L'ombra di Mao
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L'ombra di Mao

Sulle tracce del Grande Timoniere per capire il presente di Cina, Tibet, Corea del Nord e il futuro del mondo

  1. 344 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'ombra di Mao

Sulle tracce del Grande Timoniere per capire il presente di Cina, Tibet, Corea del Nord e il futuro del mondo

Informazioni su questo libro

Per noi occidentali la Cina di oggi è un enigma. Per svelarlo c'è una sola strada: fare i conti con il padre della Cina contemporanea, capire chi fu davvero Mao Zedong. Federico Rampini ci accompagna in queste pagine in un nuovo viaggio attraverso il secolo cinese, sulle tracce di Mao: un viaggio nella storia, nel mito e nel presente, all'ombra di un uomo che si è reso responsabile della morte di 70 milioni di persone ma che, già nella scelta del suo successore Deng Xiaoping, ha consentito al proprio paese di imboccare la strada delle grandi riforme economiche. Un uomo il cui fascino ha accecato una generazione di intellettuali europei e ha ispirato alcuni mostruosi epigoni, ma a cui va il merito di aver restituito dignità a uno Stato piagato da un degrado e da una corruzione devastanti. Rampini incontra i testimoni di alcuni degli eventi più tragici e per noi oscuri della storia del secolo scorso, convinto che per far luce oggi sul mistero della superpotenza cinese sia indispensabile seguire i segni e le cicatrici lasciate sul corpo di questo sterminato paese da un uomo le cui mani sono sporche di sangue ma il cui culto non sembra destinato a sparire.

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XX

Corea del Nord: il Jurassic Park comunista

«Sapevi che i tuoi compagni erano affamati, li vedevi diventare ogni giorno un po’ più deboli. Poi non venivano più al lavoro. Alla fine qualcuno si preoccupava, andava a casa loro e li trovava morti. Altri morivano per strada dopo aver vagato in cerca di cibo. In certi momenti la fame ne ha uccisi così tanti che era impossibile trovare parenti vivi per i funerali, i cadaveri venivano gettati nelle fosse comuni.» Lim era un soldato della Corea del Nord fino al 2005, quando ha disertato. È uno dei tanti «profughi maledetti» che si sono salvati traversando clandestinamente il confine settentrionale con la Cina: un popolo invisibile, degli spettri di cui i governi non ammettono l’esistenza. Solo poche organizzazioni umanitarie cercano di aiutarli in segreto, sfidando le ire di Pyongyang e di Pechino. Médecins Sans Frontières è una di queste. Quei medici hanno raccolto centinaia di testimonianze, quasi dei racconti dell’aldilà. I nordcoreani sono stretti nella morsa tra la fame e il terrore quotidiano di uno Stato-gulag. Lim racconta che con l’eccezione di corpi speciali, guardie di frontiera e ufficiali, «i soldati semplici dell’esercito regolare spesso ricevono le razioni alimentari normali solo nel giorno del compleanno del leader Kim Jong Il, la maggior parte del tempo dovevamo cavarcela con tre cucchiai di grano per pasto. Una mezza dozzina di uomini del mio plotone sono morti di denutrizione». Un vecchio di 68 anni accolto alla frontiera cinese ha confermato: «Mio figlio era sotto le armi e neanche lui aveva da mangiare. Gli ufficiali mandavano i soldati a sequestrare le scorte alimentari dei villaggi, se erano vuote entravano a rubare nelle case dei contadini. Lui si è rifiutato, lo hanno fucilato». Kim, una donna incinta di 31 anni fuggita dal villaggio di Hyesan, ha detto: «Quelli che vivono in città almeno possono chiedere l’elemosina ma nelle campagne a volte non ci resta che mangiare l’erba dei conigli. I contadini non producono abbastanza perché non c’è più concime e molti sono così deboli che non riescono a coltivare i campi».
Per fuggire c’è chi accetta qualunque umiliazione. Choi Jin I, 44 anni, dieci anni fa era una poetessa di regime. Quando la censura e la repressione le sono diventate intollerabili ha detto addio alla nomenklatura, ha perso i privilegi della élite. «Ho dormito nelle stazioni ferroviarie, ho venduto i miei vestiti, le mie scarpe, le mie calze per un boccone di cibo. Sono riuscita a traversare il fiume Tumen verso la Cina. L’unica soluzione è stata vendermi a un marito, un contadino cinese analfabeta e violento.» Lungo i milleseicento chilometri di confine settentrionale, nelle regioni cinesi di Jilin e Liaoning vive nascosto questo esercito di fantasmi. Sono almeno trecentomila ma il governo di Pechino gli nega lo statuto di rifugiati politici. Per le autorità cinesi sono immigrati clandestini e criminali. La polizia ha messo delle taglie su di loro. Dei «cacciatori di teste» si arricchiscono riconsegnandoli alla Corea del Nord dove vengono deportati nei gulag o fucilati. Una donna di 43 anni, fuggita dalla miniera di carbone di Eundok, ha detto: «La scelta è tra morire di fame e morire nelle mani della polizia se ci prendono alla frontiera». Ci sono anche cinesi generosi che accolgono i fuggiaschi. Alcuni lo fanno per gratitudine: durante la Rivoluzione culturale maoista erano loro a cercare aiuto nella più ricca Corea del Nord. Molti però si approfittano dei profughi. Fiorisce il commercio di schiavi, soprattutto donne vendute in Cina come mogli o prostitute. Il genocidio segreto in Corea del Nord è iniziato nel decennio scorso, proprio mentre tutti i governi occidentali intrattenevano relazioni amichevoli con Kim Jong Il, e Seul promuoveva il disgelo con miliardi di aiuti. I dati ufficiali del censimento del 2001, forniti dalle stesse autorità di Pyongyang, rivelarono che la popolazione era scesa da 23 a 19 milioni di abitanti. Dove erano scomparsi quattro milioni? Centinaia di migliaia avevano tentato l’esodo verso la Cina. Altri mancavano all’appello del censimento perché vagabondi per fame. Almeno due milioni sono morti per la carestia iniziata a metà degli anni Novanta. In proporzione è un bilancio più enorme dello sterminio di Pol Pot, il leader dei khmer rossi che creò i killing fields in Cambogia negli anni Settanta. Lee Min Bok, 50 anni, faceva il ricercatore al ministero dell’Agricoltura a Pyongyang: «Le razioni alimentari crollarono perfino per noi colletti bianchi, impiegati dello Stato: da settecento grammi di farina al giorno a mezzo chilo. Salvo il vertice della nomenklatura, facevamo tutti la fame: ricercatori, professori, anche le persone più qualificate». Una coppia di profughi intervistati sul confine cinese a Tumen racconta così l’estate del 1998: «Nella cittadina di Hyesan arrivavano dalle campagne disperati. Vagavano in piccoli gruppi di due o tre persone nei parchi, sulle piazze, alla stazione. Si sedevano sfiniti. I bambini avevano le teste gonfie e gli occhi rattrappiti, la pelle nera e il corpo pieno di piaghe. Molti non sopravvivevano al freddo, la mattina dopo erano cadaveri. Rimanevano per giorni a terra senza che nessuno li raccogliesse». Un ex operaio di 30 anni rifugiato nella cittadina cinese di Baishan ricorda: «La fabbrica aveva smesso di pagarci il salario ma eravamo obbligati ad andarci tutti i giorni o ci avrebbero arrestato. Mia moglie che non aveva un impiego cercava di salvarci col mercato nero, piccoli lavoretti, un po’ di elemosina. Poi è crollata, si è messa a fumare oppio, è morta di tifo. Le famiglie hanno cominciato a disintegrarsi. I maestri senza salario disertavano le scuole, i genitori abbandonavano i bambini». A quell’epoca Kim Jong Il per rispondere «alle calamità naturali e alle manovre di aggressione imperialista» lancia una campagna per i «cibi alternativi». Le autorità ordinano ai cittadini di raccogliere radici e bacche, alghe, muschio. La Tv di Stato manda in onda programmi per insegnare a impastare spaghetti e ciambelle usando erba, foglie e corteccia degli alberi. Dilagano gravi malattie intestinali, intossicazioni, molti muoiono avvelenati da questa «dieta». I fuggiaschi parlano di episodi di cannibalismo. Di fronte alle orde di bambini orfani o abbandonati che cercano di sopravvivere rubando, il regime risponde con i lavori forzati. Bimbi di 8-9 anni vengono catturati per costruire l’Autostrada della Gioventù Eroica, una delle grandi opere del regime, 42 chilometri a dieci corsie fra Pyongyang e Nampo. La carestia degli anni Novanta rimarrà una strage segreta: niente telecamere della Cnn o della Bbc come in Somalia o nel Darfur. Una fotografa della Bbc, Hilary MacKenzie, chiamata dal World Food Program, viene espulsa dal governo di Pyongyang con la motivazione che le sue immagini «vogliono farci somigliare all’Africa». Ricorda il giornalista inglese Jasper Becker: «I racconti angosciosi dei profughi alla fine degli anni Novanta non venivano creduti neanche in Occidente, si pensava che fossero manipolati dai servizi segreti americani». La decimazione degli anni Novanta non fu una calamità naturale – anche se a precipitare la crisi contribuirono le inondazioni del 1995 – ma una strage di Stato. Secondo Human Rights Watch «la fame nella Corea del Nord ha una dimensione politica, il fattore cruciale è la volontà del potere di sacrificare i diritti e le vite di quelli che percepisce come dei cittadini non abbastanza leali». Sembra impossibile che lo stesso paese negli anni Cinquanta fosse uno dei più sviluppati in Asia. Alla fine della guerra di Corea, nel 1953, la parte Nord governata dai comunisti era la più ricca. Lì infatti durante l’occupazione giapponese si erano concentrati gli investimenti industriali nipponici. In seguito gli aiuti sovietici avevano dato al Nord un livello tecnologico avanzato (di cui la capacità nucleare è una lontana eredità). Oggi il reddito medio pro capite dei nordcoreani non raggiunge i 600 dollari l’anno, quello del Sud è di 16.000 dollari. Kim Jong Il ha sempre giustificato la miseria del suo popolo accusando l’America di accerchiarlo. Nel corso degli anni il regime ha coniato diversi slogan dallo stile maoista per mantenere un clima di mobilitazione permanente. Il periodo dagli anni Ottanta all’esplosione della carestia nel 1995 è stato definito «la Dura Marcia». Nel 1998 mentre s’inasprivano le privazioni si è passati alla «Marcia Forzata verso la Vittoria Finale». Negli anni più recenti, con un involontario umorismo macabro, è apparso il termine «Marcia verso il Paradiso». Il fatto che il regime non sia ancora esploso si spiega con la cooptazione di una élite che collabora al clima di terrore, delazione, spionaggio. La popolazione è divisa in tre categorie: il nocciolo duro dei fedelissimi, gli «incerti», gli «ostili». Questi ultimi riempiono i campi di concentramento. Ci sono 250.000 prigionieri politici nei gulag fotografati dai satelliti. Un rapporto dell’Onu rivela che per finire in un gulag basta un «crimine contro la rivoluzione come il tentativo di fuga, la diffamazione del Partito comunista, l’ascolto di trasmissioni radiofoniche straniere». I fedelissimi decidono a chi vanno gli aiuti umanitari. Un soldato nordcoreano di 35 anni, intervistato sul confine cinese a Hongcun, racconta che «nell’esercito le nostre razioni arrivano con l’etichetta di un’organizzazione straniera, International Group for Peace». L’Ong francese Action Contre La Faim nell’ispezionare un orfanotrofio a Chongjin ha trovato bambini sporchi, denutriti, malati: due tonnellate di latte Unicef indirizzate a quell’istituto erano finite altrove. Per protestare contro il furto sistematico degli aiuti alimentari da parte della nomenklatura hanno abbandonato la Corea del Nord Médecins Sans Frontières, Médecins du Monde e Oxfam. Ora concentrano i loro sforzi nel tentativo di aiutare i fuggiaschi. Scontrandosi con il boicottagio del potente vicino, la Cina.
Il quadrireattore Ilyushin 62 di fabbricazione sovietica mostra tutti gli acciacchi dei suoi quarant’anni, ma non c’è alternativa. Il volo Air Koryo tra Pechino e Pyongyang, martedì e sabato, è il solo collegamento regolare tra la Corea del Nord e il resto del mondo. È già un’impresa prenderlo. Per un occidentale è difficile ottenere il visto, è raro che riescano a entrare dei giornalisti. A bordo i passeggeri nordcoreani si riconoscono subito: in completo grigio e cravatta, hanno sempre all’occhiello la spilla rossa con l’effigie del «Caro Leader», come sono obbligati a chiamare Kim Jong Il. Appena atterrati a Pyongyang iniziano i riti che segnalano l’ingresso in un universo remoto e misterioso. La Corea del Nord è l’unico paese al mondo dove i telefonini vengono sequestrati all’arrivo dalla polizia di frontiera, dove quasi tutti i telefoni fissi sono disabilitati a ricevere chiamate dall’estero, solo pochi potenti hanno un accesso a Internet, e il visitatore viene sempre scortato da due funzionari governativi con cui occorre «concordare» ogni itinerario. L’ingresso in città è rapido perché i viali maestosi, circondati da mausolei e statue del Caro Leader, sono semivuoti. Le automobili sono ancora una curiosità, scarseggiano perfino le biciclette. Le dimensioni monumentali della capitale accentuano l’atmosfera irreale da città-fantasma. Dopo il passaggio davanti allo Stadio Kim Il Sung (detto «il Grande Leader», il fondatore del regime deceduto nel 1994, padre dell’attuale dittatore), poi sotto l’Arco di Trionfo che celebra la guerra contro gli americani, la prima sosta obbligatoria è per ammirare la statua bronzea di Kim figlio, talmente colossale che i lineamenti del volto devono essere visibili dai satelliti-spia. Tutta l’architettura urbana è un omaggio titanico all’unica monarchia ereditaria comunista della storia, la cui ideologia accentua col passare degli anni i suoi connotati religiosi. Il leader si attribuisce poteri soprannaturali e alimenta leggende sui propri miracoli. Si erigono in suo onore templi che ricordano il culto dell’imperatore nell’era confuciana.
La visita alle grandi opere dell’iconografia rivoluzionaria si conclude con la colonna della Juche (autarchia) alta 150 metri. Sovrasta un trittico scolpito nel granito: la contadina con la falce, l’operaio col martello, l’artista col pennello. Intorno c’è una cornice di parchi verdi curatissimi, e al centro scorre placido il fiume Taedong. Fin qui Pyongyang sembra finta. Una fantastica Disneyland spopolata – senza turisti – tutta dedicata alla storia del comunismo, un Jurassic Park, un bizzarro parco-attrazioni inventato per farci viaggiare all’indietro nel tempo. Un mondo ricostruito proprio com’era mezzo secolo fa all’apice della Guerra fredda.
Anche il resto della città ricorda un vecchio documentario in bianco e nero, ma piano piano vi compare un mesto popolo di ombre, e una realtà diversa sostituisce l’impressione di Disneyland. Un grattacielo-piramide abbandonato durante la costruzione, file di caseggiati dai muri scrostati o senza intonaco compongono un paesaggio da dopoguerra. E quei loculi squallidi che s’intravedono illuminati da deboli neon sono le abitazioni dei semiprivilegiati, il «ceto medio» a cui il regime concede la residenza nella capitale dove stenti e privazioni sono un po’ minori. A ogni incrocio una giovane vigilessa in divisa immacolata esegue un elegante balletto solitario anche se non c’è traffico da dirigere: passa una Mercedes nera ogni dieci minuti, per il resto ci sono solo file di attesa per i rari tram, e lunghe colonne di pedoni in cammino. È concesso un breve viaggio in metropolitana: lo scopo è farci ammirare la profondità dei tunnel-rifugi antiatomici e le stazioni affrescate con motivi rivoluzionari. Ma il tragitto sottoterra per una sola fermata basta per ritrovarsi in mezzo a una popolazione gelida e silenziosa, dagli sguardi tristi e sfuggenti, con abiti grigi, tagli e fogge da Europa dell’Est anni Cinquanta. Anche per la strada, questo è l’unico angolo d’Asia dove i bambini non sorridono allo straniero, non lanciano un «hèl-lòu!» allegro, ma anzi abbassano gli occhi o si scostano impauriti.
La paranoia inculcata dal regime esplode all’improvviso, nel tragitto verso l’albergo che sta in periferia, quando appare la campagna e la prima risaia. Basta un finestrino dell’auto abbassato, una camera digitale estratta dall’astuccio, l’accenno a voler fotografare da lontano un gruppo di contadini. Il funzionario della scorta comincia a urlare, esterrefatto e terrorizzato: «Questo non era nei patti! È uno scherzo stupido! Basta, niente foto!». La minima richiesta fuori programma ha sempre lo stesso effetto, scatena il panico tra gli accompagnatori. Un tentativo di fare jogging nel parco che circonda l’albergo viene intercettato e bloccato da una pattuglia di soldati agitatissimi per l’incontro imprevisto. Una seconda corsa finisce peggio, da un campo vicino un giovane pastore che pascola capre si avventa furioso contro lo straniero, urlando e roteando un bastone. La sera tardi, rientrando ancora in albergo dalla città, nel buio pesto squarciato solo dai fari dell’automobile si ha una fugace rivelazione di ciò che lo straniero non deve vedere: dei contadini delle risaie dormono sul nudo asfalto della strada, rischiando di essere schiacciati dalla vettura; altri alloggiano in tuguri marci e immondi sotto un ponte.
Il 15 giugno 2005, un mercoledì sera, Pyongyang esce dal suo cupo torpore e si anima per un evento speciale. Cortei di pedoni, soprattutto donne e bambine, attraversano la città indossando vestiti multicolori e galosce turchesi, con in mano festoni di fiori finti rosa-shocking. La capitale, che spesso è oscurata dai blackout, stavolta è tutta una luminaria, certi viali sembrano imitare gli Champs-Elysées nell’addobbo natalizio. I cortei si avviano verso lo stadio dove si celebra il quinto anniversario dello storico vertice tra i due leader del Nord e del Sud: il 15 giugno 2000 l’allora presidente in carica a Seul, Kim Dae Jung, tentò di avviare il disgelo tra le due Coree, da lui battezzato la «politica della luce del sole».
Il presidente democraticamente eletto dalla metà ricca della penisola venne a Pyongyang a stringere la mano al dittatore comunista. Fu un gesto controverso (soprattutto per le famiglie dei suoi concittadini e dei giapponesi rapiti in tempo di pace, catturati nei blitz clandestini dalle spie del Nord) ma valse a Kim Dae Jung il Nobel per la pace. Cinque anni dopo una delegazione di 350 sudcoreani viene accolta e festeggiata di nuovo a Pyongyang. Il cielo si tinge di fuochi d’artificio, decolla una mongolfiera verde. Lo stadio è gremito, gli spettatori applaudono una di quelle spettacolari coreografie di massa in cui i nordcoreani sono maestri, e la Tv ritrasmetterà quelle immagini per giornate intere. La retorica della riunificazione è in auge come nel giugno del 2000. L’odio è riservato agli americani, accusati di «occupare militarmente» la Corea del Sud. Per i «fratelli» di Seul i cuori del Caro Leader e delle sue masse adoranti traboccano di amicizia. Ma il clima internazionale attorno a Pyongyang è irriconoscibile rispetto a cinque anni prima. Dopo l’11 settembre 2001 George Bush ha citato la Corea del Nord tra i paesi dell’«asse del male», per i suoi progetti di armamento nucleare. L’11 dicembre 2002 una nave nordcoreana diretta nello Yemen veniva intercettata con 15 missili Scud a bordo. Nel 2003 la Libia avrebbe acquistato uranio trattato da Pyongyang. Lo stesso anno il regime comunista ha espulso gli ispettori nucleari dell’Onu e si è ritirato dal Trattato di non-proliferazione. Il segretario di Stato Usa Condoleezza Rice ha definito questo paese «uno degli ultimi bastioni della tirannide nel mondo» (i nordcoreani ribattono definendola «la cagna»; il vicepresidente Dick Cheney invece è «la belva assetata di sangue»). I satelliti americani spiano con attenzione il Nord per avvistare i segnali precursori di un test nucleare, che si è tragicamente avverato il 9 ottobre 2006 precipitando il mondo intero nell’angoscia. L’imprevedibile Kim Jong Il è un habitué delle svolte repentine, da anni alterna i ramoscelli d’ulivo e gli annunci di riarmo atomico, le richieste di aiuti e i ricatti a mano armata.
Il vice primo ministro Pak Bong Ju nel riceverci recita la versione del regime per giustificare i preparativi nucleari: «Grazie al nostro deterrente l’America non osa scatenare una guerra d’aggressione contro di noi come ha fatto in Afghanistan e in Iraq». Sembra soprattutto interessato a piangere miseria («Siamo a corto di capitali, la minaccia americana impaurisce e tiene lontani gli investitori stranieri») e ad attirare le imprese occidentali. Testualmente: «Il nostro paese offre un ambiente sicuro per gli stranieri che vogliono fare affari». L’affermazione lascia increduli, pronunciata in un paese dove ancora formalmente non esiste la proprietà privata. Di certo fino a pochi anni fa non era pensabile quel linguaggio. Come non era pensabile il negozio di orologi Longines da 700 euro l’uno, spuntato sulla via principale di Pyongyang. Né i due cartelloni pubblicitari (gli unici in tutta la città) che vantano una Fiat Siena in versione locale. Né i trenta ristoranti aperti di colpo da gestori privati. Tanto meno ci si poteva aspettare la banca che all’ora di punta si anima di una piccola folla con rotoli di euro, valigette piene di dollari: qualcuno ha la faccia del funzionario di Stato, qualcun altro del contrabbandiere, ma chi sarà mai quell’anziana signora con una gonna a pois neri che posa sul bancone pesanti mazzette di valuta pregiata?
Il pretesto di questo viaggio è altrettanto singolare: un avvocato d’affari italiano già insediato da anni in Cina, Luca Birindelli, ha ricevuto per primo l’autorizzazione ad aprire uno studio legale. Per assistere le imprese che vogliono investire qui. Nel Jurassic Park nordcoreano qualcosa si muove?
L’esperimento più sorprendente lo scopro a tre ore di auto dalla capitale, nella «zona economica speciale» di Kaesong. È lo stesso termine che in Cina usò Deng Xiaoping, il padre dell’economia di mercato, quando negli anni Ottanta creò i primi laboratori di capitalismo a Shenzhen e Guangzhou, sulla costa meridionale vicino a Hong Kong. Ma a Kaesong sta accadendo qualcosa di più sconcertante di quel che osò il vecchio Deng in Cina. Siamo a 1500 metri esatti dalla Dmz, la de-militarized zone. Al contrario di quel che sembra dire il suo nome, è l’ultima cortina di ferro del pianeta. Il confine dove, dalla guerra del 1950-53, si fronteggiano l’esercito nordcoreano da una parte, sudcoreani e americani dall’altra, tutti armati fino ai denti. Una frontiera minata, con foreste di missili puntati dai due lati, dove un errore di calcolo potrebbe far esplodere una guerra nucleare in qualunque momento. Eppure a Kaesong sembrano una curiosità turistica i due pennoni delle bandiere che segnano le postazioni nemiche della Dmz. Ogni tanto scompaiono per il polverone sollevato da scavatrici, gru, schiacciasassi, asfaltatrici e camion. Qui si sta costruendo, in territorio nordcoreano e con l’inverosimile beneplacito di Sua Maestà comunista Kim Jong Il, una Hyundai-city. Dal nome della Hyundai, colosso capitalistico della Corea del Sud. Il fondatore e padre-padrone dell’azienda Chung Ju-yung (morto nel maggio 2005 all’età di 86 anni), figlio di contadini poveri del Nord, mezzo secolo fa era riuscito a fuggire al Sud portandosi dietro una mucca. Nel 1998 si ripresentò nella sua patria con 501 mucche – «500 regalate, una restituita» – e con una proposta temeraria: portare sviluppo economico al Nord, grazie al suo fiuto, alla sua credibilità, e alle regole del capitalismo. Lui non c’è più ma il suo sogno va avanti. In un cantiere a cielo aperto l’esercito pacifico di manager, tecnici e scavatrici della Hyundai sta costruendo un parco industriale di tremila ettari, dove si sono già insediate trecento aziende sudcoreane. L’obiettivo finale è di arrivare a duemila fabbriche, con 400.000 dipendenti: tutti operai del Nord, a 40 dollari di salario mensile, comandati da padroni del Sud. Ogni mattina si incontrano due colonne di veicoli, dal Nord arrivano gli autobus blu che portano la bassa manovalanza, dal Sud i fuoristrada con l’aria condizionata su cui viaggiano i manager. Improvvisamente qui svanisce la paranoia di Pyongyang: i manager sudcoreani accolgono il giornalista occidentale con larghi sorrisi, distribuiscono biglietti da visita, spalancano i cancelli delle fabbriche già in funzione, regalano informazioni in abbondanza, sotto gli occhi increduli e smarriti delle nostre «guide» governative.
Alla Sonoko Cuisineware, nuova fabbrica di pentole, i magri operai nordocoreani hanno ancora gli occhi pieni di paura e di sospetto. Ma alla Shinwon, azienda tessile, le operaie in divisa bianca curve sulle macchine cucitrici sembrano più tranquille. Sarà merito della musica leggera che gli altoparlanti spandono nello stabilimento. O forse della sala da ping pong che la direzione ha fatto installare per le pause. Il manager venuto da Seul, Chul Soon Kim, mostra con orgoglio la grande mensa pulita e luminosa. «E subito a fianco abbi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione alla nuova edizione
  4. L’ombra di Mao
  5. Introduzione
  6. I. Il messia e il mostro
  7. II. Tibet, la prima vittoria
  8. III. Lo strappo di Bandung
  9. IV. Da Simone de Beauvoir a Moravia: l’Occidente sedotto
  10. V. L’amico americano nel gulag maoista
  11. VI. Simon Leys, la voce fuori dal coro
  12. VII. La fede proibita
  13. VIII. Lo Hunan e il lago scomparso dove nacque Mao
  14. IX. «Tempi irrazionali», le foto di questo libro
  15. X. Il barbiere di Pechino e il rasoio della Storia
  16. XI. Il guidatore di risciò
  17. XII. Contratti di schiavitù
  18. XIII. Ri-scoperte imperiali
  19. XIV. L’ultimo massacro nel suo nome
  20. XV. La memoria negata
  21. XVI. L’invisibile museo degli orrori
  22. XVII. I nostalgici e il verdetto delle cifre
  23. XVIII. Capitalisti con il Libretto rosso
  24. XIX. Feroci epigoni: Pol Pot
  25. XX. Corea del Nord: il Jurassic Park comunista
  26. XXI. Manifesti e shopping mall
  27. XXII. Il perdono del professor Bi
  28. XXIII. I perdenti
  29. XXIV. I Giochi, uno scherzo della storia
  30. Conclusione
  31. Inserto fotografico
  32. Copyright