
- 280 pagine
- Italian
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Nel legno e nella pietra
Informazioni su questo libro
Novantatré storie, e un epilogo, legate tra loro da una inconfondibile voce narrante, danno vita a una sterminata epopea del Vajont dove lui, Mauro Corona, è protagonista e narratore. Una ridda di volti e personaggi che sembrano cavati "nel legno e nella pietra", folli ed eroici, sobri e bevuti, ammiccanti tra boschi, dirupi montani e panche di osteria. Sono spaccapietre e carbonai, streghe e boscaioli, bracconieri e cacciatori: bevitori impenitenti, selvatici, violenti, ma facili alla commozione come fanciulli. Sono vecchie madri-coraggio, venditori ambulanti di ciotole, mestoli di legno, setacci e pale da forno; sono fantasmi benevoli e maligni, spiriti dei boschi che conoscono il linguaggio delle foglie e del vento, anime inquiete che popolano le valli, i burroni, gli scabri sentieri del Vajont. Per le pagine corrono, appaiate, la Vita e la Morte, entrambe figlie del Destino, la buffoneria e la tragicità, la malinconia e la baldoria, la dabbenaggine e la furbizia, la scabra quotidianità e i colori, spesso cupi, della leggenda.
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Informazioni
Eroi dimenticati
Il 10 di novembre 1963, ad un mese e un giorno esatti dalla catastrofe del Vajont, Pietro Martinelli “Nanòn” stava tagliando legna in luna calante nel bosco della Zanolina, poco sotto la Val da Dìach. Era un boscaiolo di prim’ordine, nonché caustico fustigatore di luoghi comuni, in possesso, per quei tempi, di buona cultura e precorritore di novità oggi diventate di uso comune. Quest’ultima dote è suffragata dal fatto che egli, già allora, abbatteva alberi con l’invenzione del secolo: la motosega. Credo che la sua sia stata la prima in paese.
Verso le tredici di quella domenica 10 novembre, Pietro “Nanon”, detto “Piare de Mene”, si sedette su un ciocco e rovistò nello zaino per mangiare un boccone. Era una bella giornata, con un po’ di vento. Sugli alberi tremolavano foglie di ogni colore. Agli inizi di novembre, sugli alberi, ci sono ancora molte foglie. In alto nel bosco, un sole pallido, ma ugualmente amico, teneva compagnia al vecchio boscaiolo solitario. Pietro amava lavorare da solo, come Santo della Val. Giù, verso il passo Sant’Osvaldo, gli alberi erano in ombra poiché in quella zona, il sole di novembre arriva di pomeriggio.
Nella valle regnava il silenzio d’autunno. La mancanza di suoni pareva una forma di rispetto verso le duemila vittime del Vajont morte un mese prima. Il silenzio era dovuto anche al fatto che nel ’63 esistevano sì e no un paio d’auto per paese. Inoltre, quell’autunno portava con sé il dolore, la gente sopravvissuta stava chiusa in casa accanto alla stufa. Non c’erano neppure turisti o curiosi. Quelli sono arrivati quarant’anni dopo per merito di Marco Paolini e del suo monologo in televisione, e del film Vajont di Renzo Martinelli.
Quel giorno, l’unico rumore che ogni tanto rompeva la pace, era la motosega del taglialegna. Ad un certo punto la quiete della Valle fu scossa da un rombo più possente della sega a motore. Proveniva da occidente. Era una vibrazione cupa che, via via, diventava sempre più forte. Pietro Nanòn sguinzagliò l’occhio. E lo vide. E lo riconobbe. Ormai, in un mese, ne aveva visti di elicotteri solcare i cieli ertani. Venivano da tutto il mondo, a portarci aiuto. Lo seguì con lo sguardo mentre sulla punta del temperino che teneva in mano stava infilzato un cubetto di gorgonzola pronto per essere spalmato sul pane. La macchina volante gli passò davanti e picchiò verso Cimolais. Il rumore si fece sempre più leggero, attutito dai boschi fino a scomparire del tutto. Allora Pietro Nanòn posò il pezzetto di gorgonzola sul boccone di pane e lo masticò lentamente.
Dopo neppure cinque minuti il rombo tornò a percuotere la valle. Veniva su da Cimolais. «Sembrava facesse fatica – mi raccontò qualche tempo dopo il boscaiolo – le pale battevano e il motore fischiava come il fiato di un vecchio che cammina in salita». Forse perché l’elicottero era effettivamente vecchio. Anche le macchine invecchiano e tossiscono, e arrancano, si stancano, cambiano voce, a furia di fatiche. Questa volta il velivolo s’avvicinò al bosco. Il taglialegna lo vide volare proprio di fronte a lui. Fermò le dita che arrotolavano la sigaretta e lo seguì con lo sguardo. Illuminato dal sole dentro la cupola di plexiglas, gli parve di intravedere la sagoma del pilota fermo ai comandi. Il mezzo puntò verso Erto e, dopo pochi minuti, il rombo cessò di nuovo.
Pietro Nanòn finì di arrotolare la sigaretta di trinciato, incollò la cartina con un colpo di lingua e la accese. Da quando aveva iniziato il suo pasto a base di pane e gorgonzola a quando accese la sigaretta sarà passata mezzora. Il boscaiolo estrasse l’orologio dal taschino. Mancavano pochi minuti alle tredici e trenta. Era tempo di riprendere il lavoro. Stava per porre mano alla motosega quando il rombo delle pale tornò. L’elicottero volava piuttosto basso tanto che, per superare il costone di Sant’Osvaldo, dovette dare gas e prendere un po’ di quota. La libellula finse di andare a Cimolais, poi virò di colpo e tornò sul passo, come se cercasse qualcosa. Effettuò tre giri tra la piana del Tegn e il Valico.
Pietro Nanòn non capiva molto di macchine volanti ma, osservando quella che volteggiava là sotto, non poté fare a meno di pensare che colui che la “guidava” (disse proprio così) doveva essere piuttosto in gamba.
A quell’ora il sole, nel suo viaggio verso occidente, non era ancora uscito dalla spalla del Cornetto a incendiare gli alberi rugginosi del passo. Se ci fosse stato il sole, la luce avrebbe fatto sicuramente brillare, come la scia di una pallottola incandescente, il cavo d’acciaio della teleferica che scendeva dal Piè de Mula. Ma laggiù, sul passo, sonnecchiavano le ombre d’autunno e non si sarebbero illuminate prima delle quindici. Così, il capitano pilota Giovanni Zanelli non si accorse di quel rasoio teso a mezz’aria, sciaguratamente e colpevolmente non segnalato dalle apposite boe.
Pietro Martinelli non riusciva a credere ai suoi occhi. Mi raccontò cosa successe, poiché egli fu l’unico testimone oculare del fatto. L’elicottero sorvolò il passo per tre volte. Alla terza accostò un poco a nord, verso il fianco del monte Lodina. A quel punto il vecchio vide la macchina piantarsi nell’aria quasi di colpo. Ci fu un sibilo, poi la libellula d’acciaio iniziò a girare su se stessa. Compiuti tre giri, puntò la schiena verso terra e andò giù come un sasso. Nanòn udì lo schianto del velivolo nell’impatto col suolo. A bordo, oltre al capitano pilota Giovanni Zanelli, di cinquantun anni, si trovavano il dottor Bruno Conforto e il collega Filippo Falini, rispettivamente di, quarantatré e quarantasei anni. Morirono tutti sul colpo.
Allibito, Pietro si caricò in spalla la motosega, non poteva abbandonarla, disse, con quello che gli era costata, e corse giù a Cimolais ad avvertire i carabinieri. Le salme dei tre sventurati furono composte nella piccola cappella del passo in attesa di essere consegnate alle famiglie per la sepoltura. Abitavano tutti a Roma.
Sono passati quarant’anni da quel lontano fatto di cronaca. L’Italia è un paese dalla memoria corta. La vicenda Vajont è stata per molto tempo dimenticata. Volutamente dimenticata. Soprattutto dai politici che avevano le mani in pasta nelle responsabilità. Dopo i primi strombazzamenti, durati un paio di anniversari, nemmeno più la minima voce nei telegiornali nazionali. Mai. Eppure il 9 ottobre del 1963 oltre duemila persone entravano nel nulla per ambizioni e interessi altrui. C’è voluto Marco Paolini, con la sua orazione civile, a far muovere, dopo trentacinque anni, il ricordo del misfatto. Lo spettacolo, trasmesso in televisione, sollevò indignazione e sconcerto nell’Italia dei grandi fratelli, dei Costanzo show, dei porta a porta, dei Sanremo. Il regista Renzo Martinelli, sul caso Vajont, ha girato un film. Terminò il lavoro proprio il 10 novembre 2000. Sul passo Sant’Osvaldo i boschi avevano gli stessi colori di allora. Di quando il Capitano Pilota Giovanni Zanelli moriva ai comandi del suo elicottero, un “Agusta-Bell-47 J”. Ma quanti si ricordano di lui? E degli altri due? Salvo i loro parenti, nessuno. Eppure il Capitano Zanelli era qui per darci una mano. Poteva benissimo starsene dov’era, nella sua città, con i suoi figli, Rosanna e Luciano, la moglie Ada. Volava per l’AGIP mineraria, stava bene. Ma era un buono, un altruista, e venne quassù per mettere a disposizione la sua esperienza. Eroe dimenticato dalla saga delle ricorrenze, molte delle quali del tutto fuori luogo, Giovanni Zanelli era nato a Palazzolo sull’Oglio in provincia di Brescia, il 31 luglio del 1911. Nel 1932 era Sottufficiale dell’Aeronautica Militare. Nel ’44 fu nominato aiutante di battaglia per meriti speciali di guerra. Per lo stesso motivo, un anno dopo, venne promosso Ufficiale. Nel corso della guerra si guadagnò quattro medaglie al valore militare: tre di bronzo e una d’argento. Nel ’56, dopo aver prestato servizio al centro addestramento elicotteri di Frosinone, si congedò con il grado di Capitano. Dal gennaio del ’57 prestava servizio all’ENI come pilota. Subito dopo il disastro del Vajont era venuto in quel di Erto per offrire la sua opera nei soccorsi. Poteva tornarsene a casa dopo pochi giorni. Volle restare. Di sua volontà. Ma il capitano Zanelli portava nel destino l’ombra della sfortuna e la luce dell’eroe.
Nel ’58 si trovava in Iran per conto dell’AGIP. Il 21 di febbraio una “piantata” del motore fece precipitare il suo elicottero da un’altezza di dieci metri. La macchina, dopo l’impatto, si rovesciò e prese fuoco. Il dottor Braga, rimasto impigliato nelle cinture di sicurezza, fu liberato e tratto in salvo dal Comandante Zanelli.
Analoga situazione la visse durante la guerra nell’isola di Rodi. Il 27 luglio del 1940, il suo SM81 da bombardamento si incendiò durante un decollo notturno. Il copilota, svenuto, era rimasto vincolato al sedile. Zanelli lo estrasse poco prima che il velivolo esplodesse. Per questo gesto ricevette un encomio. Ad essere superstiziosi, e visto come è andata, verrebbe da pensare al fatidico non c’è due senza tre. Ma il capitano non si impressionava per queste sciocchezze. Nell’ottobre del ’63, mentre da mesi era impegnato in voli di collegamento tra la raffineria di Gela e la piattaforma di trivellazione a mare, accadde il Vajont. Zanelli fu inviato all’aeroporto di Belluno per collaborare alle operazioni di soccorso. Da lì, partì per il suo ultimo volo. Mi piace pensare che sia stato proprio lui, la mattina del 10 ottobre ’63, a portarmi a Cimolais per ben tre volte con l’elicottero. Dal paesino tornavo a Erto di corsa per farmi un altro giro. Finché non fui scoperto. Ma questa storia è stata già detta.
Le altre due persone decedute assieme al Capitano erano tecnici molto conosciuti e apprezzati. L’ingegner Bruno Conforto dirigeva una società geo-mineraria, la GE.MI.NA. Il professor Filippo Falini era docente di geologia all’università di Roma. Gente che stava bene, che godeva di ottime posizioni. Eppure anche loro vennero quassù con l’intento di darci una mano. Un mese dopo, sul luogo dov’era precipitato l’elicottero, fu piantata una croce di legno con i nomi dei tre sfortunati e la data di morte. Poi, su quella radura e su quell’episodio, calò il silenzio e, con il tempo, l’oblio. Quando l’elicottero si schiantò avevo tredici anni e la disgrazia mi colpì molto. Negli anni a venire iniziai un segreto pellegrinaggio al passo Sant’Osvaldo, nella radura del Capitano. Andavo, e ci vado tuttora, a salutare il pilota e gli altri due. Le parole incise su un minuscolo foglio di rame suscitano ogni volta un po’ di malinconia. «Al nostro caro Gianni perché la sua bontà e il suo coraggio non vengano dimenticati». Più sotto, un’altra targhetta porta i nomi di tutti e tre. Infine, su una scheggia di bronzo, si legge il nome Zanelli e la data di morte. Nient’altro. In quel luogo percepisco uno strano fenomeno. Per questo continuo a frequentarlo. È una radura piena di alberi: faggi, larici e pini. Un fitto tappeto di muschio verde copre il terreno tutt’intorno. Sembra che la natura abbia, in qualche modo, cercato di attutire lo schianto del velivolo. In quel sito aleggia una pace che non trovo in nessun altro posto. Ho come la sensazione che, nascosto tra gli alberi, il capitano voglia comunicarmi qualcosa. Una simpatia, un affetto misterioso, lontano. In quella radura vi regna una calma, una tranquillità che non esiste nei posti in cui sono avvenute tragedie. Tra quegli alberi, seduti sul muschio che assorbe ogni rumore, non si prova l’inquietudine che assale il visitatore nei luoghi di morti violente. Si ha l’impressione che lo spirito dei tre sfortunati vaghi nella radura. In attesa di qualcuno. Per confidarsi, per comunicargli la nostalgia di casa, dei figli, degli amici, delle cose perdute. Non mi era mai capitato un fatto uguale. Solo lì, nella radura del capitano, sento aleggiare queste misteriose sensazioni. Dei tre, percepisco soprattutto la presenza del pilota. È una specie di sorriso, un sussurro, un saluto. Suggestione? Può darsi. O forse una mite richiesta di compagnia, un invito al viandante a restare.
Dopo quasi quarant’anni la curiosità ha avuto il sopravvento. Volevo conoscere il volto del capitano. Così, un giorno, senza sapere dove sbattere la testa, ho iniziato la ricerca impossibile, nell’incertezza più totale. Di lui non sapevo nulla. Né dove abitava, né quando era nato, se avesse avuto una famiglia, dei parenti. Un mattino di maggio, che ero lì, nella radura, senza un motivo particolare mi venne in mente un nome. Sentii che avrei dovuto chiedere informazioni ad un albergatore di Cimolais. Alla mia richiesta la signora cadde dalle nuvole e restò perplessa. Ma il marito, dopo averci pensato su, mi chiese di pazientare qualche giorno. Sono stato fortunato e di questo ringrazio l’albergatore in Cimolais. Con il suo aiuto ho potuto rintracciare a Roma Luciano Zanelli, figlio del capitano Giovanni.
All’epoca dei fatti Luciano aveva ventidue anni. Non so cosa avrà pensato quando, dopo quasi quarant’anni, gli ho parlato di suo padre e di ciò che mi capitava nella radura. So che all’inizio del dialogo gli ho raccomandato di non preoccuparsi che non ero matto. Un’altra cosa, in questa vicenda, ha dell’incredibile. Nei lunghi pellegrinaggi alla radura, un po’ alla volta, la mia immaginazione aveva dato forma a un volto che nell’inconscio attribuivo al Capitano. Ebbene, quando ho avuto in mano i giornali dell’epoca sui quali era riportata la foto di Zanelli, sono rimasto allibito. Il viso delle foto si discostava pochissimo da quello immaginato da me per tutto quel tempo. Così, nel quarantesimo anniversario del suo sacrificio, ho deciso di rendere onore alla memoria del Capitano Zanelli. Troppi segnali, troppi messaggi mi imponevano di farlo. Si può diventare amici di qualcuno mai visto, addirittura morto. Ora che lo conosco, ho la sensazione che un filo si sia riannodato per chiudere il cerchio. Certo, duole constatare che il sacrificio dei tre è stato completamente dimenticato. Eppure, anche loro dovrebbero essere collocati senza esitazione fra le vittime del Vajont. Dopo la catastrofe sono stati costruiti tre paesi nuovi: uno a Maniago, uno a Erto e uno a Ponte nelle Alpi. Le vie di questi paesi portano i nomi più svariati, molti strampalati, qualcuno ridicolo. Ma nemmeno una via, un angolino, una piazzetta reca il nome del Capitano Zanelli, o di Bruno Conforto, o di Filippo Falini o di tutti e tre assieme. Si sa, la riconoscenza è un sentimento di neve che si scioglie appena arriva il sole. Queste righe, a distanza di tanti anni e in tutta umiltà, vorrebbero frugare nel passato per vedere se un po’ di quella neve è rimasta intatta in fondo a qualche crepaccio. Altrimenti aspetteremo quella nuova, ogni anno, il 10 di novembre per ricordare con una messa nella radura il Capitano Pilota Giovanni Zanelli e il suo equipaggio. Con affetto e riconoscenza.
Capodanno d’altri tempi
Sulla montagna l’anno finiva nel grembo della neve, che lo prendeva per mano e lo accompagnava al di là di ciò che ormai era stato. E tornava con l’anno nuovo e, appena oltre il confine dell’ora, lo consegnava al mistero di altri dodici mesi. La festa iniziava al suono di campane tirate a mano. L’anno moriva senza petardi o fuochi volanti. Se ne andava col passo pesante, lasciando un solco nella neve. Quello nuovo entrava su quella traccia poiché, lo si voglia o no, si lascia sempre una traccia a chi viene dopo. Quando ero ragazzo sulla montagna nevicava e i Natali e i Capodanni erano ovattati, attutiti. C’erano metri di bianco che assorbivano i rumori. I canti uscivano dalle osterie e finivano nella neve alta. Molte volte anche chi li cantava. Forse, quella neve ci pareva alta perché noi eravamo piccoli, e il silenzio nasceva perché c’erano pochi rumori. Capodanno non arrivava mai all’improvviso. Chi vive in alto non si fa cogliere impreparato. La gente, come i ghiri, in autunno cominciava a mettere via le cose buone per la notte dei canti. Sotto il camino stavano appesi i “pezzi” per la festa: cotiche, scapole, lardo e la testa del maiale affumicata. Quel faccione con gli occhi arrossati faceva paura. Sembrava che da un momento all’altro saltasse giù a mangiarti. Quelli erano cibi speciali da non toccare assolutamente fino a Capodanno. Il 31 dicembre alla sera, in un calderone bollivano i fagioli e in un altro i resti del maiale. Una volta lessati, cotiche, testa e scapole venivano messe assieme ai fagioli. E ce n’era per tutti. E tutte le famiglie cucinavano qualcosa per gli altri, a Capodanno. Perché dopo la mezzanotte si andava a trovare la gente. Entrare nelle case a bere e mangiare era usanza antica. E una donna, appena l’anno iniziava, la prima persona che guardava negli occhi doveva essere assolutamente un uomo. Altrimenti portava male. E viceversa per l’uomo. Si stava molto attenti a questa regola. La sera che l’anno moriva, i fagioli diventavano oracoli. Mentre cuocevano nel calderone stavano sul fondo, rassegnati. Ma molti, ribelli come condannati a morte che si divincolano nell’attimo fatale, venivano a galla e ballavano di continuo. Erano le anime delle persone morte durante l’anno, di coloro che non avrebbero più festeggiato. Così almeno diceva mia nonna, che in ultima beveva e vedeva morti dappertutto. E, mentre contava i fagioli ruotanti, indicandoli con un dito pauroso, la vecchia pronunciava, uno per uno, i nomi dei defunti. Io stentavo a convincermi che il povero Jan de la Taja o Rosina o Balbinùt fossero diventati dei fagioli indemoniati. Ma a Capodanno era così: si pensava anche ai morti perché Capodanno era memoria, bilanci, resa dei conti. E allora bisognava recitare un Requiem per quelle povere anime dannate che, l’anno prima erano con noi a fare festa ed ora si contorcevano in una pentola di acqua bollente. Dal modo in cui si muovevano, la vecchia divinava il futuro traendone auspici per l’anno nuovo. Erano sempre disgrazie. Ma era facile indovinare: in un anno le disgrazie capitavano di sicuro.
A mezzanotte in punto suonavano le campane. Le valli rimbombavano di suoni. I paesi si scambiavano l’entusiasmo suonando le campane. Si aveva l’impressione che tutto l’arco alpino fosse in comunicazione. Se nevicava, e capitava spesso, i passi non facevano più rumore. Allora pareva di udire anche le campane del Tirolo, o dell’Austria o di Trieste. Tutte insieme, a festeggiare. A turno gli uomini si alternavano nella cella campanaria. Bisognava suonare fino all’alba, e le campane avevano le corde. Il suono ne usciva pieno di fantasia perché variava secondo la forza che uno aveva. La tirata di Nani Gaia era riconoscibile nella voce potente e decisa della campana grande. Quando tirava “Punìn”, la stessa sembrava un cinguettio. Per le vie si facevano commenti: “Sta suonando Pine, sta suonando Carle, Sta suonando Stièfen…”. A mezzanotte nelle osterie si alzavano i canti. Quelli ufficiali come “Buon anno e Buona fortuna” perché gli altri incominciavano molto prima. Poi il paese usciva per strada. In piazza, sotto il grande albero di Natale, ardeva un falò sul quale bolliva un pentolone di vino rosso. Tutte le famiglie contribuivano a riempirlo. E anche a svuotarlo. Si brindava, si festeggiava, si cantava. A una certa ora saltavano i sigilli dei vasi con le uve sotto grappa. Erano rimasti esposti sui davanzali per quattro mesi: severamente intoccabili come le cotiche, solo per la festa. Il sole, le ombre d’autunno e lo zucchero, avevano reso la grappa dolce e liquorosa, e gli acini turgidi e tesi come palline di vetro. La testa girava subito.
Quella notte, ogni paese di montagna esibiva il suo tentativo di banda musicale. Quattro, cinque elementi suonavano qualcosa: chitarra, mandolino, una tromba, la fisarmonica, un piffero costruito sul tornio. Suonavano rigorosamente a orecchio. Per tutta la notte e il giorno seguente, spostandosi anche nei paesi vicini. E quelli dei paesi vicini venivano da noi a proporre il loro repertorio. Per le strade si accennava a qualche ballo, faceva freddo, i fiati condensavano. Mano a mano che passavano le ore la banda perdeva gli elementi. Il gruppo si assottigliava fino a che ne rimaneva uno solo, il più resistente, quello che teneva il bere più a lungo. Il primo dell’anno, durante il giorno la festa si spostava altrove. Urgeva la necessità di comunicare con gli altri. Allora si visitavano i paesi della valle. Per fare gli auguri a tutti, ma soprattutto per rompere l’isolamento, dimenticare le fatiche di un anno e raccogliere entusiasmo per quelle nuove. Poi, piano piano, quasi in sordina, tutto rientrava nella norma. Uno alla volta i festaioli sparivano come per magia. I fuochi si spegnevano, i suoni tacevano uno dopo l’altro. Solo qualche pifferaio solitario, restio a rassegnarsi che tutto fosse finito, teneva ancora voce. Ma non aveva più brio. Infine veniva la notte a dare riposo e lenire gli strapazzi del capodanno appena pass...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Nel legno e nella pietra
- Miracolo
- Ladri maldestri
- Trenta secondi di terrore
- La barìl
- Spari nella notte
- Solitudine
- Bugie
- Ladri molto abili
- Fulmini
- Marchingegni onesti
- Boscaioli ed emicrania
- La cassana
- Un bastone intarsiato
- Il matto e il savio
- Cani e padroni
- Un sasso cattivo
- Due compari
- Anonima alcolisti
- Storia di Bati
- Tana
- Una gara di sci
- L’ardito di Erto
- Artisti si nasce
- Un colpo d’ala
- Kugy a Erto
- Una pietra galleggiante
- Ancora trote
- Un suono rinato
- Uno scherzo “paterno”
- Una strana chiave
- Alberi di Natale
- Capitelli
- Ancora capitelli
- L’antro della regina
- Sul Ponte della Corona
- Sul Ponte da Messa
- Un setaccio
- Casa vuota
- Ladri volanti
- Il ceppo delle vergini
- La lunga vacanza di Balìn
- Una bella lezione
- Apparizione
- La strìa
- Lezione di equilibrio
- Lezione di civiltà
- Maestri speciali
- Un carico di fieno
- Un incontro
- Ancora sul Campanile
- Ancora del monte illogico
- La vocina
- Un’elegante signora
- Una svista
- Rinuncia forzata
- Dal libro delle sconfitte
- Ancora dal libro delle sconfitte
- Sconfitte in famiglia
- Una via irripetibile
- Ancora dal libro delle sconfitte
- Un abbraccio alla montagna
- Il senso della misura
- Un chiodo da roccia
- Un chiodo prezioso
- Ancora sconfitte
- Delusione
- Un pasto caldo
- Il forcello fantasma
- I tre corvetti
- Amore per la terra
- La vendetta del cervo
- Alpinista al mare
- Storie di volpi
- Ultimi carbonai
- Resistenza
- Eroi dimenticati
- Capodanno d’altri tempi
- Il sentiero scomparso
- L’occhio misterioso
- Un colpo di fortuna?
- Il padrone della cava
- Una giornata in cava
- Come le volpi
- Un paio di pantaloni
- Incidenti
- Ancora pericoli
- Momenti tranquilli
- Le cuoche
- Fuga e ritorno
- Attrezzi pesanti
- Scivolata dolosa
- Sorpresa
- La fine
- La montagna
- Copyright