Siamo seduti in business, sedili grandi, bicchieri di vetro e tovaglioli veri. Non avevo voglia di viaggiare in economica, non su questi aerei scalcinati… non avevo voglia di sedili stretti, di hostess che non ti danno retta. Ho voglia di allungare le gambe. Non è un viaggio di piacere. È un ricovero. È come quando si è malati, se te lo puoi permettere scegli una clinica, una stanza tua, un’infermiera che può sembrare una cameriera d’hotel e una tenda da tirare per tener lontano il mondo. Credevo di trovare un aereo vuoto. Chi vuoi che abbia voglia di sorvolare una guerra? Invece di gente ce n’è. Uomini che andranno in quei locali di luci opalescenti e di ragazze bianche come burro che hanno appena cominciato a sporcarsi. La svendita è agli inizi, fa gola arrivare per primi ad arraffare la purezza. Uomini che poi rientreranno a casa con qualche scatola di caviale, qualche icona. E poi russi che tornano a destinazione. Come i due accanto a noi, con la valigetta ventiquattrore, nera, rigida, che non hanno messo nelle cappelliere ma sotto il sedile, controllata dai piedi, da scarpe nere e lucide. Scarpe italiane per due uomini d’affari dell’ex Unione Sovietica. Cosa saranno venuti a vendere? Pezzi del loro Paese in via di smobilitazione… oleodotti, palazzi, miniere, testate nucleari. Per un attimo immagino che nelle valigette abbiano penne che uccidono, fiale di cianuro, come le spie venute dal freddo dei film americani. Ma la guerra fredda s’è sciolta come il resto, questi due al massimo si saranno riportati qualche pezzo di parmigiano.
La tendina che ci separa dall’economica è tirata. I russi hanno bevuto molte coppe di champagne senza cambiare espressione né tono di voce.
La hostess che si occupa di noi ha una faccia grassoccia e il naso corto, la bustina che porta in testa, troppo piccola per i capelli cotonati, è sul punto di cadere. Sembra una barchetta sulle onde. Ci versa da bere con un certo charme, allungando il braccio grasso con grazia, senza versare una goccia.
«More, please.»
Ho atteso tanto questo momento e adesso non so più perché. Ho fatto di tutto per salire su questo aereo, e adesso penso che se qualcuno aprisse il portellone, un pazzo, un dirottatore, scenderei anch’io, nel bianco farinoso delle nubi, nel freddo dell’altitudine.
È stata una decisione improvvisa, ho fatto io i biglietti, ho controllato che i passaporti non fossero scaduti. Andiamo a vedere, a capire… cosa ci costa?
È stata una scelta d’amore, diceva la donna in quell’articolo letto dal parrucchiere, ho aiutato un’altra donna come me, non sono stata un’incubatrice, sono stata una cicogna. Bevo champagne. More, please. E nel mollume del bere e dell’altitudine mi flagello un po’. Se è una scelta d’amore perché stiamo andando in un Paese impoverito e allo sbando? I romani, di là, parlano a voce alta, che differenza c’è tra me e quel gruppo di puttanieri? Anch’io sono in cerca di una donna, di un ventre.
«Ascolta…»
Diego si stacca un auricolare e me lo mette nell’orecchio. Sono i Rem. Ascoltiamo insieme un po’ di Losing my religion.
… That’s me in the corner… that’s me in the spotlight…
«Stai tranquilla.»
Poi lui dorme. Gli guardo la mano. Che cos’è una mano? Chi ci ha tagliato così?
Una donna si alza, apre la cappelliera, tira giù una sacca. Sta per cadermi addosso, perché adesso c’è un po’ di turbolenza.
«Mi scusi.»
Ha una faccia simpatica. Anche suo marito dorme. Un cranio con pochi capelli grigi, la bocca aperta contro il cuscino che ci hanno dato all’inizio del volo.
È seduta dietro di me, dopo un po’ mi tocca la spalla.
«Ha paura di volare, lei?»
«No, ho paura della terra.»
«Come dice?»
Che cazzo dico? Non lo so. È lo champagne…
«Ho paura dell’atterraggio» mi correggo.
La donna è di quelle che hanno voglia di parlare.
«A me l’atterraggio non fa paura, perché si vedono già le case.»
C’è un posto vuoto nella fila accanto alla nostra, la donna si alza e si trasferisce lì. Non è giovane, non è vecchia, è nella terra di mezzo. Ha un bel sorriso. Ha aperto la borsa, ha tirato fuori qualcosa. Prima un burro di cacao, perché le labbra in aereo si seccano, ci ha fatto caso?, e poi una scatola che adesso apre. Tira fuori un paio di scarpe da ginnastica con un bordo rosa, da bambina.
«Le piacciono?»
Annuisco.
«Le ha prese mio marito a New York, lui ci va spesso per lavoro.»
La donna se le porta al naso, le annusa, le carezza.
«Guardi, c’è una sorpresa…»
Sorride, penso che forse ha qualche problema, è di quelle che prendono psicofarmaci, che si rintronano.
«S’illuminano… vede?»
Infila le mani nelle scarpe, si china fino alla moquette e muove le mani, simula passi. In effetti le scarpe hanno piccole luci che s’accendono nella suola di gomma trasparente.
«In Italia non ci sono ancora…»
«Sono per sua figlia?»
Risponde dopo un po’, annusa ancora quelle scarpe, forse hanno un profumo di fragola.
«Non è ancora una figlia…»
Credo che non aspettasse altro. È una di quelle che nei viaggi si guardano intorno e cercano l’imbuto dove infilare la loro voce. Stamattina ha trovato me. Il marito dorme, ha imparato a difendersi, a lasciar morire la testa in un cuscino. Mi sciroppo la storia. Lei e il marito hanno preso per due estati consecutive una bambina di Chernobyl, quelle che vengono a ripulirsi dalle radiazioni, è un’orfana. L’orfanotrofio aveva bisogno di un frigorifero e di un proiettore, loro glieli hanno regalati. Sono entrati in amicizia con la direttrice. Adesso vanno a trovare la bambina, Annuška, e lei le porta quelle scarpe in regalo. Sono troppo vecchi, non possono averla in adozione, ma sperano in un affido.
«Il nostro avvocato ha parlato con un avvocato ucraino.» Muove le dita, fa scivolare il pollice sotto l’indice e il medio: «Soldi, è solo una questione di soldi. Lì con i soldi fai tutto.»
Questa Annuška ha sette anni e loro possono adottare solo un bambino dai nove anni in su. Adesso tira fuori altre due dita, le brandisce come piccoli coltelli, la voce è un sussurro querulo.
«Due anni… cosa sono due anni?»
Muove ancora quelle scarpe, scuote la testa due volte, con uno scatto nervoso che sembra un tic, sta scacciando qualcosa, un pensiero ricorrente che deve scacciare spesso… è un gesto che riconosco. C’è un codice comune a ogni madre mancata.
«Due anni… Ho cercato anche di contraffare i miei documenti, non mi vergogno a dirlo… ti costringono ad andare contro la legge…»
Adesso mi sembra una brutta copia di me stessa.
Chiedo ancora champagne. Intanto mi domando se su questo aereo ho incontrato la donna che diventerò, se la vita è quella che sembra o è un percorso di segni luminosi come queste scarpe del cazzo, come la lucetta che indica l’uscita.
La donna parla, parla…
«… Annuška, quando è arrivata, non aveva mai visto un armadio, e si è spaventata, si è nascosta sotto il letto. Abbiamo smontato l’armadio, le abbiamo fatto piegare i vestiti sulla sedia com’era abituata a fare. Quest’estate ha rivoluto l’armadio, lo abbiamo tirato su dalla cantina, lo abbiamo rimontato. Mio marito ha sudato come un maiale, crepa, ho pensato. È stata la giornata più bella della nostra vita. Annuška rideva, non aveva più paura, voleva entrare nell’armadio, bussare e vedere noi che aprivamo, che la liberavamo…»
La donna si curva e muove di nuovo quelle scarpe sulla moquette, quelle suole che si accendono con il movimento. E mi sembra per un attimo di conoscerla, questa Annuška che non conosco. La vedo che corre con le sue scarpe americane. Buone per la notte, per non perdersi. Mi ricordo di quel giorno, quando accompagnai Diego che andava a fotografare i bambini appena arrivati da Chernobyl in quella colonia di Ostia… mi parvero fosforescenti.
«E lei?» chiede la donna.
Tocco il bracciolo del sedile, il buco nero di una bruciatura di sigaretta.
«Lei ha figli?»
Spingo il dito in quella vecchia imbottitura.
«Non ancora.»
Sorride, sospira…
«Siete giovani, avete tempo.»
Diego ha riaperto gli occhi, controlla che ore sono, tira su le braccia, si stiracchia.
«Suo marito sembra un ragazzino…»
Diego sorride.
Sente la donna che dice:
«E dove andate di bello?»
È lui che risponde sulla mia nuca china.
«In vacanza.»
Ci pensa ancora un po’, sorride.
«Sul Mar Nero.»
All’aeroporto di Kiev incontriamo la nostra interprete, Oxana, una ragazza magra e alta. Sta lì, rigida in mezzo alla folla degli arrivi, stringe il cartello con il nostro cognome scritto a penna. Ha un’espressione seria e la postura ieratica di un milite. Quando ci vede si rilassa, le andiamo incontro, le diamo la mano. Ci sorride appena, abbassando un po’ la schiena, accennando un inchino. Ha capelli legati, un cappotto azzurro con le maniche corte sui polsi nudi, una borsa di corda a tracolla. Ci chiede come è andato il viaggio. Parla un buon italiano, con quell’accento che a noi fa un po’ ridere. Camminiamo appresso alla sua coda tra un anaconda fluttuante di persone malmesse che non hanno l’aria di dover partire, sono lì a prendersi il caldo che fuoriesce dalle griglie dei caloriferi. Chiedo a Oxana cosa c’è in quei pacchi abbandonati accanto all’uscita.
«Posta…»
«E non la consegnano?»
«Sì, prima o poi lo faranno…»
Un uomo con i baffi s’affaccia da un vecchio pullmino Fiat, fa retromarcia, ci apre lo sportello, ci prende i bagagli. Ci sediamo tra tutti quei sedili ...