XII
La ’ndrangheta nel resto della provincia
Melito Porto Salvo, Montebello Ionico, Roghudi
e Roccaforte del Greco
I comuni di Melito Porto Salvo, Montebello Ionico, Roghudi e Roccaforte del Greco fanno parte del territorio controllato dagli Iamonte, una cosca storica della ’ndrangheta che, negli anni Settanta, era legata a doppio filo a Domenico Tripodo di Sambatello.
Il boss, Natale Iamonte, che negli anni Sessanta aveva preso il posto di Giuseppe Trimarchi, ucciso in un agguato, era proprietario di un distributore di benzina e di una macelleria.1
A trasformare questa ’ndrina in una holding del crimine è stata la costruzione della Liquichimica di Saline Ioniche. Una vicenda inverosimile, tutta italiana.
Il complesso industriale, per il quale vennero investiti circa 300 miliardi di lire, fu costruito su un terreno franoso,2 espropriato alla baronessa Maria Piromallo Di Prisco, originaria di Napoli. L’uso di quel sito era stato sconsigliato da una perizia geologica che, però, pochi ebbero l’opportunità di leggere: sparì, infatti, misteriosamente dal carteggio e i lavori proseguirono senza interruzioni. L’unico che continuò a obiettare sulla stabilità del suolo fu il direttore del Genio civile di Reggio Calabria. Il quale, però, perse la vita in uno strano incidente stradale.
page-no="103" Mappatura della criminalità organizzata
Calabria - Provincia di Reggio Calabria
«C’erano troppi interessi attorno a quel progetto, troppi miliardi in un’area tradizionalmente avara di risorse» ricorda un investigatore che ha seguito quelle vicende.
Iamonte si assunse l’incarico di garantire un’equa spartizione degli appalti tra le imprese controllate dalle varie ’ndrine della zona. Si dettero da fare anche le cosche d’oltreoceano. La polizia canadese intercettò alcuni boss della mafia siciliana mentre discutevano in un bar di Montreal su come contattare Natale Iamonte per assicurarsi una fetta dei miliardi destinati alla realizzazione dello stabilimento di Saline Ioniche.3
L’impianto, nonostante le decine di miliardi spesi dal governo, non entrò mai in funzione, perché le bioproteine che avrebbe dovuto produrre si dimostrarono cancerogene. Quella imponente struttura, ancora visibile dalla statale 106, è rimasta un lacerto di mitologia industriale, un sogno svanito, un investimento inutile. L’approdo portuale annesso all’impianto, invece, si rivelò molto utile alle ’ndrine del luogo che lo utilizzarono per sbarcare tonnellate di sostanze stupefacenti, sigarette e armi.
Racconta Salvatore Annacondia, ex contrabbandiere di Bari, legato ai clan di Reggio Calabria: «Ogni qualvolta Domenico Tegano aveva la necessità di organizzare sbarchi clandestini di ingentissimi carichi di eroina provenienti dal Libano si rivolgeva a Natale Iamonte». Pare che il boss di Melito Porto Salvo, in quegli anni, percepisse una percentuale dai destinatari dei carichi di hashish ed eroina che approdavano nel porto di Saline. Tra questi c’erano anche i De Stefano di Reggio Calabria e i Ferrera e i Santapaola di Catania.
Qualche anno dopo altri trenta miliardi di vecchie lire vennero stanziati per la realizzazione delle Officine grandi riparazioni delle Ferrovie dello Stato. Grazie alla mediazione dei Santapaola, gli Iamonte si assicurarono una grossa tangente dall’impresa aggiudicatrice dell’appalto.4
Da allora gli Iamonte non si sono più fermati. Hanno messo le mani su tutto ciò che avrebbe potuto generare profitti: dagli appalti pubblici al controllo del mercato del calcestruzzo e della fornitura di inerti, dal riciclaggio di denaro sporco al traffico internazionale di droga, armi ed esplosivo.
Nell’aprile del 1994 la polizia di Reggio Calabria ha scoperto l’esistenza di un mercantile italiano, la Laura C, a 52 metri di profondità nelle acque antistanti la zona controllata dagli Iamonte. A bordo della nave, affondata nel 1941 da un sommergibile inglese, c’erano 700 tonnellate di tritolo, destinate alle truppe italiane in Africa orientale. La nave-deposito venne successivamente coperta con una colata di cemento.
Nel marzo del 1998 un’indagine ha accertato il coinvolgimento del clan di Melito Porto Salvo nella vendita di alcune barre di combustibile nucleare prodotte negli Stati Uniti dalla General Electric e destinate a una centrale atomica dello Zaire.
page-no="105" Sei anni dopo, il 27 agosto 2004, a Saline Ioniche, una frazione del comune di Montebello Ionico, in un sacco di plastica nascosto sotto un cavalcavia della Statale 106 i carabinieri hanno rinvenuto 65 panetti di tritolo di tipo militare, pronti per essere utilizzati. Sempre nel comune di Montebello, pochi mesi dopo, il 19 ottobre dello stesso anno, sono state scoperte 243 formelle di tritolo, del peso complessivo di 45 chilogrammi, nascoste in un sacco di plastica. In altre operazioni, sempre nella zona controllata dagli Iamonte, sono stati rinvenuti lanciarazzi anticarro, bazooka e altro materiale esplosivo.
La conferma della disponibilità infinita di tritolo da parte del clan Iamonte si è avuta nel 2004, quando le forze dell’ordine in collaborazione con i servizi segreti sono riuscite a infiltrare un loro uomo nel giro della potente cosca. In pochi mesi l’agente sotto copertura è riuscito a comprare 106 chili di tritolo in pani da 180-190 grammi e mezzo chilo di semtex, un esplosivo plastico usato in molti attentati terroristici.
A metà degli anni Settanta sono sorti dei contrasti tra Natale e Vincenzo Iamonte. Pare che il fratello del boss non abbia tenuto un comportamento decoroso al funerale di un familiare. Poi sono arrivati i guai con la giustizia. Natale, prima di essere condannato a 24 anni per l’omicidio di Antonio D’Uva, un avvocato catanese, aveva trascorso alcuni anni di soggiorno obbligato nella zona di Desio e Cesano Maderno, in Lombardia. Nel 2005 in carcere sono finiti anche i suoi figli, Vincenzo, detto «Cecio» e Giuseppe Iamonte. Secondo la relazione della Commissione parlamentare antimafia sulla ’ndrangheta, oggi il clan sarebbe capeggiato da Remigio Iamonte.
Nonostante le divisioni, le faide5 e gli arresti subiti, gli Iamonte sono riusciti a mantenere il controllo della zona compresa tra Melito e Montebello, ma anche a estendere i propri interessi, oltre che in Lombardia, pure in Toscana, Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta, Umbria e persino nell’Europa dell’Est.
page-no="106" Nel 2007 altre indagini hanno confermato i forti interessi del clan Iamonte nel settore della macellazione e commercializzazione delle carni.
Negli ultimi due anni Melito Porto Salvo è stata al centro di alcune inchieste della Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria che hanno coinvolto anche esponenti politici e dirigenti di strutture sanitarie, come Villa Anya, fondata dal consigliere regionale Domenico Crea, un medico di Melito Porto Salvo. Nel novembre del 2001 Crea depositò presso la filiale del Banco di Napoli più di un miliardo di lire in contanti. Ai magistrati disse di averli ereditati dai genitori che li tenevano custoditi in casa dentro un materasso. Scrive la Commissione parlamentare antimafia:6 «Ma non c’è solo un grumo di interessi personali o clientelari che sorregge l’attività di Crea: le indagini hanno fatto emergere il legame con la ’ndrina dominante della zona, quella dei Morabito-Zavettieri di Africo e Roghudi, alleata dei Cordì di Locri e dei Talia di Bova Marina». Tutto a scapito dei pazienti, le persone ricoverate a Villa Anya. Senza cure e senza medici. «A questa intanto la facciamo fuori noi» diceva un’infermiera, ignara di essere intercettata, davanti al corpo ormai sfatto di una vecchietta in agonia, nella clinica che ingoiava malati e finanziamenti pubblici, sulla statale 106 che da Reggio Calabria sale verso la Locride.
Sempre a Melito Porto Salvo, nel luglio del 2006 è stato arrestato Giovanni Morabito, figlio di Giuseppe «Tiradrittu», il boss di Africo.
Nella zona di Roghudi e Roccaforte del Greco comandano i Maesano-Pangallo-Verno-Favasuli. Avverte la Commissione parlamentare antimafia:7 «Nei comuni di Roghudi e Roccaforte del Greco potrebbe incidere sugli equilibri criminali locali la scarcerazione di Francesco Maesano e la cattura di Fortunato Maesano, capo dell’omonima cosca, avvenuta il 26 ottobre del 2006 in Spagna». Qui la ’ndrangheta ha radici antiche. Nel 1896 un pentito, Pietro Palamara, disse di aver fatto parte del clan di Roccaforte del Greco guidato da Marco Malgeri.8 A Roghudi, dove un tempo comandavano i Romeo, negli anni Novanta, in una feroce faida, gli Zavettieri sono stati decimati dai Maesano-Pangallo-Favasuli, legati ai Sergi-Marando di Platì.
Originari di Roghudi e Roccaforte del Greco erano anche gli affiliati a una cosca della ’ndrangheta trapiantata a Domodossola, arrestati nel 1993 assieme a due ex amministratori comunali del luogo e al sindaco di Roghudi. Grazie ai politici, la cosca era riuscita a controllare capillarmente il territorio della Val d’Ossola, terrorizzando commercianti e imprenditori con estorsioni e ricatti. Nel gennaio 2008 è stata scoperta una base operativa di spacciatori di hashish proprio a Roghudi. Erano in contatto con un marocchino che faceva da intermediario con alcune organizzazioni nordafricane.
San Lorenzo, Bagaladi e Condofuri
San Lorenzo, Bagaladi e Condofuri sono tre comuni che fanno parte dell’area grecanica, dove si parla ancora il greco di Omero, una natura straordinaria con macchia mediterranea, boschi, pinete, faggete a perdita d’occhio lungo la vallata dell’Amendolea, sede di insediamenti della Magna Grecia. Qui comandano i Paviglianiti, un tempo affiliati alla cosca di Vincenzo Passaniti, un boss eliminato durante la seconda guerra di mafia perché ritenuto troppo vicino ai Rosmini, nemici dei De Stefano. I Paviglianiti sono riusciti a sottomettere anche altre cosche locali, come gli Stilo, i Gagliardi e i Rodà di San Lorenzo.
Nel novembre del 2001 Domenico «Mimmo» Paviglianiti, il boss dell’omonimo clan, è stato condannato all’ergastolo in Lombardia, dove si era trasferito assieme ad altri quattro fratelli, Angelo, Santo, Salvatore e Settimo. Quattro omicidi, un numero imprecisato di esecuzioni commissionate, quintali di cocaina importati da tutto il mondo, ma anche il sospetto di collegamenti con il terrorismo islamico. Per gli inquirenti le armi trovate in un covo della jihad islamica a Torino erano state vendute al clan Paviglianiti e poi, forse tramite un turco, erano finite nelle mani di un pericoloso latitante con passaporto yemenita coinvolto negli attentati contro le ambasciate americane in Tanzania e in Kenya. Non si è mai riusciti a capire come abbia fatto quell’arsenale a passare dalla ’ndrangheta alla jihad islamica.
In Lombardia i Paviglianiti hanno stretto legami con le famiglie più forti, come i Flachi, i Trovato, i Sergi, i Papalia, entrando in affari con i Latella, i Tegano, i Barreca, i Trimboli e gli Iamonte. Quando Natale Iamonte è stato arrestato nell’hinterland milanese si trovava a bordo di un’auto guidata da un uomo dei Paviglianiti.
Tra il 1990 e il 1992 i Paviglianiti sono stati coinvolti anche in una cruenta guerra di mafia che ha lasciato sul terreno decine di morti. Mimmo Paviglianiti si alleò con Pepé Flachi, Franco Coco Trovato e Antonio Schettini per punire il clan Batti che, disattendendo gli accordi, aveva cominciato a rifornirsi di eroina direttamente da corrieri turchi indipendenti. Cani sciolti che vendevano la droga a prezzi stracciati. Quando il trucco venne scoperto, il contrasto esplose violentemente. I Batti cercarono di uccidere Franco Trovato, ma nell’agguato di Bresso, il 15 settembre 1990, morirono due passanti innocenti, Pietro Carpita e Luigi Recalcati. Pochi giorni dopo, in una riunione a Corsico, alla quale partecipò anche Paviglianiti, venne deciso lo sterminio del clan Batti. Racconta il pm Armando Spataro: «In quegli anni si creò un’alleanza tra clan catanesi, napoletani e calabresi con continui scambi di favori e di sicari». Il 19 dicembre 1990 nel Varesotto venne ucciso Roberto Cutolo, il figlio dell’ex boss della Nuova camorra organizzata. Quattro giorni dopo, in Campania, venne eliminato Salvatore Batti, il boss che aveva tentato di raccogliere l’eredità di Renato Vallanzasca, il re della Comasina.
Alcuni collaboratori di giustizia hanno raccontato che altri esponenti del clan Batti vennero attirati in un impianto di sfasciacarrozze, uccisi e passati alla pressa, mentre erano ancora a bordo delle loro autovetture. Dallo scontro il clan Paviglianiti è uscito rafforzato.
Nel 1992 proprio contro i Paviglianiti sono scattate, per la prima volta in Lombardia, le nuove misure previste dalla normativa antimafia, approvata dopo le stragi di Palermo. Al clan originario di San Lorenzo vennero sequestrate case, terreni, contanti, preziosi e conti bancari per un valore di sei miliardi di lire.
Secondo gli inquirenti, ai Paviglianiti era legato anche Santo Maesano, arrestato a Palma di Maiorca nel maggio del 2004, mentre giocava a tennis nel residence più esclusivo di quella città. Maesano, grazie a Claudio Boscaro, un faccendiere svizzero, riusciva a riciclare montagne di denaro, proveniente dal traffico di droga.
Gli incontri tra Boscaro e Maesano avvenivano all’Hard Rock, un locale a due passi da plaza Colòn, a Madrid. Racconta Boscaro, riferendosi al boss di Roghudi: «Aveva dei grossi possedimenti in Calabria. Aveva usufruito tramite contatti politici di sovvenzioni sia regionali che statali, nonché di fondi della Comunità Europea. Voleva fare la stessa cosa anche in Spagna». Maesano era interessato ad aprire conti correnti in Svizzera, ma anche in Canada, oltre a mettere le mani su grossi appalti industriali in Africa e in altri Paesi. Si comincia con 50 milioni di lire, poi le somme aumentano. Ricorda ancora Boscaro che in un’occasione gli vennero consegnati a Milano 6 miliardi di lire in contanti, per un totale di 45-50 miliardi nel giro di poco tempo. Gestiva i conti correnti e i depositi da cui partivano i bonifici bancari verso istituti di credito brasiliani che servivano a pagare la cocaina ai trafficanti sudamericani. Boscaro tratteneva per sé il 4 per cento mentre il costo del trasporto incideva per l’1 per cento. Una commissione, anche questa pari all’1 per cento, veniva trattenuta dalle banche compiacenti. Gli investimenti spaziavano dal settore immobiliare all’acquisto di pietre preziose, con ramificazioni in mezzo mondo, dall’Africa al Brasile.
page-no="110" Altre inchieste hanno rivelato collegamenti dei Paviglianiti con trafficanti turchi, pachistani, peruviani e colombiani, ma anche con trafficanti d’armi in Belgio, Bulgaria e altri Paesi dell’Est europeo. Racconta il pentito Salvatore Annacondia: «Le armi venivano fatte affluire in Svizzera e da qui trasferite a bordo di grossi tir in Italia».
I Paviglianiti, nonostante il trasferimento a Cermenate, in provincia di Como, hanno continuato a tenere d’occhio quella fetta di terra ai piedi dell’Aspromonte da dove sono partiti, imponendo il pizzo e la guardiania a commercianti e agricoltori, accaparrandosi, anche, tramite prestanomi, numerosi appalti pubblici.
Tra Cardeto e Bagaladi, tra i ruscelli che scorrono dentro il cuore dell’Aspromonte, sono state scoperte diverse piantagioni di cannabis, l’oro verde del Sud. Secondo il rapporto della direzione centrale dei servizi antidroga, nel 2007 in Calabria sono state sequestrate 7250 piantine di cannabis.
A Marina di San Lorenzo, il 26 agosto 2006 è stato arrestato Demetrio Lo Giudice, esponente di primo piano dell’omonimo clan di Reggio Calabria, ricercato per traffico di droga.
Bova, Bova Marina e Palizzi
Quello di Bova, Bova Marina e Palizzi è un territorio che ha sempre fatto da cerniera tra le cosche della Locride e quelle di Reggio Calabria. Già sul finire dell’Ottocento, in questa zona imperversava la potente cosca di Filippo Velonà, un rozzo pastore di Staiti.9 Della stessa organizzazione facevano parte i Favasuli, i Versace, i Callea e i Romeo di Africo, i Maesano di Roghudi, i Borruto, i Talia, i Morabito e i Mollica di Casalnuovo, una frazione di Africo.
Scrivono i giudici nel 1896: «Tale società aveva un capo, dei caporioni che facevano da sottocapi ... un cassiere e un maestro di scherma ... manteneva varie gerarchie – picciotto di sgarro, di vigilanza, di azione, di onore – e aveva un gergo proprio». Tutti avevano l’obbligo di eseguire gli ordini del capo, che si trattasse di rubare o di ammazzare.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Bova Superiore fu testimone delle gesta di Vincenzo Romeo, il bandito romantico, ucciso il 17 agosto 1969 durante la festa in onore di Maria Vergine Assunta e dei patroni del paese, san Leo e san Rocco. Negli anni Settanta il potere passò nelle mani di Paolo Bruno Equisone, un giovane adottato dai Casile, nemici di Romeo, e «pupillo» del boss di Reggio Calabria Domenico Tripodo.10 Si racconta che a mettere in guardia Tripodo dal pericolo rappresentato dai De Stefano fu proprio Equisone: «Stanno uscendo fuori dal seminato» sentenziò. Fu anche il primo a rendersene conto. Venne giustiziato il 23 maggio 1976 a Bova, da killer legati alla famiglia Ferlito di Catania,11 contattati da Giacomo Lauro, boss di Brancaleone. Tre mesi dopo fu la volta di Tripodo.
Lo strascico fu violento. I Talia, fedeli a Equisone, il 18 aprile 1982 uccidevano Salvatore «Turi» Scriva, l’ex alleato che aveva scelto di schierarsi con i De Stefano. Lo scontro, che causò una ventina di morti, coinvolse anche gruppi mafiosi territorialmente limitrofi, come i Mollica-Morabito e i Palamara-Morabito, già divisi da una sanguinosa faida. I Vadalà-Scriva si allearono con i Mollica-Morabito. I Talia invece si schierarono con i Palamara-Morabito.
Lo scontro venne finanziato con il traffico di stupefacenti, nel quale entrambi gli schieramenti erano attivamente coinvolti. Il clan, guidato da Domenico Vadalà, aveva collegamenti con un gruppo dedito al traffico di droga in Valle d’Aosta e con esponenti del cartello di Calì.12 I Talia, invece, avevano rapporti con l’Argentina, la Colombia e il Brasile, ma soprattutto con la Turchia, attraverso un certo Cesuroglu Ishan, capace di garantire singole forniture di eroina che giungevano in Italia sotto forma di carichi del peso di centinaia di chilogrammi ciascuno.
Gli stessi canali usati per i traffici di droga venivano utilizzati anche per l’approvvigionamento di armi necessarie alla prosecuzione della sanguinosa faid...