e fantastica. L’estate invece è una stagione estranea che fa affondare la città in una mollezza orientale, in una spossatezza da hammam, con le strade quasi deserte e le serrande dei negozi abbassate come palpebre su occhi sonnacchiosi, con le vecchie alberate dei viali – tigli siliquastri ippocastani aceri platani – stremate dal peso delle foglie immobili nella calura. Il sole che picchia duro fa incassare le teste tra le spalle e nessuno alza lo sguardo per leggere lapidi e targhe di vecchi eroismi dimenticati.
Adesso era ancora inverno e Liuba era in pena per Quantunque. Che era andato a finire chissà dove. Che non sapeva badare a se stesso. Che chiunque poteva irretirlo e fargli del male. Ma guarda te se non sono stupida, pensò, sistemandosi le creste dei capelli, guarda te se non sembro una dama di carità, un’impicciona di quelle che ho sempre mandato a stendere perché con la scusa di fare del bene al prossimo ficcano il naso dove gli pare. Alzò le spalle davanti allo specchio, si passò un po’ di gommina sulle creste e uscì. Fuori faceva un freddo cane.
A Torino Quantunque era capitato per caso, senza aver programmato la meta in nessun modo. Del resto, programmare era una parola che non aveva mai pensato, insieme a tante altre. Una mattina aveva detto che non stava bene, che aveva come una mano che gli stringeva lo stomaco, non si era alzato dal letto e aveva lasciato che i suoi se ne andassero. Padre madre e i due fratelli, Nando e Piero, tutti in fabbrica. La madre ci restava solo fino a mezzogiorno, poi tornava a casa, gli altri invece mangiavano un paio di panini o un piatto caldo al bar di fronte e dopo riprendevano a lavorare. La fabbrica era una fabbrichetta, sette in tutto a lavorarci, loro quattro più tre operai e la madre, che però non la contavano perché teneva solo in ordine e rispondeva al telefono. Quantunque lo contavano, ma il più delle volte era come se non ci fosse, come quella mattina che però non c’era per davvero. Dopo che i suoi erano usciti, lui si era buttato giù dal letto, aveva messo nello zaino un po’ di roba, era salito sulla bici nuova di Piero che guai se l’avesse saputo e aveva pedalato per dieci chilometri, fino a Vicenza. Aveva preso la decisione quella notte, dopo che la frenata di un camion proprio sotto la finestra l’aveva svegliato di colpo e non era più riuscito a dormire. Di andarsene forse non gli sarebbe mai venuto in mente, se Nando, che dei due fratelli era quello sempre arrabbiato per qualcosa, una volta, più di un anno prima, non avesse detto che lui, Quantunque, era meglio perderlo che trovarlo e Piero e sua mamma, invece di difenderlo, avevano scosso la testa e borbottato “eh sì sì”, e solo suo papà non aveva detto niente. Aveva cominciato a pensare, ma prima solo di rado, che sarebbe stato bello perdersi, anzi sperdersi, come gli era capitato da bambino quando era andato per funghi con suo papà e i fratelli e poi si era allontanato senza accorgersene e non aveva più trovato il sentiero per tornare vicino a loro oppure a casa. Ma non aveva avuto nessuna paura, solo fame quando era venuto buio e più tardi sonno, e si era addormentato sotto un castagno dove l’aveva trovato don Giacomo la mattina dopo, che era andato per funghi pure lui. Poi il pensiero gli era venuto in mente più spesso, ma era un pensiero solo di striscio, come se riguardasse qualcun altro che neanche conosceva, uno che si sperdeva in un film o telefilm, che cioè se ne andava via di casa e non lo trovavano più. Ma la notte che la frenata del camion l’aveva svegliato, il pensiero era diventato grosso e gli occupava per intero la testa. A Vicenza aveva ritirato alla posta tutti i soldi del libretto e quando era uscito dall’ufficio, dopo aver aspettato più di mezz’ora perché c’era la coda e gli impiegati si alzavano tutti i momenti e sparivano nel retro, la bicicletta di Piero non c’era più. Per un momento gli erano venuti i brividi, ma poi si era ricordato che andava a sperdersi e Piero non l’avrebbe più rivisto. Alla stazione era salito sul primo treno che passava, senza prendere il biglietto perché non avrebbe saputo dire per dove, e gli era andata bene che i vagoni erano pieni zeppi di studenti in gita e il controllore non era passato. Era sceso alla Centrale di Milano, insieme con la comitiva, ma là per il chiasso e il viavai gli era venuto subito mal di testa, così era uscito, aveva camminato un po’ e poi era salito su un pullman che davanti aveva la scritta TORINO e aveva pagato il biglietto all’autista che era partito subito dopo.
A Torino c’era una manifestazione contro qualcosa fatta da giovani vestiti male, e certi avevano dei cani grossi senza guinzaglio che però non facevano paura, sventolavano bandiere rosse e di altri colori, saltavano, gridavano delle frasi con i megafoni, si tenevano per mano e sembravano allegri, non arrabbiati. Quantunque si intrufolò nel corteo e quando una ragazza lo prese per mano pensò che era bello e che Torino gli piaceva.
«Morta da quando?» aveva chiesto il commissario Gaetano Berardi al medico legale.
«Difficile a dirsi con sto freddo. E nello stato in cui è. Da un bel po’ comunque. Tre o anche quattro giorni. Strano che nessuno l’abbia notata prima.»
Intorno c’era il solito crocchio di poliziotti della omicidi ed esperti della scientifica, c’era la piemme, c’era un gruppetto di cronisti di nera e fotografi che lanciavano occhiate al cadavere con distacco professionale e battevano i piedi in terra per scaldarseli un po’.
«Una battona, tanto per cambiare» aveva osservato uno di “Repubblica”.
«Già. Le fanno fuori ovunque come mosche.»
«Rischi della globalizzazione. Ce ne sono troppe, c’è troppa concorrenza e poca prudenza.»
«Non è detto che sia stato un cliente.»
«Il suo garga dici? Tutto può darsi. Neanche i gargagnani sono più quelli di una volta.»
«E il tempo è cambiato.»
«Tutta colpa dell’atomica.»
«O del buco nell’ozono. Che però quest’anno si deve essere chiuso, visto il freddo che fa.»
«No, scherzi a parte, questa qui non sembra neanche tanto giovane.»
«Come fai a dirlo? Poveraccia, non è che si capisca granché, da come è conciata.»
«Le caviglie. Guardale le caviglie.»
«Grosse, sì. Ma mica tutte ce l’hanno da gazzella.»
«E una è più grossa dell’altra. Si doveva essere rotta il perone, oppure la tibia e il perone e non glieli hanno aggiustati bene.»
«E allora?»
«Allora è roba vecchia. Adesso le ossa le sistemano meglio. A meno di non capitare da un ortopedico rincoglionito.»
«Magari non è una di qui. Metti che arrivi dalla Moldavia, dall’Ucraina o da un altro posto dell’Est dove negli ospedali non vanno tanto per il sottile…»
«Difficile. Di là arriva merce giovane, se si tratta di battere. Quelle più ciospe fanno le badanti o le colf. E questa non è vestita da badante, questa è una puttana delle nostre.»
Erano le dieci del mattino e il freddo continuava a essere feroce, meno sei o meno sette, in quel campo dalle parti di strada di Druento, tra un filare di platani e un’arruffata massa di cespugli stecchiti. Il cielo era grigio piombo, il terreno, sotto lo strato sottile di brina ghiacciata, di un nero cupo. L’unica chiazza di colore era raggrumata addosso alla morta: il suo giubbotto slacciato, rosso mattone. No, rosso sangue. Quel che restava di una donna non più giovane, probabilmente una puttana, era osservato e studiato e fotografato da una dozzina di persone, in attesa dell’ulteriore scempio che sarebbe avvenuto sul tavolo autoptico, perché la morte violenta è sempre soltanto l’inizio.
Il medico legale si allontanò di qualche passo e si accese una sigaretta.
«Danne una anche a me» gli disse il commissario raggiungendolo.
«Ma non avevi smesso?»
«Avevo.»
«Non ci si abitua mai, eh?»
«A scene così, no.»
«Gran bastardo chi l’ha uccisa. Anzi, ucciderla è stato il meno. Spero che lo becchiate.»
«Lo spero anch’io. Però sarà dura. Tanto per cominciare, nessun documento, non è stata ammazzata qui e di tempo ne è passato troppo.»
«Di buono, si fa per dire, c’è che nessuno ti metterà fretta. I morti non sono tutti uguali.»
«E c’è anche, sempre si fa per dire, che le Olimpiadi non sono ancora cominciate. Nessun cadavere deve rovinare la festa.»
«Disposizioni superiori?»
«Diciamo raccomandazioni. Ma gli assassini se ne fregano. Delle raccomandazioni, della bella figura da fare di fronte al mondo e alla tivù. Della vita di una disgraziata che le andava meglio a non nascere.»
«Di’ un po’, cosa ti capita?»
«Niente. Non mi capita niente.»
«Non si direbbe. Te la prendi troppo. Pigliala più bassa, e smetti di fumare.»
«Senti da che pulpito. Tu quando smetti?»
«Mai. Credi che sia un bel lavoro frugare nelle budella, tagliare e ricucire?»
«No.»
«E allora…»
Buio pesto e un freddo cane. Alla faccia dell’effetto serra e delle altre previsioni apocalittiche. Eccessivo anche per Torino, pensò Camilla. Eccessivo anc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Margherita Oggero
  3. Qualcosa da tenere per sé
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. Copyright