Il 17 marzo 1683 Hubert Macary scrutava il mare, in attesa dei vascelli in arrivo. Solo lui e l’amico Francis Levert sapevano che al largo di Roatán stava per apparire la flotta più imponente che i Fratelli della Costa avessero mai allestito. Ben diciassette velieri, inclusi vari brigantini da una trentina di cannoni ciascuno.
Appoggiato con il gomito a una torretta di guardia, la gamba sinistra su un cannone arrugginito, Hubert pregustava lo spettacolo. Per assaporarlo si metteva nei panni degli spagnoli di qualche città costiera, quando al largo apparivano i pirati.
Ecco decine di vele all’orizzonte. Le campane di tutte le chiese suonavano l’allarme. Le navi sembravano lontane ma, se avevano il vento a favore, erano velocissime. Tempo un quarto d’ora e iniziavano a cannoneggiare il forte della città . Tempo mezz’ora e uomini assatanati, portati a terra dalle scialuppe, sbarcavano urlando in cerca di una preda qualsiasi.
Le vittime tentavano di radunare i beni più preziosi e di correre a nascondersi nella foresta. Alcuni riuscivano a fare in tempo, molti altri no. I predoni, che inalberavano simboli di morte, travolgevano la guarnigione e si gettavano sui civili. Era l’inizio di un incubo. Torture, stupri, devastazioni. Dove era sorto un abitato progredito, costruito sul modello delle migliori città di Spagna, non restavano che macerie fumanti.
Era accaduto a Maracaibo, sotto il comando dell’Olonnais; a Panamá, sotto Henry Morgan; a Campeche, innumerevoli volte; in tanti centri in apparenza ben difesi della Nuova Spagna, di Cuba, del Venezuela e del Caribe. Però nessuno aveva mai osato attaccare Veracruz, ritenuta imprendibile. Proprio a Veracruz era diretta la flotta in avvicinamento.
«Secondo me è un’impresa folle» disse Levert, sbucato dalle fitte piantagioni di palmizi e apparso al fianco di Macary. Ingollava sorsate da una bottiglia di rhum. «Veracruz è notoriamente imprendibile. Mi stupisce che il cavaliere De Grammont abbia potuto concepire un’impresa del genere.»
Hubert Macary si tolse la pipa dalle labbra e, le dita strette sul fornello di terracotta, emise uno sbuffo di fumo. «Ho i tuoi stessi dubbi, Francis, ma De Grammont è una persona equilibrata. Se decide una spedizione è perché sa che la porterà al successo. In questo caso è riuscito a coinvolgere anche Lorencillo e Van Hoorn. Oltre ad Andrieszoon e a parecchi capitani meno importanti. I Fratelli della Costa saranno al massimo della loro potenza.»
Levert non era molto convinto. «Veracruz non è una città come le altre. È la capitale della Nuova Spagna, e ogni merce che si traffica passa di lì. Ha magazzini riforniti, forti e cannoni… La flotta che stiamo aspettando tarda a comparire. Forse non è un caso.»
Prese la pipa che Macary gli porgeva. Per qualche istante aspirò il fumo acre e aromatico del tabacco olandese e contemplò il mare. L’isola di Roatán era un gioiello naturale. Spiagge bianchissime, mare trasparente, vegetazione folta. Cale nascoste come quella in cui si trovavano, adatte a sbarchi clandestini. E un cielo tanto azzurro che accecava.
«Per me si sono persi» borbottò Levert.
«Niente affatto!» gridò Macary, con l’euforia di un ragazzino. «Eccola là , la Filibusta in avvicinamento! Aguzza gli occhi sulla linea dell’orizzonte. È uno spettacolo!»
In effetti, all’improvviso apparve al largo una squadra di navi di varia stazza, in formazione a cuneo. Il vento a favore gonfiava le loro vele quadrate o latine, il mare si frangeva sotto le polene. Non avevano bandiere. Gli scafi parevano volare sopra i banchi di corallo, manovrando con agilità fra gli scogli. Precedevano la flotta quattro brigantini a tre alberi, detti a palo, che il peso dei molti cannoni non rallentava. Al seguito, tutto un campionario della navigazione caraibica. Golette, sloop, balandras, maone. Navi leggere, che i pirati apprezzavano per la loro velocità . Oltre a due galeoni dalla stazza enorme, sfondati in vari punti delle fiancate, con la velatura lacera. Erano trascinati da lance, a furia di remi.
«Ma sono i galeoni a cui il capitano Lorencillo voleva tendere un agguato!» esclamò Levert. «Il Nuestra Señora de Consolación e il Nuestra Señora de Regla! È da due settimane che li aspetta!»
Macary borbottò: «Si vede che li ha presi De Grammont. Lorencillo non ne sarà affatto contento». Alzò le spalle. «Eppure bisogna che lo avvertiamo. Vieni.»
I due uomini lasciarono la collina su cui si ergeva la torretta di guardia e scesero rapidi il sentiero che conduceva al piano, inoltrandosi tra nopales irti di spine e palmizi. Questi ultimi erano stati minoritari, nella flora locale, finché gli spagnoli non avevano deciso di importarne semi e pianticelle dalla costa pacifica. Speravano che Roatán sarebbe stata loro per sempre. Si ingannavano. L’isola era troppo ricca e bella per non suscitare concupiscenze. Era stata in fasi alterne spagnola o inglese, contesa e conquistata a fil di spada. Attualmente, nel 1683, era dominio di re Carlo II d’Inghilterra, ma il suo controllo era precario. Situazione ideale perché la Filibusta ne facesse uno dei suoi anfratti prediletti, favorito dalle molte insenature.
Fu in una di queste che Macary e Levert sbucarono, col fiatone dovuto alla corsa. Tra acque verdi, che riflettevano la vegetazione, un brigantino dalle vele ammainate galleggiava pigro. Era il La Francesa, catturato da Lorencillo agli spagnoli. Un veliero superbo, malgrado la piccola stazza, di recente carenato a terra, come si scopriva dal lucido delle fiancate, messe a nuovo, e dalla solidità degli alberi. Quello di trinchetto issava, sopra la coffa più alta, la Jolie Rouge (per gli inglesi Jolly Roger), in passato effettivamente rossa, ma adesso principalmente nera. Vi erano ricamati in bianco un teschio e due tibie incrociate, sopra una clessidra vuota per metà . Quasi a indicare il tempo di vita rimasto agli equipaggi dei galeoni spagnoli, prede di selvaggi assetati di sangue.
Sulla battigia era arenata una scialuppa. «Metti la barca in mare» disse Hubert a un rematore. «Si va a bordo.»
«Sì, secondo ufficiale» rispose l’interpellato.
Tra i Fratelli della Costa, la confraternita di pirati che aveva base nell’isola di Tortuga e altri approdi in tutto il mar dei Caraibi, le gerarchie erano più o meno le stesse della marina militare o mercantile francese. C’erano dunque un primo ufficiale (nel caso del La Francesa, Philippe Callois), un secondo ufficiale (Macary) e, figura chiave, un nostromo o contramastro, che fungeva da tramite fra l’equipaggio e i suoi capi. Le somiglianze finivano lì, perché gli ufficiali delle navi da guerra o commerciali avevano sui sottoposti poteri di vita o di morte, mentre tra i filibustieri, per essere obbediti, dovevano avere il gradimento della ciurma. Lo si guadagnava per coraggio comprovato e per comportamento dignitoso. Una regola cui doveva sottostare lo stesso capitano, spesso eletto dai marinai quando non era proprietario del vascello, ma passibile di destituzione, e in qualche caso di pena capitale, se si dimostrava inadeguato alla propria funzione.
A furia di remi Macary e Levert furono condotti sotto la fiancata del La Francesa. Per essere un semplice brigantino, con due alberi dalle vele quadrate e il terzo che reggeva la randa, si presentava possente. Dieci cannoni per lato, un castello di poppa molto alto, una prua affusolata. Dall’impavesata fu calata una biscaglina dalle stanghe di corda e dai pioli di legno. I due pirati si inerpicarono con agilità . Sul ponte furono investiti dal solito lezzo di catrame, di pece e di salmastro. Vi erano abituati, ma dopo giorni passati all’aria pura, il fetore tipico di ogni veliero risultava vomitevole.
Venne loro incontro, sbucando dalla chiesuola della bussola, Philippe Callois, il primo ufficiale. Vestiva con una certa eleganza. Tricorno, camicia a sbuffo, reticella che tratteneva i folti capelli neri, abito ricamato d’argento. E al fianco la classica cazoleta toledana. Un’arma troppo lunga per essere efficace in un corpo a corpo, ma segno distintivo di chi vantava un rango privilegiato.
«Novità , da terra?» domandò. «De Grammont è in vista?»
«Sì» rispose Macary con un certo imbarazzo. «Però c’è una notizia non buona. Ha preso lui i due galeoni che aspettavamo.»
Callois inarcò le sopracciglia fini. Era un uomo dal viso magro, con un tratto di distinzione accentuato dai sottili baffi castani e da un pizzo tagliato corto, esattamente triangolare. «Questa non ci voleva. Lorencillo non la prenderà bene. Aspettatemi qui.»
Macary appoggiò la schiena su una sartia, Levert sedette sul bastingaggio, curvo in avanti. Attorno fervevano le attività cui ogni marinaio, quale che fosse il veliero, si dedicava dall’alba al tramonto, un po’ rallentate solo dal fatto che il La Francesa si trovava alla fonda. C’era chi ricuciva vele strappate, chi intrecciava cordami, chi ricamava bandiere fasulle delle principali potenze europee. Erano tutti uomini giovani, nerboruti, aiutati da qualche schiavo e da alcuni indigeni arawacos o miskitos. La maggior parte dei filibustieri era però impegnata a lavare il ponte: un’attività insensata, visto che un solo giorno di navigazione avrebbe reso necessaria un’altra ripulita. L’importante era tenere l’equipaggio impegnato e spremere le squadre nei turni di quattro ore cui erano costrette. Una filosofia che i capitani fuorilegge condividevano con i loro colleghi fedeli all’ordine costituito.
Prima che Callois riapparisse, si udì provenire dai recessi del quadrato di poppa una sfilza di imprecazioni. «Diavolo maiale, anche questo bisognava vedere! De Grammont che mi soffia la preda! Ma porco d’un satanasso!»
«Ecco Lorencillo» bisbigliò Macary a Levert. «Stai attento. Quando è in collera è capace di qualsiasi cosa.»
Il più temuto dei capitani della Filibusta sbucò dal quadrato a grandi passi, una mano sull’elsa della spada, l’altra che gesticolava. Gli occhi azzurri, contrastanti con la carnagione scura, a sua volta antitetica ai lunghi capelli biondi, erano imbizzarriti. Laurens Cornelius de Graaf somigliava in quel momento al demonio che stava insultando.
«Ah, eccoli qua i due imbecilli!» esclamò, portandosi di fronte al secondo ufficiale e a Levert, che aveva funzioni di timoniere. «Aspetto per due settimane l’arrivo di galeoni carichi di mercanzia, vi affido la vigilanza, e voi mi fate sapere che sono già stati catturati!»
Macary non si scompose. Tolse con rispetto il tricorno, mostrando la bandana rossa che gli teneva unita la folta capigliatura castana. Piegò il capo sul petto, comprimendovi il berretto. «Capitano, non è colpa nostra. Non potevamo sapere ciò che accadeva per mare. Evidentemente il cavaliere ha intercettato le vostre prede. Cosa potevamo farci?»
«Scuse! Sempre scuse!» urlò Lorencillo, esasperato; ma si vedeva che la sua ira si stava ridimensionando. «L’ordine era di mandare i pescatori per mare, da usare quali spie. Porco d’un diavolo, non hanno visto nulla?»
Ancora chino, Macary parlò con voce quieta e convincente. «No, mio capitano. I pescatori non possono spingersi troppo al largo. La cattura dei galeoni spagnoli deve essere avvenuta a molta distanza da qui. Nessuno la prevedeva.»
Lorencillo era chiaramente convinto, tuttavia la sua irritazione perdurava. Si rivolse brusco a Callois. «Philippe, si salpa. Andiamo incontro alla flotta in arrivo. De Grammont mi sentirà , quel miscredente! Chi si crede di essere, il dannato damerino, per rubarmi un carico?» Girò uno sguardo di fuoco su Macary e Levert. «Quanto a voi due, forse pensate di essere in viaggio di piacere. Muovete le chiappe, fate sciogliere le vele. La vostra quota di bottino l’avrete solo se il cavaliere ci restituirà il maltolto.»
Appena Lorencillo si fu allontanato, Macary bisbigliò a Levert: «Ci è andata bene. Quell’uomo è imprevedibile».
Molto inferiore al compare per statura, Levert si alzò sui tacchi degli stivali, per parlargli all’orecchio. «Anche noi siamo imprevedibili.»
Callois, nervoso, batté le mani. «Avete sentito l’ordine del capitano, no? Si salpa. Hubert alle vele, Francis alla barra del timone. Entro mezz’ora voglio il La Francesa in mare, via da questa baia di merda.»
Il La Francesa, tutte le vele al vento, pareva più un gabbiano che un brigantino. Planava sulle onde, si immergeva, si risollevava. Fendeva fiotti di schiuma e ne generava di nuovi, facendo fuggire i banchi di pesci multicolori che si scorgevano sotto l’acqua trasparente. Era spinta da un vento favorevole di nordovest, che i controvelacci spiegati, le dicontre, i coltellacci raccoglievano e trasformavano in andatura, come avvertissero la furia di Lorencillo.
Questi se ne stava in cima al cassero, a braccia conserte, e solo di tanto in tanto abbaiava qualche ordine a Callois, che lo trasmetteva al timoniere. Aveva al suo fianco Charles Ruinet, vecchio compare di scorrerie e amico personale. Un uomo dal viso tondo eternamente fissato in un’espressione ilare, con un addome prominente che debordava dalla cintura azzurra stretta attorno alla vita. Un tipo che spandeva allegria. D’altra parte si sapeva che Lorencillo non tollerava i musi tristi.
«Ecco la flotta» disse Callois, prima ancora che l’avvertimento giungesse dalla coffa. «Stanno sbarcando.»
Le navi dei pirati erano ancorate in una piccola cala, protetta dal vento dalla vegetazione e da una cinta di colline. Molte scialuppe si staccavano dai velieri per raggiungere la spiaggia. Erano visibili i due galeoni catturati, superiori per stazza a ogni altra imbarcazione. Uno aveva avuto l’albero di mezzana troncato di netto. Il compagno, molto danneggiato, emanava fumo nero, come se un incendio fosse ancora acceso nelle sue viscere.
«Ladri maledetti!» gridò Lorencillo. «Giù la barcaccia, ci si ancora qua! Voglio proprio vedere come De Grammont e Van Hoorn potranno giustificarsi. Le navi che hanno preso erano mie!»
«Forse non lo sapevano, capitano» obiettò Callois con la calma consueta.
«State forse dalla loro parte?» replicò Lorencillo, iracondo. «Fate il vostro mestiere e ordinate il mio sbarco. Demonio malandrino, voglio vedere se non avremo la nostra quota di gruzzolo! Quei due galeoni sono gonfi come tacchini pronti per il pâté!»
Mentre sorvegliava gli uomini seminudi che spingevano, i muscoli tesi, gli aspi dell’argano per mollare l’ancora, Macary si divertiva. Conosceva De Grammont dai tempi della guerra nelle Fiandre. Lui era un soldato, il cavaliere un uffic...