Mi chiamo Pierluigi Tunesi, ho quarantacinque anni e sono un dirigente d’azienda. Per la precisione sono amministratore delegato di un’importante azienda multinazionale di apparecchiature elettroniche. O meglio, ero Pierluigi Tunesi, avevo quarantacinque anni ed ero un dirigente d’azienda. Adesso credo di essere il numero sette, almeno sento che così mi chiamano, dovrei avere sempre quarantacinque anni ma mi pare d’averne due o trecento, e l’unica cosa che dirigo, quando non piombo per disposizione altrui o per infinita spossatezza nel più buio e fondo degli oblii, è il flusso dei miei pensieri. Pensieri che, peraltro, non mi appartengono più di tanto in quanto sono io ad appartenere a loro: poiché io vorrei soltanto dimenticare, annullare, prolungare quegli oblii di cui parlavo prima e uscire in silenzio da questa scena che mi è stata imposta e che verosimilmente sarà l’ultima che la mia vita terrena – ma a cosa diamo la definizione di “vita”? – mi concederà.
Dicevamo: i pensieri. Già, queste guizzanti anguille della coscienza che spuntano improvvise e spesso importune, innescate da stimoli eterogenei e multiformi, sono l’unico contatto tra il mondo esterno – quello che mi guarda, che mi osserva e che, quando vuole, se ne va di qua, verso quell’esistere di fuori che non mi appartiene più – e Tunesi Pierluigi, il pesce rosso, l’osservato, il muto, l’immobile, il prigioniero del corpo relegato in questo letto che, come una vasca di un acquario troppo piccolo, è l’unico esistere che mi compete.
Avete mai provato a parlare senza che dalla bocca esca alcun suono? Nel mio caso quest’evento bizzarro e dispettoso si chiama tracheotomia.
Quando da non so quale mondo sono riaffiorato in questa vasca di pesci rossi ove mi trovo adesso, lei, la tracheotomia, era lì. Un buco, un buco da cui dipendeva la vita. Tutta un’esistenza, con le sue gioie, i suoi ricordi e i suoi progetti, adesso era dipendente da quel misero buco. Un buco attaccato a una macchina che si chiama respiratore, il quale è diventato il padrone di questo povero corpo col buco che risponde al nome di Pierluigi, meglio noto come il numero sette.
Non conosco bene i dettagli tecnici di questa tracheotomia, anche se qualcuna tra le varie figure che gironzolano attorno a me ha tentato più volte, e spesso come se si rivolgesse a un bambino mezzo scemo, di spiegarmelo. So solo che tutte le volte che cerco di dire una cosa quella cosa non viene fuori. Più mi accaloro e insisto – provate voi a dire che avete una sete d’inferno a un interlocutore che non capisce e che vi guarda con occhi vacui o, addirittura peggio, compassionevoli, e, senza comprendere, quindi lasciandovi senza bere, vi dà un buffettino ripetendovi “Tranquillo, tranquillo”, andandosene con la palese espressione di chi pensa: “Ma che cazzo avrà detto questo qui?” –, più mi accaloro, dicevo, più la tracheotomia si ribella facendomi tossire, scatarrare e facendomi maltrattare dal respiratore, che non accetta mai di essere un mio sottoposto e che non perde mai l’occasione di farmi capire che chi comanda è lui. E senza di lui io sono morto.
Ma, sicuramente, non avrete capito nulla. Lo sapevo: è come parlare senza emettere suoni. Cercherò di procedere con ordine anche se trovare un ordine non è semplice. A volte rammento di avere avuto un’esistenza precedente, di cui, giorno dopo giorno, ricordo anche le minuzie e che sembra quasi impossibile mi sia appartenuta. Ora, dopo un intervallo di cui non so quale sia stata l’esatta durata, mi trovo in questa situazione affatto peculiare. Situazione di cui ho preso coscienza lentamente, guadagnandomi un piccolo spazio ogni giorno, esplorando con gli occhi l’ambiente circostante, imparando a poco a poco qualcosa di più di me e degli altri che mi stanno intorno. Ho compreso il mio ruolo e ho capito che l’unica reale fortuna, o sfortuna, che posso avere è quella di restare vivo. Cercherò di proseguire con metodo e di filtrare il flusso di pensieri e di sensazioni che s’affannano a uscire, quasi tentassero di reclamare che il numero sette sono sempre e ancora io.
Il letto su cui sono disteso si trova in una grande stanza che appartiene al reparto di Terapia intensiva dell’ospedale di ***, nel quale sono entrato per essere operato dal dottor Fulgenzi, insigne chirurgo e mia unica speranza di sopravvivenza. Ma sono realmente sopravvissuto? Prima di entrare qui la mia vita aveva già subito, con l’inappellabile diagnosi di tumore, la brusca svolta della presa di coscienza che tutto comunque deve finire.
Il giorno della diagnosi è un po’ come sentir bussare alla porta… “Toc toc: buongiorno, sono la Morte, molto piacere. Ma come, non sapeva che dovevo arrivare?” “Ma no” provi a rispondere, “aspetti un momento, cominci ad andare avanti… Poi arrivo, solo un attimo…” eccetera eccetera. Insomma, dopo quel bussare non sei comunque più lo stesso, ma sei ancora molto differente da quello che diventi quando sei qui.
Il mio letto è il gemello di tre che occupano, ben distanti l’uno dall’altro, il medesimo stanzone; se non ho capito male, in tutta la Terapia intensiva di camere così ce ne devono essere almeno quattro, per cui, se non sbaglio – un tempo andavo forte con i calcoli ma vi garantisco che non avrei mai creduto di provare una così grande soddisfazione nel fare un’operazione elementare – gli inquilini di questo bizzarro sito dovrebbero essere non meno di dodici. Dodici individui che bene o male condividono la mia stessa sorte. Dodici individui di cui, probabilmente, non saprò mai nulla ma che mi assomigliano come, altrettanto probabilmente, nessuno mi ha mai assomigliato tanto.
Lo stanzone lo divido con il numero sei, a destra, e l’otto, a sinistra. Ogni tanto tra i nostri letti viene tirata una tenda, in modo che non ci si possa scorgere l’un l’altro, ma spesso invece si dimenticano di tirarla e così, se ci si sporge un po’, ci si vede benissimo. Non che ci sia granché da guardare, anzi, quando adocchi il vicino ti immagini come devi essere tu e ti passa la voglia di guardare qualsiasi altra cosa, ma comunque è l’unica attività che puoi fare. Oltre che pensare, pensare e ancora pensare.
Il numero sei mi tiene compagnia fin dall’inizio. Almeno da quello che io ritengo sia il mio inizio, perché da quanto mi hanno raccontato io mi trovo qui da un bel po’ di tempo e di una parte di questo tempo non ho nessuna memoria. È stato come risalire da un abisso, un abisso nero di cui non ricordo nulla.
Il mio ricordo più preciso del “prima” risale a quando sono entrato in sala operatoria. Ricordo bene l’infermiere che è venuto a prendermi in camera. Un piccoletto simpatico che tentava di nascondere l’imbarazzo di chi si trova di fronte a qualcosa di simile a un condannato a morte, mischiando gentilezza e umorismo. Anch’io mi sforzavo di sorridere e, ancora di più, rispondevo alle sue battute superandolo in arguzia e ironia. In realtà cercavo solo di vincere una paura bestiale, che mi serrava la gola e si dilatava, occupando tutti i miei pensieri, le mie sensazioni e le mie facoltà. Solo quando vedi la barella che fa capolino nella tua stanza capisci bene che cos’è la paura.
La paura mi ha tenuto compagnia fino a che l’anestesista non mi ha detto di respirare profondamente… e poi il buio.
Dopo ho dei flash: luci, voci, colori, forse più suggestioni che altro. Da un certo momento in poi – non so né quando né in che modo – mi sono ritrovato qui. Un po’ come uscire da una nebbia che si dirada poco a poco, un po’ come nascere e crescere un’altra volta. Se ripensiamo alla nostra infanzia i ricordi diventano lucidi da un certo momento in poi: non sai come, non sai perché. Ne hai memoria e basta. Sai che c’è stato un prima ma non sai come è stato, nemmeno i ricordi degli altri, di quelli che c’erano, sono sufficienti a rievocartelo in maniera cosciente.
Io sono atterrato qui, immobile, riesco a stento a stringere un pugno, attaccato al respiratore col mio buco, e cerco di ricostruire quello che è stato per non pensare a quello che sarà.
Comunque il numero sei era già lì. E non deve passarsela molto bene. Anche lui fa parte dei silenziosi: le uniche voci che mi sono giunte dalla sua parte sono quelle del personale, dei medici – ormai le conosco tutte – e di qualche parente che periodicamente mette piede nel nostro acquario. Perfino i rumori sono gli stessi: lo stantuffo del respiratore, qualche ronzio elettrico e gli allarmi. Già, gli allarmi: ti ci devi abituare. Suonano mille volte al giorno, se respiri, se non respiri, se ti muovi, se fai qualcosa, qualsiasi cosa che non sia contemplata dal mansionario del pesce rosso. Loro sono lì, squillanti, perentori, spaventosi. All’inizio, le prime volte, quando non sei abituato, la loro voce acuta ti terrorizza. Non capisci cosa accada, ma sicuramente pensi che debba essere successo qualcosa di tremendo, anzi che ti stia capitando qualcosa di tremendo. Poi vedi che non avviene niente e arriva qualcuno che fa cessare il suono, meccanicamente, spesso senza guardarti, a volte con un sorriso, a volte infastidito. Ma sempre con la naturalezza di un guardiano di museo, che passa abitualmente tra capolavori e meraviglie che la quotidianità gli ha reso ovvi e privi d’emozione.
Talvolta invece, quando suona uno di questi dispositivi si scatena il finimondo: un gran correre di persone, voci concitate, arrivano altri apparecchi, mani che si muovono freneticamente, mani che tremano e… tutto dipende se è uno dei tuoi dispositivi che si è messo a suonare o se è quello del vicino. Perché se è uno dei tuoi la senti subito alla gola, la stretta della Signora in nero, quella che ti vuole prendere e che ti vuole strappare via. Ma tutti quelli che sono accorsi al suono dell’allarme si danno un gran da fare per tenerti qui e tu rimani in bilico, con la coscienza che va e viene, tra il buio e la luce. Spesso senti un ago che ti trafigge qui, delle mani che ti prendono là, l’aria che viene pompata nei polmoni e, insomma, un gran sballottamento nel quale tu sei più “cosa” del solito. Tu: una cosa e il suo terrore.
Quando invece è il letto del vicino che si mette a suonare e la task force della sopravvivenza si dirige verso di lui non puoi fare a meno di pensare che per il momento te la sei scampata, e ti punge la curiosità di sapere come andrà a finire: se il numero sei continuerà a essere il numero sei o se arriverà la barella con la cassa per il trasloco definitivo. Una curiosità che è un po’ come una scommessa, così tanto per sapere chi vince, così per ingannare il tempo, così, tanto per non ricordarsi che tu, comunque, hai già perso.
Alla mia sinistra si trova il letto numero otto. Non ha inquilini così affezionati come me e il mio vicino di destra, cambia ospite ogni tre o quattro giorni. Per cui lo considero diverso e cerco di guardare dalla sua parte il meno possibile. L’idea del movimento mi irrita.
Oltre ai tre letti corredati di tutti gli optional caratteristici della Terapia intensiva, quelli che fanno tanto folklore nei telefilm americani dove in un tripudio hollywoodiano si vedono salvare le vite – ma l’inganno più grande non è tanto che quelle vite vengano salvate, quanto che esse appaiano importanti –, nello stanzone campeggia, appeso al muro di fronte ai letti, un orologio. Unico ricordo del tempo reale che passa per te come per quelli che stanno di fuori. L’orologio infatti ti ricorda che se segna le quattro per te, sono le quattro anche per chi sta fuori, per tua moglie che aspetta di venirti a trovare, per tua figlia che va a ginnastica, per l’infermiere del mattino che è già arrivato a casa, per il medico che apre l’ambulatorio, per tutti quelli che hanno ancora una vita. Sono le quattro per tutti, ecco, ma la somiglianza è finita. Tutto il resto è diverso.
All’inizio non capisci nemmeno se sia mattino o pomeriggio, qui dentro non entra la luce di fuori. Poi, con un po’ di allenamento, riesci a cogliere la differenza. Le luci variano d’intensità, la presenza dei medici varia in quantità, gli infermieri modificano la solerzia e così riesci a distinguere quando è notte e quando è giorno.
Oltre all’orologio, dal lato della parete di fronte ai letti, sull’angolo a sinistra, vicino all’ingresso dello stanzone, c’è un armadio pieno di strumenti, di flebo, di medicine e di quant’altro possa servire all’immediato bisogno degli inquilini della stanza e, di fianco, un carrello con un monitor e due piastre di metallo che sembrano una specie di tostapane ma in realtà servono per tostare chi di noi ha il vezzo di far scattare l’allarme del monitor che controlla il cuore e di tentare la via di fuga della fibrillazione ventricolare.
La parete a destra invece è occupata da un gran finestrone dal quale i visitatori e i parenti che non possono entrare – qui infatti può varcare la soglia soltanto un parente per ogni malato – hanno la possibilità di guardare dentro, per proiettare gli affetti, le preoccupazioni, le attese, le speranze o anche solo la loro semplice curiosità. E noialtri, al di qua del vetro, adagiati sui nostri letti, con le lucine dei monitor che ricordano a tutti che siamo ancora vivi e con i respiratori che ci rammentano che il nostro raggio d’esistenza è lungo al massimo quanto il tubo che ci connette allo stesso, siamo la rappresentazione palese, ma spesso non compresa, che è solo per un improvvido girare dei dadi della fortuna se ci troviamo al di qua del finestrone. E avrebbe potuto essere il contrario.
Bene, questo è quello che vedo io dalla mia postazione. È tutto quello che riesco a captare con lo sguardo da quando ho coscienza di trovarmi qui.
Talvolta, quando mi si avvicina qualcuno con qualche strumento, per controllarmi, per esplorarmi, per farmi non so più che cosa né perché, vedo, se una parte delle apparecchiature che mi avvicinano ha delle strutture metalliche o cromate, il riflesso di un pezzo di me. Il riflesso di qualcosa che credo appartenga a me ma mi risulta estraneo, come ancora mi risulta estraneo questo posto, come ancora estranea è questa vita che mi è riservata. Perché quando sono andato da Fulgenzi con il mio tumore forse inguaribile, con la mia speranza cullata dalle sue certezze, con ben chiara la differenza tra la vita e la morte e l’illusione di scegliere la morte o la vita, non avevo mai pensato che esistesse questo posto qui. Non me l’aveva detto nessuno.
Mi chiamo Luca Gaboardi, ho quarantacinque anni e faccio il medico. Non un medico qualsiasi, faccio l’intensivista, il rianimatore, che altro non è se non un modo sublimato per dire che faccio l’anestesista: perché se dici che fai l’anestesista sembri solo quello che fa dormire la gente, che non è granché da dire, mentre se dici che fai il rianimatore sei quello che salva le vite.
In realtà di vita non riesco a salvare neppure la mia.
Sono divorziato, ovviamente per colpa mia – scoperto come un liceale a levarmi i pantaloni per una collega di cui ricordo tutto tranne che il nome –, senza figli – l’unico punto a mio favore –, sono pieno di vizi e non sarò mai ricco. Prima di tutto perché non guadagno abbastanza e poi perché non me ne importa a sufficienza, dei soldi intendo. E non è una qualità.
Infatti non è che non me ne importi proprio nulla. Dunque non riesco a sfuggirne il dominio, a vivere in quella dimensione che non si assoggetta all’economicamente corretto, vero motore e collante dell’odierna globalizzazione. Ma nemmeno mi ci dedico anima e corpo, scientificamente, con la caparbietà di chi si prefigge una meta e ne fa lo scopo della propria esistenza.
Il risultato di questo stare a metà è una serie di voglie soddisfatte che però sono sempre di meno di quelle da soddisfare, per cui, non avendo abbastanza spessore morale per mettere a tacere le voglie, mi tocca affannarmi per cercare un appagamento che non arriverò mai a ottenere.
Lavoro all’ospedale di ***, nell’équipe del professor Villa, mi occupo in particolare della Terapia intensiva e non so fare altro, nel senso che non so fare nessun altro lavoro e questo vuol dire che la mia strada non prevede svolte né deviazioni. Non so perché ma, a volte, vengo divorato da un folle desiderio di deviare, di cambiare, di ricominciare da capo. Però quando mi guardo davanti vedo solo un lungo rettilineo, un uniforme, uguale rettilineo. È l’unica strada per la quale posso procedere e ho la certezza che anche dopo un’infinità di passi il percorso non cambierebbe. Quanto mi piacerebbe vedere una curva!
Una possibile soluzione, forse l’unica, in questo piatto andare diritti nell’esistenza lavorativa sarebbe quella di cercare di modificare l’inclinazione, cioè di cercare di salire e arrivare a quel vertice che nella mia professione si chiama, con una semantica che pecca di arroganza, essere “primario”. Ma credo che me ne manchi la capacità, la determinazione e – quel che è peggio, in quanto sarebbe il primo stimolo per tutta la faccenda – la voglia. Non ne ho neanche la forza: non ce la faccio più a studiare, ho molto poco da dire dal punto di vista scientifico, odio tenere pubbliche relazioni e non tollero l’indispensabile teatrino della ricerca di appoggi e protezioni.
Tuttavia forse la realtà è un’altra: non sopporterei la sconfitta se, tentando di arrivare al primariato, non dovessi riuscirci. Per cui mi limito a restare dove sono, lungo il mio bel rettilineo, diritto fino all’orizzonte.
Ho pochi amici. Nel senso che conosco molte persone ma con poche condivido l’esistere. Anzi, forse, se la mettiamo su questo piano, non condivido l’esistere con nessuno. Avevo degli amici, degli scampoli d’infanzia e di giovinezza, età in cui il condividere ti sembra così facile e irrinunciabile, che mi sono rimasti attaccati fino alla soglia dell’età matura. Ma dopo, quando in questa età matura mi sono infilato come una mummia nel suo sarcofago, hanno continuato per la loro strada. Ognuno per sé, e le strade si separano. Non sai come sia potuto accadere. Per qualcuno è stata la famiglia, per altri una donna, per altri ancora il lavoro o forse solo la consapevolezza di essere diventati adulti… e così improvvisamente ho capito che le emozioni, gli umori, le pulsioni, insomma quell’humus vitale e anche un po’ sordido, ma profondamente tuo, che crea il legame occulto e profondo delle amicizie dell’età immatura non avrebbe più avuto la possibilità di essere condiviso. Fine delle amicizie giovanili.
Con quelli conosciuti dopo sei troppo coperto; troppo carico di ruoli e infrastrutture per poter arrivare all’essenza. E per avere un’amicizia devi arrivare all’essenza.
Ma a quarantacinque anni ce l’hai ancora l’essenza? C’è troppo da scavare per vedere dove è, c’è troppo da togliere o forse anche da aggiungere. Bisognerebbe recuperare tutte le cose perse, i sentimenti soffocati, le occasioni perdute, le speranze abortite, per vedersi come si è in realtà. Un po’ come le statue dell’antichità a cui il tempo ha spezzato nasi, braccia e gambe, ha smussato gli angoli, ha corroso le forme e ha levigato i caratteri fino a far rimanere solo un lontano ricordo di ciò che erano; e in questo ricordo la bellezza non ha più nessuna parte.
Mi piace bere. Mi piace molto. Forse un po’ troppo, ma non credo di essere alcolizzato. Almeno non come quelli che si vedono al cinema, quelli a cui tremano le mani, che alle dieci del mattino fanno schifo e affogano il loro far schifo nella bottiglia del gin e la sera vedono topi e pipistrelli sulle pareti. Niente di tutto questo. So...