Dopo l’ufficio andai in banca a ritirare lo stipendio. Lo sportello era molto affollato, e dovetti aspettare mezz’ora. Porsi il mio assegno e vidi il cassiere che lo passava alla ragazza con la camicetta gialla. La ragazza andò a cercare nella pila degli incartamenti, ne estrasse il mio conto, restituì l’assegno al cassiere, disse «va bene», e le mani pulite del cassiere contarono le banconote sulla lastra di marmo. Io le ricontai, mi spinsi fuori della fila e andai al tavolino accanto alla porta, per mettere il danaro in una busta e scrivere un biglietto a mia moglie. Sul tavolo erano sparpagliati moduli di pagamento rossastri, ne presi uno e scrissi a matita sul retro: «Domani debbo vederti, ti telefonerò prima delle due». Infilai il biglietto nella busta, vi cacciai dentro le banconote, leccai la striscia gommata lungo il lembo pieghevole, esitai, tirai ancora fuori il danaro e tolsi dal mazzo un biglietto da dieci marchi, che m’infilai nella tasca del cappotto. Tirai fuori di nuovo anche il biglietto e vi aggiunsi: «Mi sono preso 10 marchi. Domani te li restituisco. Un bacio ai bambini. Fred».
Ma ormai la colla non attaccava più, e andai allo sportello vuoto dov’era scritto «Versamenti». La ragazza dietro il vetro si alzò, sollevò lo sportello. Era scura di pelle e magra, e indossava un pullover rosa che si era chiusa al collo con una rosa finta. Le dissi: «Per favore, datemi un pezzo di carta gommata». Mi guardò un attimo esitante, ne strappò poi un pezzo da un rotolo marrone, me lo porse senza dire una parola e riabbassò lo sportello. Dissi «Grazie» alla lastra di vetro, tornai al tavolo, sigillai la busta, mi misi il berretto e uscii dalla banca.
Fuori pioveva, e nel viale alcune foglie isolate cadevano ondeggiando sull’asfalto. Mi fermai al portone d’ingresso, aspettai finché all’angolo della strada vidi spuntare il 12, vi saltai sopra e andai fino al Tuckhoffplatz. Il tram era pieno di gente, e i loro abiti esalavano odor di bagnato. La pioggia era aumentata ancora, quando al Tuckhoffplatz saltai giù senza aver pagato. Andai a ripararmi di corsa sotto il tendone di un chiosco che fungeva da tavola calda, mi feci strada fino al banco, ordinai una salsiccia arrostita e una tazza di brodo, mi feci dare dieci sigarette e cambiai il biglietto da dieci marchi. Mentre addentavo la salsiccia, guardai nello specchio che occupava tutta la parete di fondo del chiosco. A tutta prima non mi riconobbi: vidi quel volto magro e livido sotto il basco sbiadito e a un tratto scoprii di assomigliare a quei venditori ambulanti che mia madre non mandava mai via quando venivano a suonare alla sua porta. La funerea desolazione dei loro volti appariva alla luce crepuscolare della nostra anticamera quando, da ragazzino, andavo qualche volta ad aprire la porta. Quando poi veniva mia madre, che avevo chiamata timorosamente, sorvegliando con gli occhi il nostro attaccapanni, appena mia madre giungeva dalla cucina, asciugandosi le mani nel grembiule, una luce strana e inquietante si spandeva sui visi di quegli esseri sconsolati, che offrivano in vendita sapone in polvere o cera per pavimenti, lamette da barba o stringhe da scarpe. L’espressione di felicità che il solo apparire di mia madre accendeva in quelle livide facce aveva qualcosa di terrificante. Mia madre era una donna di cuore. Non riusciva a scacciare nessuno dalla sua porta; ai mendicanti dava un po’ di pane, se ne avevamo, danaro, se ne avevamo, offriva loro almeno una tazza di caffè, e se in casa non c’era proprio più niente dava loro un po’ d’acqua fresca e il conforto dei suoi occhi. Tutt’intorno al nostro campanello s’erano moltiplicate le tacche dei mendicanti, i segni dei vagabondi, e chi veniva a offrirci la sua merce aveva buone probabilità di rifilarci qualcosa, per poco che in casa ci fosse, anche una sola moneta bastante a pagare un paio di legacci. Anche coi rappresentanti mia madre ignorava ogni prudenza, nemmeno ai volti di questi irrequieti esponenti del mondo d’oggi essa sapeva resistere, e firmava contratti di compera, polizze d’assicurazione, note di ordinazione, e ricordo che quando da bambino, la sera, ero già a letto, sentivo mio padre che tornava a casa, ed era appena entrato in sala da pranzo, che già scoppiava la lite, una lite spettrale in cui mia madre non diceva quasi una parola. Era una donna silenziosa. Uno degli uomini che si presentavano al nostro uscio portava un berretto basco sbiadito, come quello che porto io adesso, si chiamava Disch, era un prete spretato, come venni a sapere più tardi, e vendeva sapone in polvere.
Ora, mentre mangiavo la salsiccia, il cui calore scottava dolorosamente le mie gengive indolenzite, mi accorsi, guardandomi in quello specchio piatto là in fondo, che cominciavo ad assomigliare a quel tal Disch: il berretto, la faccia livida e scarna, e l’espressione sconsolata dello sguardo. Ma accanto al mio volto vidi, nello specchio, il volto dei miei vicini: bocche spalancate per addentar salsicce, palati scuri e profondi dietro i denti gialli, in cui cadevano rosei bocconi di carne, cappelli nuovi e cappelli malandati, e le capigliature bagnate di gente a testa nuda, tra i quali il viso colorito della rivenditrice passava e ripassava di continuo. Sorridendo allegramente essa pescava le salsicce bollenti, con una pinza di legno, in mezzo al grasso galleggiante, schizzava un po’ di senape in un piattino di cartone, andava su e giù tra quelle bocche masticanti, raccoglieva i piattini sporchi, macchiettati di senape, distribuiva sigarette e limonate, ritirava i soldi con le dita rosee un po’ troppo corte, mentre la pioggia tambureggiava sul tetto del chiosco.
Anche sul mio viso, quando addentavo la salsiccia, la mia bocca si apriva e dietro i denti giallastri appariva la buia cavità delle fauci, scorgevo quell’espressione di mite ingordigia che mi atterriva negli altri. Le nostre teste erano in fila come in un teatro di burattini, avvolte nel caldo vapore che esalava dalle caldaie. Uscii spaventato di tra la calca, e imboccai sotto la pioggia la Mozartstrasse. Sotto le tende calate dei negozi s’era raccolta la gente in attesa che spiovesse, e quando raggiunsi la bottega di Wagner dovetti di nuovo farmi largo sino alla porta, la aprii con difficoltà verso l’esterno e mi sentii sollevato quando finalmente scesi gli scalini e mi venne incontro l’odore del cuoio. Odorava del vecchio sudore di vecchie scarpe, di cuoio fresco, di pece, e udii ronzare l’antiquata cucitrice a pedale.
Passai accanto a due donne che aspettavano sedute su una panca, aprii la porta a vetri e mi rallegrai di vedere che, al mio entrare, il volto di Wagner si era aperto a un sorriso. Lo conosco da trentacinque anni. Abitavamo in quello spazio d’aria che adesso c’è sopra la sua bottega, lassù, in qualche parte dell’atmosfera che si stende sopra il tetto di cemento della sua officina, e non avevo più di cinque anni quando già gli portavo le pantofole di mia madre. Ora il crocifisso è ancora appeso al muro, dietro il suo sgabello, e accanto c’è l’immagine di un san Crispino, un mite vegliardo dalla barba grigia, che nelle mani – troppo curate per un ciabattino – tiene un treppiede di ferro.
Diedi la mano a Wagner, e lui, che aveva la bocca piena di chiodi, mi accennò muto l’altro sgabello. Sedetti, trassi di tasca la busta dello stipendio, e Wagner spinse verso di me, sul tavolo, la borsa di tabacco e un po’ di cartine per sigarette. Ma la mia sigaretta era ancora accesa, dissi: «Tante grazie», gli porsi la busta e soggiunsi: «Se non vi dispiace...».
Lui si tolse i chiodi di bocca, si passò un dito sulle ruvide labbra, per accertarsi che non ve ne fosse rimasto attaccato qualcuno, e mormorò: «Un’altra commissione per vostra moglie... be’, be’...».
Mi tolse di mano la busta, scosse il capo e riprese: «Sarà fatto, ci mando mio nipote appena torna da confessarsi. Tra...» diede un’occhiata all’orologio «tra mezz’ora».
«Le occorre oggi stesso, c’è dentro del danaro» avvertii. «Lo so» disse lui. Gli strinsi la mano e me ne andai. Mentre salivo i gradini mi venne in mente che avrei potuto chiedergli soldi in prestito. Esitai un momento, quindi salii l’ultimo scalino e mi feci largo tra la gente per uscire.
Pioveva ancor sempre quando, cinque minuti più tardi, scesi dall’autobus all’angolo della Benekamstrasse. Passai tra i tetti a punta di alte case gotiche, puntellate per conservarle come monumenti storici. Attraverso le vuote, semicarbonizzate aperture delle finestre vidi il cielo grigioscuro. Una sola di queste case è abitata: saltai sotto il tetto a spiovente, suonai il campanello e attesi.
Nei miti occhi castani della cameriera lessi quella stessa pietà che provavo io un tempo per quei tipi cui ora, evidentemente, comincio ad assomigliare. Essa mi prese il pastrano e il cappello, li scosse davanti alla porta e disse: «Mio Dio, dovete essere fradicio fino alle ossa». Annuii col capo, andai davanti allo specchio e mi passai le mani tra i capelli.
«È in casa la signora Beisem?» domandai.
«No.»
«Si sarà ricordata che domani è il primo del mese?»
«No» rispose la ragazza. Mi fece entrare nella stanza di soggiorno, spinse il tavolo accanto alla stufa, portò una sedia, ma io rimasi in piedi, la schiena appoggiata alla stufa, e guardai l’orologio che da centocinquant’anni segna il tempo alla famiglia Beisem. La camera è stipata di vecchi mobili, e le finestre hanno autentiche vetrate gotiche.
La servetta mi portò una tazza di caffè e si trascinò dietro per una bretella il giovane Beisem, Alfons, cui mi sono impegnato d’insegnare le regole delle frazioni. Il ragazzo è sano, rubicondo e gioca volentieri nel suo grande giardino con le castagne: le raccoglie con passione, le va a prendere anche nei giardini delle case attigue, dove non abita ancora nessuno, e quando la finestra era aperta vedevo, nelle settimane scorse, lunghe filze di castagne appese fuori, tra gli alberi.
Presi la tazza con entrambe le mani, sorseggiai il caffè caldo e, parlando lentamente, versai in quella faccia piena di salute le regole del calcolo frazionario, sapendo che non serviva a nulla. Il bambino è buono ma stupido, stupido come i suoi genitori e gli altri loro figli. Non c’è che una persona intelligente in tutta la casa, ed è la cameriera.
Il signor Beisem commercia in pellami e in scorie di metallo, è una simpatica persona, e qualche volta, quando lo incontro, e lui si trattiene qualche minuto a parlare con me, ho l’assurda impressione che m’invidi per il lavoro che faccio. Mi par di capire che per tutta la vita abbia sofferto del fatto che ci si aspettava da lui quel che era al disopra delle sue capacità, ossia la direzione di una grande azienda, cosa che richiede sia grinta che intelligenza. A lui mancano l’una e l’altra, e quando ci incontriamo s’informa con un tal fervore di ogni particolarità della mia professione, che comincio a sospettare che gli piacerebbe starsene chiuso per tutta la vita in un piccolo centralino telefonico più di quanto non piaccia a me. Vuole che gli spieghi come faccio funzionare il commutatore, come stabilisco le comunicazioni interurbane, m’interroga sul nostro gergo professionale, e l’idea che posso ascoltare tutte le conversazioni gli procura una gioia infantile. «Interessante,» non fa che ripetere «com’è interessante.»
Le lancette dell’orologio avanzavano lentamente. Mi feci ripetere le regole, dettai qualche problema e aspettai fumando che fosse risolto. Fuori c’era un gran silenzio. Qui al centro della città regna un silenzio come in un minuscolo villaggio della steppa, quando le greggi se ne sono andate e non sono rimaste che poche vecchiette malate.
Per dividere una frazione per un’altra si moltiplica la prima per l’inverso della seconda.
Gli occhi del bambino si fermarono improvvisamente sul mio volto, ed egli disse: «Clemens ha preso due in latino».
Non so se abbia notato che trasalii. La sua osservazione evocò d’un tratto la faccia di mio figlio, me la gettò addosso, la faccia pallida di un ragazzo tredicenne, e mi ricordai che Alfons è suo vicino di banco.
«Bene» dissi con sforzo. «E tu?»
«Quattro» disse lui, e il suo sguardo vagò incerto lungo il mio volto, come in cerca di qualcosa, e io sentii di arrossire, pur restando intimamente indifferente, poiché di colpo mi venivano incontro i visi di mia moglie, dei miei figli, giganteschi, quasi proiettati dentro il mio volto, e dovetti coprirmi gli occhi, mentre mormoravo: «Vai avanti: come si moltiplica una frazione per un’altra?». Lui ripeté la regola a bassa voce, guardandomi in faccia, ma io non lo ascoltavo: vedevo i miei bambini aggiogati a quella giostra mortale che comincia con una cartella piena di libri scolastici e finisce da qualche parte su una seggiola d’ufficio. Mia madre, la mattina, mi vedeva andar via con la cartella sulle spalle... e Käte, mia moglie, vede i nostri figli andar via la mattina con la cartella sulle spalle.
Versai le regole del calcolo frazionario in quel viso di bambino, e da quel viso di bambino me le vidi in parte restituire, e l’ora passò, sia pure lentamente, e finii per aver guadagnato due marchi e cinquanta. Dettai al ragazzo i compiti per la prossima lezione, bevvi l’ultimo sorso di caffè e uscii in anticamera. La domestica aveva messo ad asciugare in cucina il cappotto e il berretto, e mi sorrise mentre mi aiutava a infilare il cappotto. Quando fui in strada ricordai il viso rozzo e bonario della ragazza e mi venne in mente che avrei potuto chiederle soldi in prestito. Esitai un momento solo, mi rialzai il bavero, dato che pioveva ancora, e corsi alla fermata dell’autobus che si trova presso la chiesa dei Sette Dolori di Maria.
Dieci minuti dopo, in un quartiere della parte meridionale della città, sedevo in una cucina odorante di aceto, e una ragazza pallida dai grandi occhi quasi gialli mi recitava una filza di vocaboli latini. A un certo momento si aprì la porta della camera accanto e nello spiraglio si affacciò un magro viso di donna dai grandi occhi quasi gialli, e disse: «Datti da fare, piccola, sai bene che sacrifici debbo fare per mandarti a scuola... e le lezioni private costano care».
La piccola si diede da fare, io mi diedi da fare, e per tutta la durata della lezione ci bisbigliammo parole latine, frasi e regole di sintassi, e io sapevo bene che non serviva a nulla. Alle tre e dieci in punto la donnetta magra venne dalla camera accanto, portandosi dietro un forte odor d’aceto, accarezzò i capelli alla bambina, mi guardò in faccia e chiese: «Credete che ce la farà? All’ultimo compito in classe ha preso tre. Lunedì ne fanno un altro».
Mi abbottonai il cappotto, tirai fuori di tasca il berretto bagnato e risposi piano: «Credo che ce la farà». Posai la mano sui capelli biondopachi della bambina. La donna disse: «Deve farcela assolutamente, non ho che lei, mio marito è caduto a Winiza». Mi vidi dinanzi per un attimo la sudicia stazione ferroviaria di Winiza, piena di trattori arrugginiti, guardai la donna, e lei si fece improvvisamente animo e disse ciò che voleva già dirmi da un pezzo: «Per il pagamento, potreste aspettare fino...» e io dissi di sì, prima ancora che avesse finito la frase.
La ragazzina mi sorrise.
Quando tornai all’aperto, aveva smesso di piovere, c’era il sole, e alcune grandi foglie gialle, ondeggiando lentamente, cadevano dagli alberi sull’asfalto bagnato. Meglio di tutto sarebbe stato andarmene a casa, dai Block, presso i quali abito già da un mese, ma non so come, mi sento continuamente spinto a far cose, a durar fatiche che so benissimo non approderanno a nulla. Avrei potuto chiedere un prestito all’amico Wagner oppure alla cameriera dei Bei...