I Buddenbrook
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I Buddenbrook

Decadenza di una famiglia

  1. 742 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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I Buddenbrook

Decadenza di una famiglia

Informazioni su questo libro

La decadenza finanziaria e morale di una famiglia commerciale di Lubecca attraverso quattro generazioni. Una saga appassionante e drammatica, il romanzo con cui il grande scrittore tedesco (1875- 1955) si impose all'attenzione del pubblico e della critica.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804578109
eBook ISBN
9788852013133

Parte ottava

(In onore di mio fratello Heinrich, l’uomo e lo scrittore)

1

Quando il signor Hugo Weinschenk, da qualche tempo direttore dell’assicurazione cittadina contro gli incendi, con la redingote abbottonata, i baffi neri e sottili che gli arrivavano con piglio serio e virile fin dentro gli angoli della bocca e il labbro inferiore un po’ cascante, attraversava a passo sciolto e sicuro di sé il grande androne per passare dagli uffici sulla strada a quelli sul retro, tenendo i pugni stretti dinanzi a sé e muovendo leggermente i gomiti sui fianchi, offriva l’immagine di un uomo attivo, benestante e autorevole.
Dall’altra parte c’era Erika Grünlich, ormai ventenne: una ragazza in boccio, alta, dalla carnagione fresca, carina, piena di forza e di salute. Se il caso voleva che scendesse le scale o passasse vicino alla balaustra nel momento in cui arrivava il signor Weinschenk – e il caso lo voleva spesso – il direttore alzava il cilindro sui corti capelli neri che cominciavano a ingrigire alle tempie, accentuava lo slancio dei fianchi stretti nella finanziera e salutava la ragazza con un’occhiata sorpresa e ammirata dei suoi occhi castani dallo sguardo ardito… e allora Erika scappava via, si sedeva da qualche parte nel vano di una finestra e piangeva un’ora intera per lo sgomento e la confusione.
La signorina Grünlich era stata educata alla disciplina sotto la sorveglianza di Therese Weichbrodt e i suoi pensieri non andavano molto lontano. Piangeva per il cilindro del signor Weinschenk, per il modo in cui sollevava e poi abbassava le sopracciglia vedendola, per il suo portamento estremamente regale e i suoi pugni oscillanti. Intanto sua madre, la signora Permaneder, vedeva più lontano.
Il futuro della figlia la preoccupava da anni perché Erika, a paragone di altre ragazze da marito, era svantaggiata. Non soltanto la signora Permaneder non andava in società, ma le era ostile. L’ipotesi che le famiglie di alto rango la considerassero inferiore a causa dei suoi due divorzi si era trasformata in qualche modo in un’idea fissa, e vedeva astio e disprezzo dove spesso probabilmente c’era solo indifferenza. Il console Hermann Hagenström, per esempio, quell’uomo onesto e di larghe vedute che la ricchezza rendeva sereno e benevolo, per strada l’avrebbe anche salutata se non glielo avesse proibito nella maniera più perentoria il contegno di lei che, con la testa gettata all’indietro, evitava di guardarlo in faccia, quella “faccia da paté di fegato d’oca” che, per usare una delle sue frasi più forti, “odiava come la peste”. Accadde così che anche Erika rimanesse estranea all’ambiente dello zio senatore, che non frequentasse i balli e avesse poche occasioni di fare conoscenze maschili.
Tuttavia il desiderio più ardente della signora Antonie, soprattutto da quando lei stessa aveva “chiuso bottega”, come diceva, era che sua figlia potesse esaudire le speranze che in lei, sua madre, erano andate deluse e facesse un matrimonio vantaggioso e felice che sarebbe tornato a onore della famiglia e avrebbe fatto dimenticare le vicissitudini materne. Tony desiderava ardentemente provare, soprattutto al fratello maggiore il quale negli ultimi tempi mostrava di avere così poche speranze, che la fortuna della famiglia non si era ancora esaurita, che la fine non era affatto vicina… La sua seconda dote, i diciassettemila talleri che il signor Permaneder aveva restituito con tanta coulanz, erano a disposizione di Erika, e non appena la signora Antonie, lungimirante ed esperta, si rese conto del tenero legame che cominciava a formarsi tra sua figlia e il direttore, subito cominciò a pregare il cielo che il signor Weinschenk le facesse una visita.
La fece. Si presentò al primo piano, fu ricevuto dalle tre donne, nonna, figlia e nipote, chiacchierò dieci minuti e promise di tornare nel pomeriggio all’ora del caffè per parlare un po’ senza formalità.
Accadde anche questo e impararono a conoscersi. Il direttore era originario della Slesia, dove il suo vecchio padre viveva ancora; ma la famiglia non sembrava avere importanza per lui e Hugo Weinschenk dava piuttosto l’impressione del tipico self-made man del quale aveva la consapevolezza di sé non innata, non del tutto salda, un po’ esagerata e diffidente, e infatti le sue maniere non potevano dirsi perfette e il suo modo di conversare era decisamente maldestro. Inoltre la finanziera dal taglio un po’ piccoloborghese mostrava qualche punto lucido, i polsini dai grandi bottoni di giaietto non erano perfettamente freschi e puliti e al dito medio della mano sinistra, in seguito a un qualche incidente, l’unghia si era completamente atrofizzata ed era nera come il carbone… uno spettacolo piuttosto spiacevole che però non impediva a Hugo Weinschenk di essere un uomo stimabilissimo, laborioso, energico, con dodicimila marchi correnti di reddito annuo, e agli occhi di Erika Grünlich addirittura un bell’uomo.
La signora Permaneder aveva colto e valutato subito la situazione nel suo insieme. Ne parlò apertamente con la vedova del console e con il senatore. Era chiaro che le parti avevano interessi coincidenti e complementari. Il direttore Weinschenk, come Erika, era privo di relazioni sociali; i due erano addirittura fatti per vivere insieme ed evidentemente destinati l’uno all’altra da Dio. Se il direttore, che si avvicinava ai quaranta e i cui capelli cominciavano a incanutire, voleva metter su famiglia, cosa che si addiceva alla sua posizione e corrispondeva alle sue risorse, il matrimonio con Erika Grünlich gli avrebbe permesso di entrare in una delle prime famiglie della città ed era adatto a promuovere il suo lavoro e a consolidare la sua posizione. Mentre, a proposito del futuro di Erika, la signora Permaneder poteva dirsi che se non altro era escluso che facesse la sua fine. Hugo Weinschenk non mostrava la minima somiglianza con il signor Permaneder e si distingueva da Bendix Grünlich per la sua qualità di funzionario con una posizione solida e uno stipendio fisso, il che non escludeva ulteriori sviluppi di carriera.
Per farla breve: c’era molta buona volontà da entrambe le parti, le visite pomeridiane del direttore Weinschenk si ripeterono in rapida successione e in gennaio – il gennaio del 1867 – egli si permise con poche, concise, virili e schiette parole di chiedere la mano di Erika Grünlich.
Da quel momento entrò in famiglia, cominciò a partecipare alle “giornate dei ragazzi” e fu accolto con cortesia dai parenti della fidanzata. Senza dubbio si rese subito conto di non essere esattamente al posto giusto tra loro; ma nascose quella sensazione con un atteggiamento tanto più ardimentoso, e la vedova del console, zio Justus, il senatore Buddenbrook – con l’ovvia esclusione delle signore Buddenbrook della Breitestraße – furono pronti a mostrare nei confronti di quell’operoso funzionario, di quell’uomo socialmente inesperto che svolgeva un duro lavoro, un’indulgenza piena di tatto.
Era necessaria; infatti bisognava di continuo rompere con una frase vivace e divagante il silenzio che calava sulla famiglia riunita a tavola nella sala da pranzo quando il direttore dedicava un’attenzione troppo impertinente alle guance e alle braccia di Erika, per esempio, o quando nel bel mezzo di un discorso si informava se l’orange-marmelade fosse una torta – “torrrta” diceva in tono impertinente – o quando esprimeva l’opinione che Romeo e Giulietta fosse un dramma di Schiller… frasi che proferiva con grande vivacità e risolutezza, stropicciandosi spensieratamente le mani, il busto appoggiato di sbieco contro lo schienale.
La persona con cui si intendeva di più era il senatore, che parlando con lui sapeva pilotare con sicurezza la conversazione verso la politica e gli affari evitando il disastro. Ma i suoi rapporti con Gerda Buddenbrook erano disperanti. La personalità di quella signora lo sbalordiva al punto da renderlo incapace di trovare un argomento di conversazione che potesse durare anche due minuti soltanto. Poiché sapeva che suonava il violino e ne era rimasto molto impressionato, a ogni incontro del giovedì si limitava a rivolgerle la stessa scherzosa domanda: “Come sta il violino?”. Ma dopo la terza volta la moglie del senatore smise di rispondergli.
Quanto a Christian, osservava il nuovo parente arricciando il naso e il giorno dopo imitava in ogni dettaglio le sue maniere e il suo modo di parlare. A Oeynhausen il figlio minore del defunto console Johann Buddenbrook era guarito dai reumatismi articolari; ma gli era rimasta una certa rigidità alle giunture, e il “tormento” ricorrente al lato sinistro – lì dove “i nervi erano troppo corti” – oltre a tutti gli altri disturbi ai quali si sentiva esposto: difficoltà di respiro e di deglutizione, irregolarità del battito cardiaco e tendenza a mostrare i sintomi della paresi, o timore di esserne colpito – non erano affatto scomparsi. Anche il suo aspetto non era certo quello di un uomo che non ha ancora compiuto quarant’anni. Aveva la testa completamente calva; solo sulla nuca e sulle tempie restava una traccia dei suoi sottili capelli rossicci, e i piccoli occhi rotondi che vagavano con febbrile serietà erano sempre più infossati nelle orbite. Ma ancora più poderoso e ossuto del solito, il suo gran naso gibboso sporgeva tra le guance magre e pallide, sopra i folti baffi biondorossicci che gli coprivano la bocca… E i calzoni di solida ed elegante stoffa inglese gli ciondolavano intorno alle gambe magre e storte.
Da quando era tornato, occupava come in passato una stanza che dava sul corridoio al primo piano della casa materna, ma passava più tempo al club che nella Mengstraße, dove non gli rendevano la vita tanto gradevole. Rieckchen Severin infatti, una tarchiata campagnola ventisettenne dalle guance rosse e screpolate e le labbra tumide, subentrata a Ida Jungmann nel governo della servitù e della casa dell’anziana signora, con la tipica concretezza dei contadini aveva capito che quel nullafacente raccontatore di storie, sciocco, quando non era malaticcio, un uomo che la persona davvero importante, il senatore, sfiorava appena con lo sguardo inarcando un sopracciglio, non meritava tanti riguardi, e perciò trascurava senza problemi le sue esigenze. «Eh, signor Buddenbrook!» diceva. «Adesso non ho tempo per lei!» E Christian la guardava arricciando il naso, come a dire: Ma non ti vergogni?… e se ne andava per la sua strada con le giunture rigide.
«Credi che io trovi sempre una candela in camera?» diceva a Tony… «Quasi mai! La maggior parte delle volte devo andare a letto con un fiammifero…» O magari dichiarava – poiché il denaro per le piccole spese che sua madre poteva ancora concedergli era scarso –: «Brutti tempi!… Eh sì, una volta le cose erano molto diverse! Cosa credi?… ora spesso devo farmi prestare cinque scellini per la polvere dentifricia!».
«Christian!» esclamava la signora Permaneder. «Che mancanza di decoro! Con un fiammifero! Cinque scellini! Almeno non parlarne!» Era scandalizzata, indignata, offesa nei suoi sentimenti più sacri; ma questo non cambiava le cose…
I cinque scellini per la polvere dentifricia Christian li chiedeva in prestito al suo vecchio amico Andreas Gieseke, dottore nelle due leggi. Era stata un’amicizia fortunata, che gli faceva onore; l’avvocato Gieseke infatti, quel suitier che sapeva salvaguardare il proprio decoro, l’inverno passato, quando il vecchio Kaspar Oeverdieck si era spento dolcemente e il dottor Langhals aveva preso il suo posto, era stato eletto senatore. Ma questo non aveva influenzato il suo stile di vita. Si sapeva che l’avvocato, pur possedendo in seguito al matrimonio con una certa signorina Hunäus una grande casa nel centro della città, era anche proprietario di una piccola villa coperta di rampicanti e arredata in modo gradevole nel sobborgo di St. Gertrud in cui abitava tutta sola una signora di origini incerte, ancora giovane e straordinariamente graziosa. Sopra la porta di quella casa, in leggiadre lettere dorate, spiccava la parola “Quisisana” e in tutta la città la tranquilla casetta era conosciuta con quel nome, che del resto veniva pronunciato con le “s” molto dolci e le “a” molto cupe. Ma Christian Buddenbrook, in quanto migliore amico del senatore Gieseke, aveva ottenuto libero accesso a Quisisana e le cose gli erano riuscite bene né più né meno come ad Amburgo con Aline Puvogel e in analoghe situazioni a Londra, a Valparaíso e in tanti altri posti al mondo. Aveva “raccontato qualche storiella”, era stato “un po’ gentile”, e adesso frequentava la casetta verde con la stessa regolarità del senatore Gieseke in persona. Se quest’ultimo sapesse e fosse d’accordo, resta da vedere; fatto sta che Christian Buddenbrook trovava a Quisisana senza spendere un soldo gli stessi piacevoli svaghi che il senatore Gieseke doveva pagare a caro prezzo con il denaro sonante di sua moglie.
Poco dopo il fidanzamento di Hugo Weinschenk con Erika Grünlich, il direttore aveva proposto al cognato di entrare negli uffici dell’assicurazione, e in effetti Christian aveva lavorato due settimane al servizio dell’istituto assicurativo contro gli incendi. Ma poi purtroppo si era capito che il lavoro non aggravava solo il tormento al lato sinistro, ma anche tutti gli altri suoi indefinibili malesseri e che inoltre il direttore era un capo estremamente collerico, tanto che a causa di un errore non si era fatto scrupolo di chiamare il cognato “foca”… al che Christian era stato costretto ancora una volta a lasciare il posto.
Quanto a madame Permaneder, era felice, ed esprimeva il suo umore radioso in aperçus del tipo: di tanto in tanto anche la vita terrena ha i suoi lati positivi. E in effetti in quelle settimane, che nella loro vivificante operosità, nei loro molteplici progetti, nelle preoccupazioni per la casa e nella febbrile preparazione del corredo le ricordavano in modo fin troppo chiaro i giorni del suo primo fidanzamento per non farla sentire più giovane e riempirla di illimitate speranze, in effetti in quelle settimane Tony rifiorì. Molta della graziosa esuberanza della giovinezza riapparve sul suo viso e nei suoi movimenti, anzi, profanò l’atmosfera di un’intera “serata di Gerusalemme” con una tale sfrenata gaiezza che persino Lea Gerhardt lasciò cadere il libro del suo antenato e si guardò intorno con i grandi occhi, ignari e diffidenti, di sorda…
Erika non si sarebbe separata dalla madre. Con il consenso del direttore, anzi, per suo desiderio era stato deciso che la signora Antonie – almeno in un primo momento – avrebbe abitato con i Weinschenk e avrebbe assistito la figlia inesperta nell’organizzazione della casa… e fu proprio questo a suscitare in lei la deliziosa sensazione che non fosse mai esistito un Bendix Grünlich, mai un Alois Permaneder, che tutti gli insuccessi, le delusioni e i dolori della sua vita si volatilizzassero, come se fosse possibile ricominciare da zero con rinnovate speranze. Certo, esortava Erika a essere grata a Dio che le faceva dono dell’uomo amato mentre lei, sua madre, aveva dovuto soffocare con la ragione e il senso del dovere la sua prima tenera simpatia amorosa; e certo fu il nome di Erika quello che scrisse con mano resa incerta dalla gioia nelle carte di famiglia, accanto al nome del direttore… ma era lei, proprio lei, Tony Buddenbrook, la vera sposa. Era lei che poteva saggiare ancora una volta con mano esperta portiere e tappeti, che poteva rovistare nei negozi di mobili e di arredamento, che poteva andare a vedere e affittare una casa signorile! Era lei che doveva lasciare di nuovo la spaziosa e timorata casa paterna e smettere di essere solo una donna divorziata; a lei si offriva ancora una volta la possibilità di alzare la testa e iniziare una nuova vita, tale da destare l’attenzione di tutti e accrescere la reputazione della famiglia… Anzi, non era un sogno? Entrarono in scena le vestaglie! Due vestaglie per lei e per Erika, di morbido tessuto a maglia, con larghi strascichi e file compatte di fiocchi di velluto, dallo scollo fino ai piedi!
Ma le settimane passavano e il periodo di fidanzamento di Erika Grünlich si avviava alla fine. La giovane coppia aveva fatto visita a poche famiglie perché il direttore, da persona seria, dedita al lavoro e inesperta di cose mondane qual era, intendeva dedicare le ore libere all’intimità familiare… un pranzo di fidanzamento aveva riunito Thomas, Gerda, la coppia di promessi sposi, Friederike, Henriette e Pfiffi Buddenbrook con gli amici più stretti del senatore nella grande sala della casa nella Fischergrube dove ancora una volta destò meraviglia che il direttore non la finisse più di toccare il collo nudo di Erika… e le nozze si avvicinarono.
Come un tempo, quando era stata la signora Grünlich a portare il mirto, il teatro della cerimonia nuziale fu il loggiato. La signora Stuht della Glockengießerstraße, la stessa che frequentava le famiglie di più alto rango, aveva aiutato la sposa a sistemare le pieghe dell’abito di raso bianco e a fissare la coroncina di fiori, il senatore Buddenbrook fu il primo testimone della sposa e l’amico di Christian, il senatore dottor Gieseke, il secondo, due ex compagne di pensionato di Erika fecero da damigelle, il direttore Hugo Weinschenk aveva un aspetto virile e imponente e incedendo verso l’altare improvvisato pestò solo una volta il velo fluttuante di Erika; il pastore Pringsheim, le mani giunte sotto il mento, celebrò con tutta la trasfigurata solennità che gli era propria e ogni cosa si svolse secondo gli usi e l’importanza del caso. Quando furono scambiati gli anelli e nel silenzio risuonarono il “sì” grav...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Thomas Mann
  4. Bibliografia
  5. I BUDDENBROOK
  6. Parte prima
  7. Parte seconda
  8. Parte terza
  9. Parte quarta
  10. Parte quinta
  11. Parte sesta
  12. Parte settima
  13. Parte ottava
  14. Parte nona
  15. Parte decima
  16. Parte undicesima
  17. Copyright