Il richiamo della foresta (Mondadori)
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Il richiamo della foresta (Mondadori)

Jack London, Fedora Dei

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il richiamo della foresta (Mondadori)

Jack London, Fedora Dei

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Ambientato nelle gelide foreste dell'Alaska, questo romanzo ha come protagonista Buck, gigantesco cane per metà sanbernardo e per metà pastore scozzese, che fugge dalle leggi dell'uomo per riprendere la sua esistenza selvaggia a contatto della natura. Il più celebre libro d'avventure di Jack London (1876-1916).

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852010934

VII

Il richiamo

Quando fece guadagnare a John Thornton milleseicento dollari in cinque minuti, Buck permise al padrone di pagare alcuni debiti e di mettersi in viaggio verso est con i compagni alla ricerca di una leggendaria miniera perduta, la cui storia era vecchia quanto la regione stessa. Molti l’avevano cercata, pochi l’avevano trovata; e ben più di pochi non erano tornati dal viaggio. La miniera perduta era immersa nella tragedia, avvolta nel mistero. Nessuno sapeva chi per primo l’avesse scoperta. Le tradizioni più antiche si fermavano prima di giungere a lui. Sin dall’inizio si parlava di una vecchia e misera capanna. Uomini in punto di morte avevano giurato che esisteva e che esisteva la miniera di cui la capanna indicava l’ubicazione, rafforzando la loro testimonianza con pepite d’oro diverse da tutte le altre conosciute al nord.
Ma nessun uomo vivo aveva saccheggiato quel tesoro, e i morti erano morti; e così John Thornton, con Hans e Pete e Buck e un’altra mezza dozzina di cani, si mise in viaggio verso l’est, su piste sconosciute, per riuscire là dove altri uomini e altri cani, abili come loro, avevano fallito. Risalirono lo Yukon per centodieci chilometri, piegarono poi a sinistra passando sul fiume Stewart, oltrepassarono il Mayo e il McQuentin, e continuarono fino a dove lo Stewart si riduce a poco più di un ruscello, snodandosi tra le alte vette che segnano la spina dorsale del continente.
John Thornton chiedeva poco all’uomo o alla natura. Non temeva quelle terre selvagge. Una manciata di sale e un fucile gli bastavano per addentrarsi in quella selvaggia immensità, vagabondando quanto e dove gli piaceva. Non avendo fretta, alla maniera indiana cacciava per procurarsi il cibo giorno per giorno, durante il viaggio; e quando non riusciva a procurarsene, come gli indiani, continuava a viaggiare, tranquillo nella certezza che prima o poi lo avrebbe trovato. Così, in quel grande viaggio all’est, il menu era la carne fresca, il carico della slitta era costituito da munizioni e attrezzi e il termine del viaggio si poneva in un futuro illimitato.
Illimitata era la gioia di Buck in quel continuo vagabondare, a caccia e a pesca in luoghi sempre nuovi. Per settimane intere continuavano a viaggiare, un giorno dopo l’altro; e per intere settimane rimanevano accampati; allora i cani stavano in ozio, e gli uomini scavavano grandi buche nel fango e la ghiaia gelati e setacciavano interminabilmente il terriccio accanto al calore del fuoco. A volte pativano la fame, a volte banchettavano lussuosamente, sempre secondo l’abbondanza della selvaggina e la fortuna della caccia. Venne l’estate, e cani e uomini, con il carico sulla schiena, attraversarono azzurri laghi montani, scesero o risalirono fiumi sconosciuti, su barche sottili fatte con tronchi della foresta.
Così passarono i mesi, sempre su e giù per quella vastità non segnata sulle carte dove non c’erano uomini, ma dove pure dovevano essere stati, se la Capanna Perduta esisteva. Attraversarono il crinale dei monti sotto i temporali estivi, rabbrividirono al sole di mezzanotte su montagne nude, tra la linea dei boschi e le nevi eterne, poi scesero nell’estate delle valli, tra sciami di mosche e zanzare, e all’ombra dei ghiacciai colsero fragole e fiori belli e maturi quanto quelli di cui poteva vantarsi il sud. In autunno penetrarono in una misteriosa regione di laghi, con il suo triste silenzio, dove erano state le anatre selvatiche, ma dove allora non c’era segno di vita, soltanto il soffio di venti gelidi, il ghiaccio che si formava nei punti riparati e il monotono sciacquio delle onde su spiagge solitarie.
E per un altro inverno vagarono sulle piste cancellate di uomini che le avevano percorse prima di loro. Una volta, giunsero a un sentiero che serpeggiava nella foresta, un sentiero antico, e la Capanna sembrò molto vicina. Ma il sentiero non cominciava in nessun punto preciso e non conduceva a nessun punto preciso e rimase un mistero, come rimase un mistero chi lo avesse tracciato e perché. Un’altra volta trovarono i resti di una capanna di cacciatori logorata dal tempo, e, tra i brandelli di vecchie coperte ormai imputridite, John Thornton scoprì un fucile, di quelli a pietra focaia dalla canna lunga. Riconobbe un fucile della Compagnia della Baia di Hudson, dei tempi in cui nel nord-ovest un’arma simile valeva la sua altezza in pelli di castoro distese e ammucchiate l’una sull’altra. E non c’era altro: nessuna traccia dell’uomo che tempo prima aveva costruito la capanna e aveva lasciato il fucile tra le coperte.
Tornò di nuovo la primavera, e alla fine di quel lungo vagabondare non trovarono la Capanna Perduta, ma un’ampia valle con un giacimento alluvionale poco profondo dove l’oro brillava come burro biondo sul fondo del setaccio. Non cercarono più. Un giorno di lavoro rendeva migliaia di dollari in polvere d’oro e pepite, e lavoravano tutti i giorni. L’oro veniva insaccato in bisacce di pelle d’alce da venticinque chili l’una, ammucchiate come legna da ardere davanti alla capanna di rami d’abete. Faticavano come giganti, e i giorni passavano via fulminei, come un sogno, mentre accumulavano il loro tesoro.
I cani non avevano nulla da fare, se non riportare la selvaggina uccisa di tanto in tanto da Thornton, e Buck passava molte ore a fantasticare accanto al fuoco. Ora che non aveva molto da fare, la visione dell’uomo peloso dalle gambe corte gli si presentava più spesso; e spesso, con lo sguardo assorto nella fiamma, Buck vagava con lui in quell’altro mondo che ricordava.
L’elemento principale di quell’altro mondo sembrava la paura. Quando vedeva quell’uomo che dormiva accanto al fuoco, la testa tra le ginocchia e le mani strette sopra la testa, Buck si accorgeva che aveva un sonno inquieto, pieno di improvvisi sussulti, di frequenti risvegli; e quando si svegliava, scrutava paurosamente l’oscurità e aggiungeva legna al fuoco. Se l’uomo peloso camminava con lui sulla riva del mare, dove mangiava i molluschi che andava via via raccogliendo, i suoi occhi vagavano dappertutto alla ricerca di pericoli nascosti, e le gambe erano pronte a correre come il vento, appena questi fossero apparsi. Nella foresta si muovevano entrambi senza far rumore, l’uomo avanti e Buck alle sue calcagna; entrambi erano vigili, e attenti, con l’orecchio teso e le narici frementi, perché l’uomo aveva l’udito e l’odorato acuti come quelli di Buck. L’uomo peloso sapeva arrampicarsi sugli alberi e muoversi tra gli alberi veloce come sulla terra, passando, appeso per le braccia, da un ramo all’altro, qualche volta con voli di venti metri, lasciando un ramo e afferrandone un altro, senza cadere mai, senza mancare mai la presa. In realtà, sembrava a suo agio tra gli alberi come a terra; e Buck ricordava notti di veglia trascorse ai piedi di alberi su cui era appollaiato l’uomo, che dormiva tenendosi aggrappato con forza.
Strettamente affine alle visioni dell’uomo peloso era il richiamo che ancora risuonava nelle profondità della foresta. Gli dava grande agitazione e strani desideri. Lo riempiva di una vaga e dolce allegrezza, e Buck avvertiva impulsi e desideri selvaggi di qualcosa che non sapeva. A volte inseguiva il richiamo nel cuore della foresta, cercandolo come fosse una cosa tangibile, abbaiando piano o in tono di sfida, come gli dettava l’umore. Cacciava il muso nel muschio fresco del bosco, o nel terreno scuro in cui cresceva erba alta, e abbaiava con gioia a quei grassi profumi di terra; o si accucciava per ore, come in agguato, dietro tronchi di alberi caduti ricoperti di funghi, gli occhi spalancati, le orecchie tese a ogni suono e movimento attorno a lui. Forse, mentre rimaneva così immobile, sperava di sorprendere quel richiamo che non riusciva a comprendere. Ma non sapeva perché faceva tutte quelle cose. Era spinto a farle e non ci ragionava sopra.
Lo assalivano impulsi irresistibili. Se ne stava magari sdraiato all’accampamento, sonnecchiando pigramente nel calore del giorno, quando di colpo sollevava la testa e drizzava le orecchie, attento, in ascolto, e poi balzava in piedi e scattava via, sempre più lontano, per ore, nelle nevate della foresta e per le radure dove spuntavano i mazzi di carice. Gli piaceva correre nel letto dei torrenti in secca, e strisciare spiando la vita degli uccelli nei boschi. A volte trascorreva un’intera giornata nel sottobosco a osservare le pernici che andavano avanti e indietro tutte impettite. Ma soprattutto gli piaceva correre nella pallida luce crepuscolare della mezzanotte estiva, ascoltando il mormorio soffocato e sonnolento della foresta, interpretando suoni e segni come un uomo può leggere un libro, e cercando quel misterioso qualcosa che chiamava – chiamava nella veglia e nel sonno, e lo invitava a sé.
Una notte si svegliò di soprassalto, gli occhi subito attenti, le narici palpitanti a fiutare il vento, la folta criniera percorsa da lunghi fremiti, ricorrenti come onde. Dalla foresta veniva il richiamo (o una nota del richiamo, perché aveva molte note), chiaro e ben definito come mai prima – un lungo ululato, simile, e pure diverso, al grido dei cani eschimesi. E lo riconobbe, come era solito accadergli, come un suono già udito. Balzò attraverso l’accampamento addormentato e silenziosamente, velocemente, penetrò nel bosco. Via via che si avvicinava a quel grido rallentava l’andatura, cauto in ogni movimento, finché giunse a una radura tra gli alberi, e guardando vide, ben eretto sui fianchi, il muso puntato verso il cielo, un lupo dei boschi dal corpo lungo e snello.
Buck non aveva fatto alcun rumore, eppure il lupo cessò di ululare e cercò di localizzare la sua presenza. Buck si fece avanti deciso, come pronto al balzo, il corpo tutto raccolto nella sua compattezza, la coda dritta e rigida, muovendo le zampe con insolita circospezione. Ogni suo movimento esprimeva a un tempo esplicita minaccia e offerta di amicizia. Era la tregua carica di minaccia che contraddistingue l’incontro di due belve predatrici. Ma alla vista di Buck il lupo fuggì. E Buck si diede a inseguirlo, con balzi frenetici, tutto preso dalla smania di raggiungerlo. E lo raggiunse, costringendolo in una sorta di vicolo cieco, nel torrente in secca, in un punto sbarrato da una massa di tronchi caduti. Il lupo si girò di scatto, facendo perno sulle zampe posteriori, come Joe e tutti i cani eschimesi quando venivano messi con le spalle al muro, ringhiando e drizzando il pelo e sbattendo i denti con forza in un rapido, continuo susseguirsi di morsi a vuoto.
Buck non attaccò, ma girò intorno al lupo, rinnovando le offerte di amicizia. L’altro era intimorito e sospettoso: perché Buck pesava tre volte più di lui e lo sovrastava di tutta la testa e le spalle. Cogliendo il momento opportuno, schizzò via, e l’inseguimento ricominciò. Più e più volte si trovò con le spalle al muro, e si ripeté la stessa situazione, sebbene il lupo non fosse in forma, altrimenti Buck non lo avrebbe raggiunto così in fretta.
Ma l’ostinazione di Buck venne ricompensata; il lupo, vedendo che il suo inseguitore non intendeva fargli del male, strofinò infine il naso contro il naso di Buck. Allora diventarono amici, e giocarono insieme, in quel modo tra il timido e il nervoso con il quale le bestie feroci smentiscono la loro ferocia. Dopo qualche tempo, il lupo si allontanò a un passo tranquillo, con l’aria di chi ha una meta precisa. Fece capire chiaramente a Buck che doveva seguirlo, e corsero fianco a fianco nell’ombra cupa, su per il letto del torrente, nella gola da cui il torrente usciva, e poi fino alla nuda cresta di roccia da cui sgorgava la sua sorgente.
Sceso l’altro versante dello spartiacque, entrarono in una regione pianeggiante, con grandi distese boschive e molti corsi d’acqua, e corsero così fianco a fianco, per quei boschi, ora dopo ora, mentre il sole si levava più alto nel cielo e l’aria si faceva via via più tiepida. Buck si sentiva pervaso da una gioia selvaggia. Sapeva di rispondere infine al richiamo, correndo così al fianco del fratello selvaggio, verso il luogo da cui certo veniva il richiamo. Rapide, gli nascevano dentro antiche memorie, al cui richiamo fremeva, come fremeva nei tempi antichi alle realtà di cui le memorie erano l’ombra. Aveva già fatto quello che ora faceva, in quell’altro mondo che ricordava confusamente, e ora lo faceva di nuovo, correndo liberamente all’aperto, la terra intatta sotto le zampe, il vasto cielo sopra di lui.
Si fermarono a bere in un corso d’acqua, e, nel fermarsi, Buck ricordò John Thornton. Si accucciò. Il lupo si avviò verso il luogo da cui certo veniva il richiamo, poi tornò verso di lui, strofinando il naso contro il suo, incoraggiandolo con le sue azioni a seguirlo. Ma Buck si voltò e prese lentamente la via del ritorno. Per quasi un’ora il fratello selvaggio gli corse accanto, uggiolando piano. Poi si accucciò, puntò il muso al cielo, e ululò. Fu un ululato funereo, e, mentre proseguiva senza incertezze per la sua strada, Buck lo sentì farsi sempre più debole finché si spense lontano.
John Thornton stava cenando, quando Buck piombò sull’accampamento e gli saltò addosso in una frenesia di affetto, lo rovesciò a terra, gli fu sopra, a leccargli il viso, a mordergli le mani, «a fare il pagliaccio», come disse John Thornton mentre lo scrollava avanti e indietro sussurrandogli insulti pieni di amore.
Per due giorni e due notti, Buck non si allontanò dall’accampamento, non si staccò mai da John Thornton. Lo seguiva nel lavoro, gli stava vicino mentre mangiava, era con lui la sera quando si coricava e la mattina quando si svegliava. Ma dopo due giorni il richiamo tornò a risuonare più imperioso che mai. Buck era di nuovo in preda all’inquietudine, ossessionato dal ricordo del fratello selvaggio e della terra ridente oltre lo spartiacque e delle corse fianco a fianco nelle grandi distese boschive. Riprese i suoi vagabondaggi nella foresta, ma il fratello selvaggio non venne più; e per quanto tendesse l’orecchio nelle lunghe veglie, mai sentì levarsi quel lugubre ululato.
Buck cominciò a dormire fuori dall’accampamento la notte, lasciandolo anche per giorni e giorni consecutivi; una volta risalì il torrente, valicò lo spartiacque e tornò nella regione ricca di boschi e di corsi d’acqua. Ci rimase un’intera settimana, cercando invano tracce fresche del fratello selvaggio, uccidendo per il cibo e correndo con quella falcata lunga e agile che sembra non stancarsi mai. Pescò il salmone in un fiume che sfociava nel mare, e presso lo stesso fiume uccise un grande orso bruno, accecato dalle zanzare mentre anch’egli pescava, che vagava infuriato per la foresta, impotente e terribile. Ma anche con l’orso in quelle condizioni, fu una battaglia dura, che risvegliò in Buck gli ultimi resti di ferocia latente. Due giorni dopo, tornando nello stesso posto e trovandovi una dozzina di ghiottoni che si disputavano la carcassa dell’orso, li disperse come pagliuzze; e quelli che fuggirono se ne lasciarono alle spalle due che non avrebbero mai più attaccato briga.
La sete di sangue divenne in lui più ardente che mai. Era un assassino, un predatore che viveva di esseri viventi, solo, senza aiuto, grazie soltanto alla sua forza e alla sua abilità, in grado di sopravvivere trionfalmente in un ambiente ostile in cui solo i forti sopravvivevano. Si sentì invadere da una grande fierezza di sé, che si comunicò al suo aspetto. Quella fierezza traspariva da ogni suo movimento, era visibile nel gioco dei muscoli, si esprimeva con la chiarezza della parola nel modo di incedere e nel portamento, e rendeva ancora più splendido il suo splendido mantello. Se non fosse stato per le macchie brune sul muso e sopra gli occhi e per il collare bianco sul petto, lo si sarebbe potuto scambiare per un gigantesco lupo, più grande dell’esemplare più grande della razza. Dal padre, un San Bernardo, aveva ereditato le dimensioni e il peso, ma la forma di quelle dimensioni e di quel peso gli veniva dalla madre, di razza pastore scozzese. Il muso era il muso lungo del lupo, ma più grande del muso di qualsiasi lupo; e la testa, più ampia, era la testa del lupo su scala gigantesca.
La sua era l’astuzia del lupo, un’astuzia da animale selvaggio; l’intelligenza era l’intelligenza del pastore scozzese e del San Bernardo; tutto questo, unito all’esperienza vissuta nella più dura delle scuole, faceva di lui un animale temibile quanto qualsiasi animale selvaggio della foresta. Carnivoro che viveva in quel momento soltanto di carne, era nel pieno delle forze, nell’età più splendida della sua vita, traboccante di vigore e virilità. Quando Thornton gli passava una mano sul dorso per una lunga carezza, sotto la sua mano si sprigionava un leggero crepitio perché ogni pelo, a quel contatto, scaricava l’elettricità che vi si era accumulata. Cervello e corpo, nervi e muscoli, ogni parte del corpo in lui era all’apice della forza; e tra ogni parte del suo corpo regnava un perfetto equilibrio o adattamento. A immagini e suoni e avvenimenti che richiedevano una pronta azione, rispondeva con la velocità del lampo. Era due volte più veloce di un cane eschimese, quando si trattava di balzare per difendersi o per attaccare. Vedeva il movimento, o sentiva il rumore, e reagiva in minor tempo di quello necessario agli altri cani soltanto per vedere e sentire. Percepiva, decideva, agiva nello stesso istante. In realtà le tre azioni del percepire, decidere e agire si susseguivano; ma a intervalli di tempo così infinitesimali, da parere simultanee. I suoi muscoli, carichi di energia vitale, scattavano come molle d’acciaio. La vita fluiva in lui con un fiotto splendido, felice, esuberante, così che sembrava dovesse farlo scoppiare per la felicità, riversandosi generosamente sul mondo.
«Mai visto un cane simile» disse un giorno John Thornton, mentre i suoi compagni guardavano Buck che usciva dall’accampamento.
«Dopo averlo fatto hanno rotto lo stampo» aggiunse Pete.
«Perpacco, è proprio fero!» fu il commento di Hans.
Lo videro lasciare l’accampamento, ma non videro l’immediata e terribile trasformazione che avveniva in lui appena giungeva nel segreto della foresta. Non camminava più. Diventava di colpo una creatura dei boschi, scivolava furtivo e agile, ombra fuggente che appariva e scompariva tra le ombre. Sapeva trarre vantaggio da ogni riparo, sapeva strisciare sul ventre come una serpe, e come una serpe scattava e colpiva. Ghermiva una pernice nel suo nido, uccideva un coniglio addormentato, afferrava a mezz’aria il piccolo cipmunk che cercava troppo tardi scampo su un albero. I pesci degli stagni non guizzavano troppo veloci per lui, né si dimostravano abbastanza guardinghi i castori quando uscivano a riparare le loro dighe. Uccideva per mangiare, mai per il gusto di uccidere; ma preferiva mangiare quello che lui stesso aveva ucciso. Uno strano umorismo si annidava nelle sue azioni, e si divertiva a cogliere di sorpresa gli scoiattoli, e quando li aveva quasi afferrati, a lasciarli liberi di correre, squittendo di terrore, fino alla cima de...

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London, J., & Dei, F. (2010). Il richiamo della foresta (Mondadori) ([edition unavailable]). Mondadori. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3299860 (Original work published 2010)

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London, Jack, and Fedora Dei. (2010) 2010. Il Richiamo Della Foresta (Mondadori). [Edition unavailable]. Mondadori. https://www.perlego.com/book/3299860.

Harvard Citation

London, J. and Dei, F. (2010) Il richiamo della foresta (Mondadori). [edition unavailable]. Mondadori. Available at: https://www.perlego.com/book/3299860 (Accessed: 14 June 2024).

MLA 7 Citation

London, Jack, and Fedora Dei. Il Richiamo Della Foresta (Mondadori). [edition unavailable]. Mondadori, 2010. Web. 14 June 2024.