Mastro-don Gesualdo (Mondadori)
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Mastro-don Gesualdo (Mondadori)

  1. 480 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Mastro-don Gesualdo (Mondadori)

Informazioni su questo libro

Dopo l'irripetibile esperienza e l'assoluta originalità di lingua e di struttura dei Malavoglia, il Mastro-don Gesualdo segna un deciso allargamento della prospettiva del narratore: dalla ristretta comunità di Aci Trezza a Vizzini, nella provincia agricola di Catania. Le lotte per il potere economico e politico, la rottura dell'ordine sociale per la decadenza della classe dirigente nobiliare e per l'ascesa di un uomo nuovo sono i motivi dominanti, ma insieme piegati a delineare Gesualdo, vero protagonista della storia: eroe epico nella prima metà del libro, tragico, quasi in senso greco, nel fatale fallimento psicologico-affettivo e nella malattia fisica che di quello è il segnale esterno. Il romanzo nasce nel grande decennio della narrativa verghiana, tra il 1880 e il 1890, con una gestazione lunghissima e tormentosa: gli abbozzi, i cartoni preparatori delle Novelle rusticane e di Vagabondaggio, la prima stesura completa, pubblicata sulla «Nuova Antologia», sono le tappe che portano alla revisione finale, condotta nell'arco del 1889. Una vera riscrittura del libro durante la quale Verga risolve gli spinosi problemi strutturali e stilistici emersi nella redazione su rivista. La presente edizione documenta la genesi del Mastro-don Gesualdo attraverso una scelta dei testi via via elaborati (schemi del romanzo, ultimo abbozzo, alcuni capitoli della prima redazione a stampa), accompagnati da ciò che resta della Duchessa di Leyra, testimonianza dell'estrema crisi espressiva che ridurrà lo scrittore a un silenzio pressoché totale.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804492771
eBook ISBN
9788852010996

PARTE PRIMA

I

Suonava la messa dell’alba a San Giovanni; ma il paesetto dormiva ancora della grossa, perché era piovuto da tre giorni, e nei seminati ci si affondava fino a mezza gamba. Tutt’a un tratto, nel silenzio, s’udì un rovinìo, la campanella squillante di Sant’Agata che chiamava aiuto, usci e finestre che sbattevano, la gente che scappava fuori in camicia, gridando:
– Terremoto! San Gregorio Magno!
Era ancora buio. Lontano, nell’ampia distesa nera dell’Alìa, ammiccava soltanto un lume di carbonai, e più a sinistra la stella del mattino, sopra un nuvolone basso che tagliava l’alba nel lungo altipiano del Paradiso. Per tutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di cani. E subito, dal quartiere basso, giunse il suono grave del campanone di San Giovanni che dava l’allarme anch’esso; poi la campana fessa di San Vito; l’altra della chiesa madre, più lontano; quella di Sant’Agata che parve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzetta. Una dopo l’altra s’erano svegliate pure le campanelle dei monasteri, il Collegio, Santa Maria, San Sebastiano, Santa Teresa: uno scampanìo generale che correva sui tetti spaventato, nelle tenebre.
– No! no! È il fuoco!... Fuoco in casa Trao!... San Giovanni Battista!
Gli uomini accorrevano vociando, colle brache in mano. Le donne mettevano il lume alla finestra: tutto il paese, sulla collina, che formicolava di lumi, come fosse il giovedì sera, quando suonano le due ore di notte: una cosa da far rizzare i capelli in testa, chi avesse visto da lontano.
– Don Diego! Don Ferdinando! – si udiva chiamare in fondo alla piazzetta; e uno che bussava al portone con un sasso.
Dalla salita verso la Piazza Grande, e dagli altri vicoletti, arrivava sempre gente: un calpestìo continuo di scarponi grossi sull’acciottolato; di tanto in tanto un nome gridato da lontano; e insieme quel bussare insistente al portone in fondo alla piazzetta di Sant’Agata, e quella voce che chiamava:
– Don Diego! Don Ferdinando! Che siete tutti morti?
Dal palazzo dei Trao, al di sopra del cornicione sdentato, si vedevano salire infatti, nell’alba che cominciava a schiarire, globi di fumo denso, a ondate, sparsi di faville. E pioveva dall’alto un riverbero rossastro, che accendeva le facce ansiose dei vicini raccolti dinanzi al portone sconquassato, col naso in aria. Tutt’a un tratto si udì sbatacchiare una finestra, e una vocetta stridula che gridava di lassù:
– Aiuto!... ladri!... Cristiani, aiuto!
– Il fuoco! Avete il fuoco in casa! Aprite, don Ferdinando!
– Diego! Diego!
Dietro alla faccia stralunata di don Ferdinando Trao apparve allora alla finestra il berretto da notte sudicio e i capelli grigi svolazzanti di don Diego. Si udì la voce rauca del tisico che strillava anch’esso:
– Aiuto!... Abbiamo i ladri in casa! Aiuto!
– Ma che ladri! Cosa verrebbero a fare lassù? – sghignazzò uno nella folla.
– Bianca! Bianca! Aiuto! aiuto!
Giunse in quel punto trafelato Nanni l’Orbo, giurando d’averli visti lui i ladri, in casa Trao.
– Con questi occhi!... Uno che voleva scappare dalla finestra di donna Bianca, e s’è cacciato dentro un’altra volta, al vedere accorrer gente!...
– Brucia il palazzo, capite? Se ne va in fiamme tutto il quartiere! Ci ho accanto la mia casa, perdio! – Si mise a vociare mastro-don Gesualdo Motta. Gli altri intanto, spingendo, facendo leva al portone, riuscirono a penetrare nel cortile, ad uno ad uno, coll’erba sino a mezza gamba, vociando, schiamazzando, armati di secchie, di brocche piene d’acqua; compare Cosimo colla scure da far legna; don Luca il sagrestano che voleva dar di mano alle campane un’altra volta, per chiamare all’armi; Pelagatti così com’era corso, al primo allarme, col pistolone arrugginito ch’era andato a scavar di sotto allo strame.
Dal cortile non si vedeva ancora il fuoco. Soltanto, di tratto in tratto, come spirava il maestrale, passavano al di sopra delle gronde ondate di fumo, che si sperdevano dietro il muro a secco del giardinetto, fra i rami dei mandorli in fiore. Sotto la tettoia cadente erano accatastate delle fascine; e in fondo, ritta contro la casa del vicino Motta, dell’altra legna grossa: assi d’impalcati, correntoni fradici, una trave di palmento che non si era mai potuta vendere.
– Peggio dell’esca, vedete! – sbraitava mastro-don Gesualdo. – Roba da fare andare in aria tutto il quartiere!... santo e santissimo!... E me la mettono poi contro il mio muro; perché loro non hanno nulla da perdere, santo e santissimo!...
In cima alla scala, don Ferdinando, infagottato in una vecchia palandrana, con un fazzolettaccio legato in testa, la barba lunga di otto giorni, gli occhi grigiastri e stralunati, che sembravano quelli di un pazzo in quella faccia incartapecorita di asmatico, ripeteva come un’anatra:
– Di qua! di qua!
Ma nessuno osava avventurarsi su per la scala che traballava. Una vera bicocca quella casa: i muri rotti, scalcinati, corrosi; delle fenditure che scendevano dal cornicione sino a terra; le finestre sgangherate e senza vetri; lo stemma logoro, scantonato, appeso ad un uncino arrugginito, al di sopra della porta. Mastro-don Gesualdo voleva prima buttar fuori sulla piazza tutta quella legna accatastata nel cortile.
– Ci vorrà un mese! – rispose Pelagatti il quale stava a guardare sbadigliando, col pistolone in mano.
– Santo e santissimo! Contro il mio muro è accatastata!... Volete sentirla, sì o no?
Giacalone diceva piuttosto di abbattere la tettoia; don Luca il sagrestano assicurò che pel momento non c’era pericolo: una torre di Babele!
Erano accorsi anche altri vicini, Santo Motta colle mani in tasca, il faccione gioviale e la barzelletta sempre pronta. Speranza, sua sorella, verde dalla bile, strizzando il seno vizzo in bocca al lattante, sputando veleno contro i Trao: – Signori miei... guardate un po’!... Ci abbiamo i magazzini qui accanto! – E se la prendeva anche con suo marito Burgio, ch’era lì in maniche di camicia: – Voi non dite nulla! State lì come un allocco! Cosa siete venuto a fare dunque?
Mastro-don Gesualdo si slanciò il primo urlando su per la scala. Gli altri dietro come tanti leoni per gli stanzoni scuri e vuoti. A ogni passo un esercito di topi che spaventavano la gente. – Badate! badate! Ora sta per rovinare il solaio! – Nanni l’Orbo, che ce l’aveva sempre con quello della finestra, vociando ogni volta: – Eccolo! eccolo! – E nella biblioteca, la quale cascava a pezzi, fu a un pelo d’ammazzare il sagrestano col pistolone di Pelagatti. Si udiva sempre nel buio la voce chioccia di don Ferdinando il quale chiamava: – Bianca! Bianca! – E don Diego che bussava e tempestava dietro un uscio, fermando pel vestito ognuno che passava, strillando anche lui: – Bianca! mia sorella!...
– Che scherzate? – rispose mastro-don Gesualdo rosso come un pomodoro, liberandosi con una strappata. – Ci ho la mia casa accanto, capite? Se ne va in fiamme tutto il quartiere!
Era un correre a precipizio nel palazzo smantellato; donne che portavano acqua; ragazzi che si rincorrevano schiamazzando in mezzo a quella confusione, come fosse una festa; curiosi che girandolavano a bocca aperta, strappando i brandelli di stoffa che pendevano ancora dalle pareti, toccando gli intagli degli stipiti, vociando per udir l’eco degli stanzoni vuoti, levando il naso in aria ad osservare le dorature degli stucchi, e i ritratti di famiglia: tutti quei Trao affumicati che sembravano sgranare gli occhi al vedere tanta marmaglia in casa loro. Un va e vieni che faceva ballare il pavimento.
– Ecco! ecco! Or ora rovina il tetto! – sghignazzava Santo Motta, sgambettando in mezzo all’acqua: delle pozze d’acqua ad ogni passo, fra i mattoni smossi o mancanti. Don Diego e don Ferdinando, spinti, sbalorditi, travolti in mezzo alla folla che rovistava in ogni cantuccio la miseria della loro casa, continuando a strillare: – Bianca!... Mia sorella!...
– Avete il fuoco in casa, capite? – gridò loro nell’orecchio Santo Motta. – Sarà una bella luminaria con tutta questa roba vecchia!
– Per di qua, per di qua! – si udì una voce dal vicoletto. – Il fuoco è lassù, in cucina...
Mastro Nunzio, il padre di Gesualdo, arrampicatosi su di una scala a piuoli, faceva dei gesti in aria, dal tetto della sua casa, lì dirimpetto. Giacalone aveva attaccata una carrucola alla ringhiera del balcone per attinger acqua dalla cisterna dei Motta. Mastro Cosimo, il legnaiuolo, salito sulla gronda, dava furiosi colpi di scure sull’abbaino.
– No! no! – gridarono di sotto. – Se date aria al fuoco, in un momento se ne va tutto il palazzo!
Don Diego allora si picchiò un colpo in fronte, balbettando: – Le carte di famiglia! Le carte della lite! – E don Ferdinando scappò via correndo, colle mani nei capelli, vociando anche lui.
Dalle finestre, dal balcone, come spirava il vento, entravano a ondate vortici di fumo denso, che facevano tossire don Diego, mentre continuava a chiamare dietro l’uscio: – Bianca! Bianca! il fuoco!...
Mastro-don Gesualdo il quale si era slanciato furibondo su per la scaletta della cucina, tornò indietro accecato dal fumo, pallido come un morto, cogli occhi fuori dell’orbita, mezzo soffocato:
– Santo e santissimo!... Non si può da questa parte!... Sono rovinato!
Gli altri vociavano tutti in una volta, ciascuno dicendo la sua; una baraonda da sbalordire: – Buttate giù le tegole! – Appoggiate la scala al fumaiuolo! – Mastro Nunzio, in piedi sul tetto della sua casa, si dimenava al pari di un ossesso.Don Luca, il sagrestano, era corso davvero ad attaccarsi alle campane. La gente in piazza, fitta come le mosche. Dal corridoio riuscì a farsi udire comare Speranza, che era rauca dal gridare, strappando i vestiti di dosso alla gente per farsi largo, colle unghie sfoderate come una gatta e la schiuma alla bocca: – Dalla scala ch’è laggiù, in fondo al corridoio! – Tutti corsero da quella parte, lasciando don Diego che seguitava a chiamare dietro l’uscio della sorella: – Bianca! Bianca!... – Udivasi un tramestìo dietro quell’uscio; un correre all’impazzata, quasi di gente che ha persa la testa. Poi il rumore di una seggiola rovesciata. Nanni l’Orbo tornò a gridare in fondo al corridoio: – Eccolo! eccolo! – E si udì lo scoppio del pistolone di Pelagatti, come una cannonata.
– La Giustizia! Ecco qua gli sbirri! – vociò dal cortile Santo Motta.
Allora si aprì l’uscio all’improvviso, e apparve donna Bianca, discinta, pallida come una morta, annaspando colle mani convulse, senza profferire parola, fissando sul fratello gli occhi pazzi di terrore e d’angoscia. Ad un tratto si piegò sulle ginocchia, aggrappandosi allo stipite, balbettando:
– Ammazzatemi, don Diego!... Ammazzatemi pure!... ma non lasciate entrare nessuno qui!...
Quello che accadde poi, dietro quell’uscio che don Diego aveva chiuso di nuovo spingendo nella cameretta la sorella, nessuno lo seppe mai. Si udì soltanto la voce di lui, una voce d’angoscia disperata, che balbettava: – Voi?... Voi qui?...
Accorrevano il signor Capitano, l’Avvocato fiscale, tutta la Giustizia. Don Liccio Papa, il caposbirro, gridando da lontano, brandendo la sciaboletta sguainata: – Aspetta! aspetta! Ferma! ferma! – E il signor Capitano dietro di lui, trafelato come don Liccio, cacciando avanti il bastone: – Largo! largo! Date passo alla Giustizia! – L’Avvocato fiscale ordinò di buttare a terra l’uscio. – Don Diego! Donna Bianca! Aprite! Cosa vi è successo?
S’affacciò don Diego, invecchiato di dieci anni in un minuto, allibito, stralunato, con una visione spaventosa in fondo alle pupille grige, con un sudore freddo sulla fronte, la voce strozzata da un dolore immenso:
– Nulla!... Mia sorella!... Lo spavento!... Non entrate nessuno!...
Pelagatti inferocito contro Nanni l’Orbo: – Bel lavoro mi faceva fare!... Un altro po’ ammazzavo compare Santo!... – Il Capitano gli fece lui pure una bella lavata di capo: – Con le armi da fuoco!... Che scherzate?... Siete una bestia! – Signor Capitano, credevo che fosse il ladro, laggiù al buio... L’ho visto con questi occhi! – Zitto! zitto, ubbriacone! – gli diede sulla voce l’Avvocato fiscale. – Piuttosto andiamo a vedere il fuoco.
Adesso dal corridoio, dalla scala dell’orto, tutti portavano acqua. Compare Cosimo era salito sul tetto, e dava con la scure sui travicelli. Da ogni parte facevano piovere sul soffitto che fumava, tegole, sassi, cocci di stoviglie. Burgio, sulla scala a piuoli, sparandovi schioppettate sopra, e dall’altro lato Pelagatti, appostato accanto al fumaiuolo, caricava e scaricava il pistolone senza misericordia. Don Luca che suonava a tutto andare le campane; la folla dalla piazza vociando e gesticolando; tutti i vicini alla finestra. I Margarone stavano a vedere dalla terrazza al di sopra dei tetti, dirimpetto, le figliuole ancora coi riccioli incartati, don Filippo che dava consigli da lontano, dirigendo le operazioni di quelli che lavoravano a spegnere l’incendio colla canna d’India.
Don Ferdinando, il quale tornava in quel momento carico di scartafacci, batté il naso nel corridoio buio contro Giacalone che andava correndo.
– Scusate, don Ferdinando. Vado a chiamare il medico per la sorella di vossignoria.
– Il dottor Tavuso! – gli gridò dietro la zia Macrì, una parente povera come loro, ch’era accorsa per la prima. – Qui vicino, alla farmacia di Bomma.
Bianca era stata presa dalle convulsioni: un attacco terribile; non bastavano in quattro a trattenerla sul lettuccio. Don Diego sconvolto anche lui, pallido come un cadavere, colle mani scarne e tremanti, cercava di ricacciare indietro tutta quella gente. – No!... non è nulla!... Lasciatela sola!... – Il Capitano si mise infine a far piovere legnate a diritta e a manca, come veniva, sui vicini che s’affollavano all’uscio curiosi. – Che guardate? Che volete? Via di qua! fannulloni! vagabondi! Voi, don Liccio Papa, mettetevi a guardia del portone.
Venne più tardi un momento il barone Mèndola, per conve...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Giovanni Verga
  3. Mastro don Gesualdo
  4. Introduzione - di Carla Riccardi
  5. Cronologia
  6. Bibliografia
  7. Nota al testo
  8. MASTRO-DON GESUALDO
  9. PARTE PRIMA
  10. PARTE SECONDA
  11. PARTE TERZA
  12. PARTE QUARTA
  13. Appendice
  14. Postfazione - Giovanni Verga di Luigi Pirandello
  15. copyright