Il quarto giorno dall’attacco dei predoni, Makrat si stagliò davanti a loro, tentacolare e caotica. Avevano dovuto rallentare l’andatura perché, nonostante le cure, Learco era ancora debole e si stancava facilmente. Per questo erano avanzati di poco ogni giorno, facendo lunghe soste per i pasti e fermandosi durante la notte. Dubhe aveva fatto tutti i turni di guardia, nonostante il principe si fosse opposto in piú di un’occasione. Lei però aveva insistito: da quando si erano parlati l’ultima volta, faceva comunque fatica a prendere sonno, e poi lui doveva recuperare le forze.
Non si era mai sentita cosí confusa in vita sua. Da un lato avvertiva nascere in sé il miraggio di una nuova tranquillità, una pace che non era piú soltanto una speranza irrealizzabile, ma qualcosa di tangibile. Dall’altro era assolutamente insicura, e si detestava per il modo assurdo con cui aveva ceduto quella sera, mettendosi a piangere come una donnetta qualunque.
Era combattuta tra odio e ammirazione, e quando la notte il silenzio era assoluto, i suoi ricordi venivano a farle visita tormentandola. Al centro di quel turbine c’era Learco. La perfezione del suo fisico slanciato e dinoccolato l’attraeva sempre piú, mentre la malinconia del suo volto, assieme alla consapevolezza di saperlo cosí complice dei suoi stessi sentimenti, la respingevano facendola stare male. Per lei il principe era un intruso che si era appropriato dei suoi segreti rubandoglieli in un attimo di debolezza.
Per questo, quando iniziarono a muoversi nei bassifondi di Makrat, Dubhe tirò un sospiro di sollievo. Era finita. Ora poteva concentrarsi sulla missione e liberarsi di quell’ossessione dolce e amara allo stesso tempo.
Si mossero in incognito, nascondendo la loro vera identità. Learco si coprí il volto col cappuccio del mantello.
Dubhe avvertiva la sensazione di essere a casa. Era quello il suo ambiente, il luogo corrotto e putrefatto da cui proveniva e a cui apparteneva.
Selva era il passato, il posto dove ancora giacevano le spoglie di se stessa bambina; ma Makrat, e soprattutto i quartieri pericolosi, erano la melma in cui si era mossa dopo la morte di Gornar. Lí tutto le parlava della sua vecchia vita da ladra, e del Maestro. Era strano, ma il suo ricordo le appariva ormai meno vivido. L’aveva amato, era stato tutto per lei, ma ora apparteneva a un’altra epoca. La cosa le faceva uno strano effetto. Si sentiva quasi in colpa per aver permesso a quell’ombra di abbandonarla per sempre. Chi altri ricordava Sarnek al mondo, se non lei?
Theana si stringeva al suo fianco, inquieta.
«Non sei mai stata qui?» le chiese Dubhe.
Lei scosse la testa. «Conosco il palazzo reale, ma non la città.»
Già. Dubhe immaginava come Makrat potesse spaventarla, con le sue case ammassate le une sulle altre e i vicoli maleodoranti. Per quanto avessero condiviso molto nelle settimane in cui si erano mosse assieme, le differenze tra loro non si potevano dimenticare.
Giunti a palazzo, Learco si tolse finalmente il cappuccio dalla testa. Le guardie si inchinarono subito al suo cospetto, ma gli indirizzarono sguardi obliqui e indagatori.
«C’è mio padre?»
«Vi attende nella sala del trono, Altezza.»
Lui si volse verso Dubhe e Theana. «Seguitemi.»
Si inoltrarono per i corridoi della dimora reale. Dubhe conosceva il palazzo perché ne aveva sentito parlare, ma non aveva mai avuto occasione di visitarlo. Del resto, compiere omicidi o furti in quel luogo era sconsigliabile.
La prima cosa che la colpí fu la maestosità delle sale. Già dall’esterno il palazzo mostrava tutta la propria magnificenza: pinnacoli, cupole, ori e bassorilievi ovunque, in un tripudio di decorazioni che davano quasi un senso di soffocamento. Ma l’interno era ancora piú spettacolare, in un susseguirsi di grandi saloni decorati da marmi bianchi, volte a botte traforate, grossi tripodi agli angoli dei muri che irradiavano di luce calda ogni ambiente, riempiendo l’aria di odori speziati.
Dubhe camminava curva, guardandosi attorno con stupore e imbarazzo. Theana, invece, procedeva a passo spedito e con lo sguardo fisso davanti a sé. La sua familiarità con i luoghi di potere era evidente, solo il lieve tremito della mano tradiva il suo nervosismo. Dubhe pensò che forse era spaventata all’idea di conoscere Dohor, un uomo che tutti dicevano terribile, la nemesi del Consiglio delle Acque.
A un certo punto si trovarono di fronte a un’ampia porta di bronzo, decorata da complicate miniature. Davanti c’erano due soldati armati di lance, che non appena videro il principe si produssero in un profondo inchino.
«Chiedo udienza presso mio padre.»
«Il re è già stato avvisato del vostro arrivo» disse una delle guardie, tirandosi su. «Le due donne devono attendere fuori.»
«Chiedo che entrino anche loro. Devo discutere con il re a loro riguardo.»
La guardia parve confusa. «Mio signore, i plebei non possono essere ammessi alla presenza di Sua Maestà, voi sapete quali sono i suoi ordini.»
«Mi prendo la completa responsabilità della mia richiesta.»
Il soldato guardò Learco, indeciso sul da farsi; poi, aiutato dal compagno, aprí le pesanti ante di bronzo.
Davanti ai loro occhi si aprí una sala immensa, decorata quasi completamente da mosaici dorati. Al centro pendeva un enorme lampadario d’oro e gemme preziose, che incombeva minaccioso sulla testa di chi si apprestava a mostrarsi al re. Lo spazio della sala era diviso in tre navate da grosse colonne di granito nero, lucidissime, e quelle laterali erano decorate da nicchie che ospitavano ciascuna una statua. Learco, Dubhe e Theana sfilarono sotto gli sguardi severi di quei volti di pietra. In fondo c’era il trono, straordinaria opera di oreficeria con pietre preziose incastonate ovunque. Era rialzato rispetto alla sala, e le sue dimensioni erano state pensate per dare l’idea di quanto fosse potente Sua Maestà.
Man mano che si avvicinavano lo spazio scandito dal rumore ritmico dei loro passi la figura del re diventava piú nitida. Era incredibile quanto Dohor assomigliasse al figlio: stessi capelli chiarissimi, quasi bianchi, ma lineamenti meno delicati. Sembrava un Learco incattivito, che aveva scacciato dal proprio animo ogni forma di gentilezza per lasciare posto solo al pragmatismo della politica e alla crudeltà di un re guerriero. Indossava un’armatura sobria, e al fianco cingeva la spada. Attese impassibile il figlio, posando su di lui uno sguardo severo. Alle due ragazze non concesse invece la minima considerazione.
Giunto a una decina di passi dal trono, Learco si inginocchiò, chinando il capo. Le sue ferite non si erano ancora del tutto rimarginate, per questo si mosse con cautela, sopportando in silenzio le fitte di dolore che gli mordevano il fianco.
«Padre?»
«Ci hai messo molto» disse subito Dohor.
La schiena di Learco ebbe un sussulto.
«Ma meglio tardi che mai» aggiunse il re, continuando a guardarlo con sufficienza.
Il principe non reagí; rimase immobile con lo sguardo a terra, e cosí anche Dubhe e Theana.
«Vedo che ti sei imbattuto in qualche contrattempo.»
«Dei predoni ci hanno attaccati. Erano in cinque, e ho avuto qualche difficoltà a batterli. Nella lotta sono stato ferito, ma per fortuna le due schiave che conduco con me sono esperte nelle arti del sacerdozio e mi hanno curato.»
Il re si alzò, sul volto una smorfia sarcastica. «Non soltanto ti fai battere dai vecchi, ora anche da ladri qualunque!»
Si avvicinò lento al figlio, dominandolo con la propria figura imponente. Lo fissò per qualche istante, quindi lo colpí forte con un calcio al fianco. La sua rabbia era cieca, atavica. Istintivamente Learco si portò una mano alla ferita, soffocando a malapena un grido di dolore.
Dubhe e Theana rimasero gelate al proprio posto, incredule.
«Sei un debole?» sibilò il re.
«Perdonatemi, padre» disse Learco con un filo di voce.
«Tu sai chiedere solo questo, perdono. Perdono per non avermi portato la testa di Ido, perdono per non sapertela cavare con semplici vagabondi di strada, perdono per esserti fatto salvare da due popolane qualsiasi!» gridò Dohor.
Dubhe digrignò i denti.
«Perdonatemi, padre, non accadrà piú?»
Il re si sedette di nuovo sullo scranno, sprofondando nei propri pensieri. «Perché ti tiri dietro quelle due donne?»
Solo allora Learco alzò la testa. «Le ho salvate in un villaggio poco lontano dal confine. I nostri nemici hanno distrutto le loro case, non hanno di che vivere. Le ho portate qui perché diventino serve.»
Dohor scosse la testa. «Che magnanimo il nostro principe? Perché la sorte non ha voluto darmi un figlio all’altezza del suo compito? Io con te perdo solo il mio tempo. Non sarai mai in grado di essere il mio degno successore. Ti pieghi come un giunco e sei privo di qualsiasi severità.» Sospirò profondamente, guardando fuori dall’ampia vetrata che si apriva alla sua sinistra. «Tuo fratello sí che sarebbe stato capace, se fosse sopravvissuto.»
La sua voce si incrinò appena, e Learco strinse il pugno appoggiato al pavimento.
«Portale da Volco, e fa’ che non debba trovarmele davanti mai piú» concluse infine. «Che le metta in cucina o da qualche altra parte, ma se le vedo, non garantisco per la loro incolumità, sono stato chiaro?»
«Sí, mio signore.»
Dohor fece un gesto di fastidio con la mano. «Ora vattene, ritirati nelle tue stanze. Noi due parleremo all’ora di cena.»
Learco si tirò su e ritornò sui propri passi, verso l’uscita, zoppicando leggermente.
Theana lo seguí, mentre Dubhe rimase in ginocchio un istante ancora. Si sentiva sopraffatta da una collera nera, intollerabile. Ce l’aveva fatta, finalmente. Era al cospetto dell’uomo che doveva uccidere. Non lo aveva mai incontrato, ma lo odiava da quando era entrata nella Gilda. E per la prima volta sperimentò una fame di morte che sgorgava genuina dal suo cuore. Non era la Bestia che voleva quel sangue: era lei, lei e basta. Si alzò lentamente, gli occhi fissi sul trono, con uno sguardo carico di minaccia. Per una frazione di secondo, sul volto del sovrano comparve un’ombra, come se avvertisse qualcosa. Ma durò solo un attimo, poi volse la testa altrove e Dubhe si avviò verso l’uscita a capo chino.
Volco era un vecchio dall’aria gentile. Abbracciò Learco con affetto e lo guardò a lungo negli occhi. «Fatevi vedere dai guaritori al piú presto, mio principe» disse accorato.
«Non temere, lo farò.»
«Perché vi prendete cosí poca cura di voi stesso?»
Learco gli sorrise, poi cambiò argomento, spiegando per sommi capi chi fossero le due ragazze e affidandole a lui.
«Non temete, troverò un buon posto per le vostre due protette» disse il vecchio accarezzandogli paternamente una guancia.
Learco parve quasi imbarazzato, ma in qualche modo anche contento. «Vi lascio in buone mani» disse a Dubhe e a Theana. «Di certo avremo modo di rivederci, in futuro.»
Quindi abbassò lievemente il capo in segno di saluto e prese la porta. Le due ragazze rimasero sole con Volco.
«Seguitemi» disse lui.
Ubbidirono, mettendosi dietro quel vecchio dall’andatura incerta. Era magro e debole, e ispirava fiducia. Dubhe pensò che sarebbe stato bene riuscire a conquistarsi la sua simpatia. Si...