Bella gente d'Appennino
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Bella gente d'Appennino

  1. 204 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Bella gente d'Appennino

Informazioni su questo libro

"Non posseggo molte parole, ma queste poche sono mie, le ho ricevute, le vivo e riscrivo e solo la morte sigillerà il racconto. Ne faccio commercio, ne faccio dono."
Giovanni Lindo Ferretti ha smesso di fare il cantante e si è fatto cantore di un mondo residuale, antico, sfuggito al moderno. Quello montano, il suo.
Dall'esilio in quella terra di mezzo che è l'Appennino tosco-emiliano, Ferretti racconta le gesta nobili e quotidiane dei suoi avi e della comunità di Cerreto Alpi, montanari capaci di valore, dignità, lavori umili, buonumore, passioni forti e sempre decorose. Dalla capostipite sassalbina Maddalena fino a sua madre Eni, dallo zio Archimede, grande cacciatore di orsi in Alaska, alla tragica vicenda di Ezio Comparoni- Silvio D'Arzo e di sua madre Rosalinda.
Tante donne, molti uomini e moltissimi animali, ché la famiglia Ferretti ha campato da sempre di quello: pecore per i formaggi saporiti, cani per governarle e cavalli per viaggiare, fare la guerra o scoprire - come nel caso del suo destriero personale, il roano Tancredi - inattese forme di fedeltà fra esseri viventi.
Dopo il grande successo di Reduce, l'autore raccoglie in questo nuovo libro anche il suo pensiero su meraviglie (poche) e miserie (tante) dell'oggi: il rispetto della vita, la naturale accettazione del dolore, il disincanto per la politica, l'emozione del mistero della fede, il distacco da un contemporaneo che ha perso il contatto con le immutabili leggi di natura. Tutto questo e molto altro ancora con una prosa che ha punte di vibrante poesia, ritmata con cadenza ipnotica.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804582649
eBook ISBN
9788852012044

d come dimora

Mia dimora è negli occhi di mia nonna.
Una vecchia fotografia, in tondo, la ritrae giovane ragazza. Una gran massa di capelli scuri raccolti, un vestito accollato tutto sbuffi e piegoline con un filo di ricamo, una croce celtica girocollo e quegli occhi tristi, occhi che sanno. Occhi da compassione e misericordia.
Primogenita di Francesco dei Comparoni e Aldegonda da Ca’ di Sarzent, è minuta, giudiziosa, poco appariscente. Pare destinata a soccombere ma, d’animo forte, regge ogni avversità, ogni disgrazia, solo aumentando la profondità dello sguardo. Timore verso il cielo e pudore negli affari umani, poche parole, gesti calibrati volti al compimento. Mai alzare la voce. Scansata e attenta casomai ci sia bisogno.
La vita di Maddalena ha incrociato due fortune a contrasto: la casa in cui è nata e il marito che si è scelta. Lei esile punto di equilibrio.
Orazio l’ha fatta sposa, madre dei suoi figli, padrona della sua vita. Alto, forte, di sguardo sincero e cuore retto, solo di fronte a lei si è ritratto:
«Sia fatto come tu vuoi.»
Lei ha avuto troppe occasioni per chiedersi quanto gli avesse rovinato la vita e quanto con il suo amore, la sua dedizione, l’avesse consolato.
Orazio nasce nel 1879, a Ca’ ’dl’Agneŝa, casato dei Ferretti, secondo di sei figli a rischio tra sopravvivenza e miseria. Li unisce una cantilena mnemonica: Archì Di e Da, la Carmella, Juffa e Grà.
Giuseppe Orazio Carmela Archimede Didimo e Dante, all’anagrafe e in ordine di età. Sani, non avvezzi alle lamentele né alla rassegnazione, ben disposti alla vita. Poveri montanari li definirebbe qualsiasi statistica, ma loro, che di statistiche non s’interessano, crescono liberi e forti, fieri, e come tali avrebbero risposto prima all’appello di don Sturzo e poi di De Gasperi.
Indisponibili alle ideologie del riscatto sociale, al sol dell’avvenire, al destino imperiale, ma determinati a lavorare, anche duramente, per la propria fortuna, per quel che si può. Amanti della vita per quello che è e dei piaceri che offre. Cacciatori per passione, allevatori per mestiere, lavoranti per ogni necessità.
Per ritrovarne le fattezze squadrate con l’accetta, vivificate dagli occhi specchio dell’anima, si può fare riferimento a Wiligelmo e all’epopea del romanico in terra matildica, ma sempre, ad ogni generazione, un residuo indelebile di sangue celtico fa fiorire un cucciolo di carnagione diafana, le lentiggini, gli occhi colorati, i capelli di rame.
Italici, abitanti un territorio di confine tra toschi e lombardi, nei piccoli traffici legati a tale situazione ricavano il di più ad integrare una economia familiare di sussistenza in piccole proprietà di montagna.
Nessuno è mai morto di fame, basta la salute per far fronte alla vita e i conti si fanno col Creatore, Signore del cielo e della terra.
Rari, nei secoli, gli avvenimenti che degni di ricordo li legano al grande gioco del potere, alla Storia. Matilde di Canossa, Castruccio Castracani, Napoleone imperatore e si dice anche di Annibale e il Barbarossa con i loro eserciti, di passaggio.
Ma ora l’Italia è fatta e bisogna fare gli italiani: queste ne sono le prime generazioni. L’unità del paese, la Nazione, si manifesta come impoverimento reale, quotidiano. Nelle cucine compare la fame, la povertà diventa miseria, il pane si allontana da casa e bisogna rincorrerlo.
Due novità certificano il cambiamento. La strada militare transappenninica dei progetti estensi e poi napoleonici è realtà e tocca ai paesani, in corvée, spalarla d’inverno fin sul valico. Strada statale n. 23, poi 38, poi 63 mette in comunicazione Guastalla, sulle rive del Po, con Aulla, sbocco dell’alta Lunigiana sul golfo di La Spezia, traverso queste valli.
Tutti i giovani maschi sono soggetti al servizio di leva, obbligatorio.
Il secolo XX si preannuncia rivoluzionario tra clamori di ottoni e rulli di tamburi, spiegamenti militari, sferragliare di industrie, turbine a vapore.
Orazio è in buona salute, non nutre timori personali né speranze sociali.
Di ritorno dal servizio militare parte per Genova dove lavora al porto il tempo necessario per decidere di emigrare. Attraversa Parigi in carrozza ed è un ricordo che non lo abbandonerà più, ma è Londra la città che lo attrae e lo incanta. Lavora in fonderia, la paga è buona e si sente padrone della propria esistenza. Un po’ di soldi li mette da parte, gli altri li spedisce a casa dove non bastano mai. Con i primi che arrivano, suo padre Carlo benedice il Signore perché grazie ai figli si può ancora sorridere alla vita e compra un po’ di brusca, il liquore tradizionale, da offrire a tutti, parenti e vicini di casa.
A Londra arriva anche Juffa, Giuseppe il primogenito, con Albina sua giovane sposa. È il più sfortunato dei fratelli, da lì passa in America e tornato a casa morirà con la moglie nel 1919 durante l’epidemia di spagnola lasciando cinque figli, tre maschi e due femmine: Medoro, Amerigo, Leonida, Maddalena, Carlo.
La Leò, Leonida per noi è femminile, a sei anni si ritrova donna di casa a far da madre ai suoi fratelli che appena cresciuti fuggiranno la miseria emigrando in Francia dove oggi vive la loro progenie, orgogliosamente francese.
Dalle colline sopra Cecina, nell’alta Maremma livornese, in cui ha trascorso tutta la sua vita adulta allevando pecore, la Leò nella sua vecchiaia è tornata a casa, in paese.
Anch’io di ritorno negli stessi anni, ci siamo ritrovati, riconosciuti.
I nostri momenti avevano poche parole e molti sorrisi, molto compiacimento. Un guardarsi dritto negli occhi per poi abbassarli svelti su una tazzina di caffè bollente. Ogni giorno uscivo di casa per andarmi a fumare una sigaretta con Natale, suo secondo marito, fratello di Jappo, Giacomo, primo marito.
Lei aspettava la mia visita e la pretendeva.
Di fronte a Lei io ero un po’ anche mio padre, lo sapevamo tutti e due e si stava così a rimirar la vita, gioie e disgrazie, senza giudizi e come è bello esserci. Un legame profondo che si può solo accettare, fatto di pudore e meraviglia; fonte di rispetto, legittimità e conoscenza.
È morta l’anno scorso, tra nipoti e pronipoti, a casa della figlia Gilvana dove si era trasferita dopo la morte di Natale, ormai troppo vecchia per stare sola. Amata, riverita, accudita «come una gran signora» mi diceva tra le lacrime e il riso mettendo in mostra con noncuranza orecchini, anelli, spille, le collane con il crocefisso e le madonnine, tutto in oro zecchino.
Si è assopita un dopopranzo sulla sua poltrona, soddisfatta e sorridente, così in pace ha reso la sua anima a Dio.
Per lei, nella nostra chiesa, ho tenuto la mia unica breve orazione funebre e un pianto sereno e fluente mi ricacciava in gola le parole. Piangere mescolando, in malinconia, gioia e tristezza è quel che si dice un gran bel funerale, lode alla vita, roba di famiglia.
Oggi siamo qui, per l’ultima volta, vicini alla Leò nel suo corpo mortale. Per quanto triste, nei ricordi, per l’affetto che ci lega, è una bella giornata quando una famiglia, una comunità, può accompagnare alla sepoltura una persona cara alla veneranda età di novantacinque anni compiuti.
Alle spalle una serena vecchiaia.
Ma la vita della Leò, come quella dei nostri vecchi, non è stata una vita facile, da nessun punto di vista. Nata nel 1913, ha mosso i suoi primi passi in un periodo tragico per la nostra comunità e per il mondo intero. Due anni dopo sarebbe scoppiata la Prima guerra mondiale e a seguire la dittatura fascista e la Seconda guerra mondiale. Tempi di violenza e di miseria. Gli uomini a combattere lontano, le donne i vecchi e i bambini tra fatiche, paure, fame. Una vita che noi generazioni del secondo dopoguerra, dello sviluppo economico, cresciuti nella pace e nell’abbondanza materiale non riusciamo più a ricordare né a comprendere. La Leò, ormai anziana, tornata a casa, è diventata per me presenza essenziale. Solo chi vive in un paese abbandonato, le case sempre più chiuse, può capire la gioia che danno due finestre aperte, due chiacchiere e un caffè con una persona che ti è cara.
Quello che mi ha sempre colpito, nella Leò, è stato il suo profondo amore per la vita. Strano, mi dicevo, noi che dalla vita abbiamo avuto molto, in termini di benessere materiale, la consideriamo poca cosa mentre Lei, che dalla vita ha avuto ogni sorta di tribolazione, la riconosce come dono, il più prezioso. Così dovendo scrivere per il mio lavoro ho pensato a Lei, al suo insegnamento, trasmesso con semplicità. Ma quanta potenza.
Queste poche parole le ho recitate su molti palcoscenici, in tante antiche pievi, ma sono parole tue, cara Leò, e oggi le recito per Te:
«La vita è una gran cosa» lo dice la Leò mia anziana parente e vicina di casa. Ha lavorato sempre, mai preteso niente, patita la fame, la miseria abbondante. Tolta la salute nessuna fortuna mai l’ha toccata mai. Mai.
«Ma se una volta morta Dio mi dicesse:
«“Leò ritorna giù, ti tocca tutto quello che ti è toccato già.”»
Si illuminano gli occhi, sorridono i pensieri nella mente.
«Ci direi: “Sì, Signore, torno giù, uguale. La vita è una gran cosa, mi basta aprire gli occhi su un mattino di sole, e poi tutto, io lo rifarei”. »
Oggi che la tua vita terrena è conclusa e Tu hai oltrepassato la soglia di quel mistero che è la morte, cara Leò, possa il Signore nostro accoglierti nella vita eterna, in quella comunione dei Santi che lega indissolubilmente i vivi e i morti. I nostri vecchi ci siano testimoni.
Orazio rimane a lavorare a Londra quattro anni e per tutta la vita questo periodo sarà suo personale termine di paragone politico contro il fascismo prima e il comunismo poi. La gente che frequenta, gente perbene, non teme la fatica né l’imprevisto, ama la libertà, la vita, e il mondo è grande a portata di mano e gambe. Nei racconti di chi ci vuole andare, di chi c’è stato, di chi ha saputo, c’è il Sud Africa, l’Australia, ci sono le Americhe.
Orazio sceglie il Canada e si ritroverà per vie traverse, ma non impervie, in British Columbia. Gli pare il paradiso terrestre. Montagne, laghi, foreste, una terra per uomini liberi. È nel pieno delle forze, capace di responsabilità, conscio dei propri doveri: sarebbe ora di metter su famiglia. A casa, al paese, c’è Maddalena. Lei è quella che vuole in moglie. Sarà d’accordo? Si conoscono da sempre. Come sarà cambiata in questi anni? Ha la stessa età di Archìmede, Archì, fratello più caro, più giovane di sei anni. Troppi pensieri, tante preoccupazioni possono trovare conforto nell’abbraccio di una sorella.
Carmela, unica sorella e giovane sposa, e il marito Gaspare sbarcano in America. Lavorano al seguito dei grandi cantieri che costruiscono le ferrovie degli Stati Uniti. Il lavoro non manca e loro non si risparmiano. Sono emigrati per necessità con un preciso intento: guadagnare il più possibile per tornare a casa il prima possibile. Gestendo oculatamente ogni risparmio, cumulando lavori e straordinari senza sosta, riusciranno a comprarsi il più bel podere del nostro crinale, il Piagneto, e trascorrervi poi i propri giorni nell’agio, nell’abbondanza.
Archìmede, Archì, il quarto fratello nasce nel 1885. Come Juffa e Grà ma con innata grazia è cacciatore. Ancora bambino porta a casa carnieri di uccelli senza testa. Ha un fucile a colpo unico, e gli basta. Occhio infallibile, mano ferma, cuore saldo. Se in casa si mangia carne è lui che bisogna ringraziare.
Dopo secoli d’abbondanza la selvaggina vera, orsi cervidi lupi linci cinghiali, è ormai scomparsa dai nostri monti interamente asserviti alle necessità dell’uomo e all’esigenze degli animali domestici. Restano gli uccelli in cielo e in terra lepri e volpi. Archì si sente defraudato per tanta passione e così misero risultato.
Le volpi poi sono di Orazio che in casa chiamano il volpaio: non ha paura di niente, si infila nelle tane. Da ragazzino una volpe gli aveva azzannato come morsa una gamba e per staccarla aveva avuto bisogno dei fratelli. Per questo aveva rimediato un po’ di botte da sua madre, come giusto, ma non sono dolori di cui lamentarsi, c’è da esserne fieri.
Lontano da casa Orazio smette di cacciare e, per compensazione, Archì caccia anche per lui. Pulisce e ripulisce i fucili che devono esser perfetti, sempre, pronti all’uso. Ma si è isolato, intristito. Il mondo s’è fatto stretto per il suo colpo d’occhio, sovraffollato per il suo senso di spazio. Cresce la voglia d’America, cresce fino a convincere tutti che ormai quella terra lontana è diventata, grazie a Orazio e Carmela e Juffa, roba di famiglia e con la benedizione dei vecchi finalmente parte.
Parte senza nessun pensiero in testa, senza voltarsi indietro una sola volta, come animale a cui hanno aperto la gabbia e non ci sarà verso di riacchiapparlo. Quando il bastimento, a Genova, si stacca dal molo non guarda terra, sputa per aria e fa tre giri su se stesso, come un saltarello con piroetta, un moto incontenibile del corpo e dello spirito finalmente liberi di guardare avanti.
«Mai voltarsi indietro.»
Terrà fede all’impegno e quando si troverà costretto a smentirsi ricorderà con precisione quell’attimo, il rumore degli scarponi sul ponte, la nave in partenza. Deve arrivare in Alaska perché succeda.
Per la prima ed unica volta, all’estremo Nord, non è cacciatore ma cercatore d’oro.
«Una pazzia» capisce appena arrivato al campo minerario: recinti, filo spinato, massa informe di gente. In una baracca si firma il contratto di lavoro. Non sa nemmeno bene perché ma l’occhio si focalizza su una clausola che intima:
“Per lasciare il campo occorre il certificato medico”.
Il medico è della società. Una gabbia, pensa, e gli manca il fiato.
È armato, ben armato, cercando di non dare nell’occhio abbandona il campo minerario e si butta nella foresta. È appena arrivato dopo un lungo viaggio su carri della compagnia ma è un cacciatore, non morirà di fame né di paura e soprattutto non in un buco di miniera.
Arcy comincia la sua nuova vita come addetto agli approvvigionamenti nel cantiere dove lavorano Carmela e Gaspare. Caccia a cottimo. Un buon lavoro ma superato lo stupore iniziale tutto tende più ad ammazzatoio industriale che all’arte della caccia, un’arte nobile. Va più che bene per mettere da parte un po’ di soldi, capire qualcosa della terra che tanto ha sognato e adesso lo incanta. I grandi spazi, il culto delle armi, il far da sé, la libertà.
La frontiera lo aspetta. Sceglierà l’orso come proprio destino.
Dalle grandi pianure risale lentamente verso nordovest. I suoi giorni sono splendidi e le notti lucenti; se gli capita di mangiare polvere, soffrire pioggia e freddo non gli importa. L’hanno allevato bene i suoi vecchi e i suoi fratelli. È in salute, è forte, non ha timori, non conosce paure, non cerca guai e sta attento a scansarli. Sa la prudenza e non dare nell’occhio, né invadente né sciocco. Di buona compagnia, se capita, solo non cova mancanze. Sale in British Columbia per abbracciare Orazio. Farsi vedere e guardarlo. Per informarlo che sta bene. Per informarlo che lui, Arcy, il suo nome ha perso l’h traversando l’oceano, ha trovato il suo mondo e niente, nessuno mai, lo riporterà indietro.
Al dunque non c’è parola da dire, né gesto che possa contemplare l’a...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. ante
  3. d come dimora
  4. c come cavallante
  5. i come incarnazione
  6. b come bottega
  7. s come sepoltura
  8. e come esilio
  9. p come persone (politica)
  10. a come appennino, alpe
  11. post