19
La forza e il coraggio
Il tipo di tumore che aveva colpito Pupina le consumava le ossa del muso, e persino masticare diventava per lei sempre più difficile.
Forse per il dolore, forse per la malattia in sé che la debilitava, Pupina mangiava sempre di meno e appariva svogliata di fronte a qualsiasi novità.
Decidemmo quindi di impegnarci per capire cosa potesse renderla felice. Pupina era sempre stata ghiotta di straccetti di manzo crudi, che però Giuseppe le aveva vietato per via delle conseguenze per i reni e della sua non più giovane età. Gli chiedemmo così l’autorizzazione per darglieli, che lui ovviamente ci concesse. «Datele tutto ciò che vuole. L’importante è che continui a mangiare» ci disse.
Dopo una settimana ricevetti una telefonata che non dimenticherò mai. La ricordo come se fosse ieri. Ero in Rai, negli studi della Dear, e stavo preparando una puntata di Animalieanimali e… Mi trovavo nel corridoio di fronte al bar e come sempre c’era un sacco di gente… All’altro capo del telefono c’era Giuseppe: voleva comunicarmi che un esame colturale e citologico del tampone nasale di Pupina aveva evidenziato la presenza di un fungo, l’Aspergillus spp. Esso purtroppo le stava lentamente distruggendo l’osso ma, se era la causa principale del riassorbimento osseo, le speranze di sopravvivenza sarebbero state buone.
Scoppiai in un pianto di gioia difficile da descrivere, fregandomene di tutto e di tutti… Pupina poteva vivere. Pupina sarebbe vissuta. Ne ero certa. Già una volta ce l’aveva fatta, ce l’avrebbe fatta ancora… Dovevamo solo aiutarla a vincere questa nuova battaglia.
Le medicine che doveva prendere erano molto forti. Da una parte dovevano curarla, dall’altra invece l’indebolivano a poco a poco. In pochi giorni le tolsero completamente l’appetito e non ci fu più verso di farla mangiare. A orari prestabiliti, Alessandro e io ci davamo il cambio per offrirle di tutto, e se per caso eravamo fuori entrambi per lavoro, a venirci incontro c’era sempre mia madre che, con grande amore, si prendeva cura di lei e di nostra figlia. In quel periodo, davvero, le figlie, e nel suo caso le nipoti, erano diventate due: l’umana Liala e la felina Pupina…
Dopo due settimane, vista la difficile situazione, Giuseppe fu costretto a farci interrompere la cura. Pupina doveva nutrirsi, altrimenti sarebbe morta di stenti.
In breve arrivammo al punto di imboccarla. Gli straccetti di manzo non erano più sufficienti. Se glieli lasciavamo nella ciotolina, rimanevano lì fino all’arrivo di Tigri, che li faceva sparire in men che non si dica. Tigri, in effetti, fu l’unico a trarre giovamento dai nuovi alimenti. D’altronde non sarebbe stato giusto escluderlo, soprattutto perché era sempre stato messo un po’ in secondo piano e probabilmente anche lui ne aveva risentito.
Dopo qualche giorno, fortunatamente, a Pupina tornò l’appetito. In verità, il fatto che dovessimo imboccarla dandole pezzettino di carne dopo pezzettino credo che alla fine fosse diventato un po’ un vizio… Non ci fu più verso infatti di darle da mangiare normalmente, ma, nonostante questo, non passava giorno che Pupina non ricevesse la sua razione di carne fresca servita con tutto l’amore del mondo. Superato il primo momento di difficoltà, riprendemmo le cure contro il fungo e in breve tempo ai nostri occhi la situazione sembrò migliorare. In quei mesi, fortunatamente, il lavoro ci tratteneva a Roma e dormivamo di rado fuori casa. Tutte le notti, dopo aver messo a letto Liala, Ale, Pupina e io ci mettevamo sotto le coperte e ci riscaldavamo del nostro stare insieme. Il musino di Pupina era sempre molto malridotto. Le narici si erano allargate in una grande ferita, ma, nonostante le loro dimensioni, respirare era sempre molto faticoso. Noi la osservavamo con grande tenerezza e riuscivo a vedere solo la sua sofferenza, mai la sua deformità. L’amavo ogni giorno di più, e anche di notte sognavo che improvvisamente, come era già successo in passato, si riprendesse grazie a un nuovo miracolo. Avrò chiamato Giuseppe cento volte per chiedergli se ci fossero novità, e alla fine fu costretto a distruggere le mie illusioni. Purtroppo l’esame istologico condotto su Pupina aveva evidenziato, oltre al fungo, la presenza di cellule tumorali che non lasciavano spazio a dubbi.
La malattia procedeva e la fiammella della sua vita era sempre più fioca.
Perché non poteva accadere un’altra volta ciò che era già successo in passato?
Non si è sempre detto che i gatti hanno sette vite?
In verità, forse, Pupina, per non lasciarmi sola, le aveva consumate tutte…
Ogni tanto qualcuno, per consolarmi, mi ricordava che in fondo aveva vissuto ben tredici anni, che per un gatto sono una buona età, ma nessuno riuscì mai a togliermi la speranza che potesse vivere ancora molti anni con me. Me lo doveva. Lei mi doveva proteggere da tutto e da tutti. Non era ancora tempo di tornare là da dove era venuta. In fondo non chiedevo l’impossibile. Il gatto più vecchio del mondo aveva raggiunto i trent’anni, e non erano rari i gatti che arrivavano in buona salute fino a venti. Pupina per me era ancora una “ragazzina”, e come tale si doveva comportare. Ma le sue energie non erano più quelle di un tempo, infatti dormiva più a lungo e mangiava pochissimo. Nonostante tutto, però, non aveva perso la sua voglia di andare in giro. Spesso la sera si tratteneva fuori fino a tarda notte, soprattutto quando c’era la luna piena. Più di una volta, rientrando a casa, l’abbiamo trovata distesa sull’erba a contemplare il cielo. Forse era solo una mia interpretazione, ma davvero l’atteggiamento sembrava quello, e il suo pelo, grigio e bianco, a tratti rifletteva la pallida luce della luna.
Poi, tutti insieme, rincasavamo e, sempre insieme, andavamo a dormire. La mattina, più di una volta, era proprio lei a chiamarci, sempre qualche secondo prima della sveglia, che ogni volta era puntata a orari diversi. Non abbiamo mai capito come facesse a saperlo, eppure era così. La anticipava. Lentamente si avvicinava al nostro viso e, con grande delicatezza, ci toccava il collo con un’unghia… Non nego fosse una situazione sgradevole… Le prime volte, addirittura, Alessandro si spaventò. Svegliarsi con un artiglio sulla giugulare non è in realtà una bella sensazione. Eppure era il suo modo di darci il buongiorno, e ci abituammo alla novità, trovandola addirittura piacevole.
Ben presto arrivò giugno, e con esso le vacanze. Ogni anno era il mese del sollievo e del riposo. Era il mese della gioia, il mese del mio matrimonio, il mese della spensieratezza…
Come potevamo però partire con Pupina in quelle condizioni?
La nostra meta doveva essere Ischia, dove avevamo preso una casa in affitto per un mese. La situazione presentava alcuni problemi, ma non era nemmeno troppo complicata. Avremmo portato Pupina con noi e, quando fossimo usciti di casa, l’avremmo chiusa in una stanza con tutti i comfort.
Ne parlammo con Giuseppe e gli proponemmo l’idea, ma lui non fu d’accordo.
«Toglierla adesso dal suo ambiente non è la scelta migliore. In fondo, da voi, è libera di andare in giro o di stare in casa. È la sua realtà, mentre portarla fuori e lasciarla per diverse ore da sola in una stanza può essere motivo di ulteriore stress…»
Ancora una volta seguimmo i suoi consigli. Partimmo e lasciammo Pupina a mia madre e a John, che conosceva la nostra gatta da sempre e che gestiva la casa.
Quella non fu una bella vacanza. Non so esattamente perché, ma se uno non è in pace con se stesso, non riesce nemmeno a essere sereno. La nostra famigliola era unita, il luogo era incantevole e il tempo meraviglioso, eppure, inconsciamente, il pensiero di aver lasciato a casa Pupina in quelle condizioni non mi lasciava tranquilla. In effetti, a livello razionale, avevamo fatto, o stavamo facendo, tutto ciò che si poteva fare… E poi, se non fossimo partiti, avremmo perso la possibilità di quella vacanza tanto attesa… Tutte motivazioni o giustificazioni che non mi sono mai servite a niente.
Ogni giorno chiamavo mia madre per avere notizie e lei in genere mi tranquillizzava. «La situazione è stazionaria. Mangia poco ed è molto magra, ma non mi sembra peggiorata…» mi diceva.
Dopo quindici giorni, però, il tracollo: «Stamattina, Anna, la vostra vicina, mi ha chiamata perché ha visto Pupina in condizioni critiche. Siamo andati a prenderla e l’abbiamo portata da Giuseppe, che l’ha messa sotto flebo… Ora è da lui. Vi farò sapere appena ho novità…». Istintivamente sarei voluta rientrare subito a Roma, ma Alessandro mi trattenne: «Aspettiamo di sapere cosa succede. Se le cose vanno male, che senso ha interrompere la vacanza? Decideremo appena abbiamo notizie…».
Mi lasciai convincere. Se Pupina fosse morta, che senso avrebbe avuto il nostro rientro anticipato? Quando un essere muore, il suo corpo è solo un involucro vuoto. Chi amiamo non è più lì dentro. È andato via, dove non ci è dato saperlo, ma è come se fosse partito. E Pupina, malgrado tutto, era in procinto di partire, e io non potevo farci niente. Aspettammo il giorno dopo e parlammo con Giuseppe: «Questa gattina è davvero un miracolo della natura. Ieri, quando me l’hanno portata, quasi non respirava più. Mi sembrava in uno stato di coma, presentava una notevole ipotermia. Poi, ancora una volta, messa al caldo, sotto flebo e trattata con farmaci adeguati, ce l’ha fatta. Ora deve tornare a casa e continuare le cure. State tranquilli, per lei non è ancora arrivato il momento…».
Parzialmente rassicurati da Giuseppe, decidemmo di trattenerci a Ischia ancora qualche giorno, poi la mia ansia prese il sopravvento: «Non ce la faccio a stare ancora qui quando so che Pupina ci sta aspettando… Facciamo così, tu rimani con la piccola e la tata, e io rientro a Roma. Poi, quando volete, rientrate con calma anche voi».
Resosi conto della mia paura e in parte anche del mio senso di colpa, Alessandro volle rientrare con me. Il tempo di organizzare la partenza e finalmente imboccammo la strada di casa.
Ogni giorno della vita che si è aperto il cancello della nostra abitazione è stato per me un bel giorno. Quella volta no. Appena sentì il rumore del telecomando e lo scricchiolio del meccanismo arrugginito, Pupina apparve dall’angolo della casa. In venti giorni era diventata davvero irriconoscibile. Magrissima, debole, con il musino sempre più rovinato, barcollando ci stava venendo incontro… Che cos’è l’amore se non questo? La forza dell’attesa, della disperazione. La volontà che supera ogni ostacolo, trovando le energie per aspettare chi ritorna. Altro che Argo, il cane di Ulisse, che lo aspettò anni e anni per poi concedersi alla morte. Pupina non si concedeva. Pupina mi aveva aspettato e ancora una volta aveva detto alla vecchia “Signora” di tornare in un altro momento… Ora più che mai, però, ero logorata dal dolore e mi sentivo in colpa per essere partita. Le andai incontro, mi sedetti per terra e la presi in braccio. Era un fuscello. Non pesava niente. L’amavo, l’amavo da morire, e non volevo lasciarla più. «Scusami, Pupina. Scusami tanto se siamo partiti. Non pensavo di ritrovarti così…» Vederla in quelle condizioni, per la prima volta mi mise davvero davanti alla realtà. La coccolai a lungo, poi richiamai Giuseppe: «Che cosa possiamo fare? In che modo possiamo aiutarla a soffrire di meno?».
«Purtroppo, Licia, a questo punto credo che l’accanimento terapeutico con farmaci, reidratazione, indagini strumentali o analisi sia per lei controproducente. È arrivato il momento, purtroppo, di lasciarla tranquilla per rispettarla anche nella sua dignità. È importante che la qualità di vita sia accettabile. Non torturiamola inutilmente solo per farla vivere qualche giorno in più. Lei di certo non lo desidera, e soprattutto non lo merita…»
«Ma non rischia di soffrire tantissimo?»
«È inutile fare previsioni. Aspettiamo, poi valuteremo al momento cosa fare…»
«L’iniezione no. Non voglio fargliela. Gliel’ho promesso… Lo sai, non sono contraria all’eutanasia in casi estremi, ma con Pupina sai cos’è successo in passato… L’aiuteremo standole accanto fino all’ultimo.»
«Non ho detto questo, Licia… Non anticipiamo le cose. Potrebbe morire per un arresto cardiaco o per un’insufficienza renale… Al massimo, se sarà necessario, le daremo qualcosa per il dolore…»
Questa fu la nostra telefonata, ma in seguito ce ne furono molte altre.
Eravamo tornati da Ischia in anticipo per stare con lei, e in pochi giorni era già migliorata. Mangiava sempre dalle nostre mani. Tagliavamo pezzettini di carne fresca sempre più sottili, per via della sua difficoltà a masticare, e piano piano aveva ripreso a nutrirsi. Il mio desiderio era quello di non allontanarmi più da lei, ma purtroppo il lavoro ci doveva dividere ancora una volta. Ero in partenza con Alessandro per dieci giorni in Finlandia. Dovevo realizzare un reportage per la mia trasmissione e mio marito aveva appuntamento con alcuni galleristi di Helsinki.
Ci saremmo separate un’altra volta.
In quel periodo mi ero accorta di come la compagnia fosse importante per Pupina. La compagnia e l’attenzione. Chiesi aiuto così anche a Silvia, un’amica che ama moltissimo gli animali e ha sempre dimostrato una grande sensibilità nei loro confronti.
«Ho bisogno di te… Devi aiutare Pupina a resistere fino al nostro ritorno… Poi la porteremo con noi in montagna, dove è sempre stata bene, e davvero non ci separeremo più.» La mia, più che una richiesta, sembrava una supplica, una preghiera, che sortì l’effetto desiderato. Silvia fu eccezionale. Due volte al giorno andava da Pupina e tentava di farla mangiare imboccandola e dandole anche alcune vitamine… Poi, ogni sera, le subentrava nelle cure John, che dormiva a casa nostra.
In questo modo, a dispetto di tutte le previsioni, Pupina superò anche il nostro viaggio in Finlandia e, ancora una volta, quando si aprì il cancello, era lì ad aspettarci.
20
L’arrivederci
Cinque giorni dopo il rientro dalla Finlandia ci organizzammo per partire per la montagna. Vista la situazione delicata decidemmo di lasciare a casa sia Spok che Tigri e di spostarci solo con Pupina. Ovviamente, allora più che mai, era importante che non mancasse niente. Pupina doveva avere tutte le sue cose perché volevamo che mantenesse il più possibile le sue abitudini. Anche questa volta la macchina era piena come un uovo. Nostra figlia troneggiava sul suo seggiolino, circondata da giocattoli di vario genere, accanto a Dominica, una ragazza deliziosa che si prendeva cura di lei per darci un attimo di tregua… Pupina invece, come sempre, viaggiava nel suo trasportino sistemato in quel piccolo spazio che divide i nostri sedili. Fu un viaggio piuttosto lungo e faticoso. Per le necessità di Liala fummo costretti a fare diverse tappe, e ogni volta dovevamo scendere tutti insieme perché il caldo in quegli ultimi giorni di luglio era davvero insopportabile. Gli autogrill erano presi d’assalto da tutti gli italiani che puntualmente in quei giorni si spostano da un lato all’altro dell’Italia e noi, con la nostra piccola famiglia “allargata”, contribuivamo ad aumentare la già notevole confusione: Liala si faceva notare per i pianti che anticipavano i primi capricci, e Pupina attirava l’attenzione con i suoi deboli miagolii, che sembravano più che altro una richiesta continua di essere liberata. Dopo dieci ore e quattro soste, arrivammo finalmente a destinazione.
La temperatura era decisamente più gradevole e i primi giorni Pupina ne trasse senza dubbio giovamento. Tutti in casa la coccolavano. Mia madre le comprava ogni mattina la carne tagliata a pezzettini sottili e Gianni, il mio padrino, si preoccupava sempre che avesse l’acqua fresca e le giuste attenzioni da parte di tutti. Mangiava con più appetito, e ogni volta che dal piano di sopra, dov’era la camera da letto, scendevamo in salotto, lei piano piano ci seguiva e passava serate intere sulle mie ginocchia. Per l’ennesima volta, credetti che ce la potesse fare. Era sì debole, ma rimaneva vitale. Appena ci svegliavamo la mattina aprivamo le finestre e lei si arrampicava sul davanzale per guardare fuori e accompagnare con lo sguardo le evoluzioni di mille uccellini. Lei non poteva più seguirli, ma certo con tutta se stessa continuava a volare con loro.
La mattina del 14 agosto improvvisamente la vidi strana. Era immobile ai piedi del mio letto quando, a un tratto, emise un miagolio terribile, diverso dagli altri. Era lungo e sofferto… Era lacerante… Mi spaventai e chiamai urlando Alessandro, che di corsa salì per le scale… «Sta molto male… Ho paura che stia morendo…» dissi con le lacrime agli occhi. Alessandro, con la forza della speranza, in ginocchio accanto a Pupina, iniziò ad accarezzarla, stimolandola anche con la voce. Lei rimase immobile, ma lui non si perse d’animo e continuò a toccarla quasi con forza. Passò circa un minuto e Pupina ebbe una reazione. «Portiamola dal veterinario» disse. «Di corsa.» Salimmo in macchina con la piccola sotto il maglione a diretto contatto con il mio petto e raggiungemmo un ambulatorio poco lontano da casa. Il medico, viste le sue condizioni, la mise sotto flebo. «Dobbiamo aspettare che si reidrati, perché è ridotta davvero molto male. Le faccio anche delle analisi del sangue con urgenza e vediamo com’è la situazione… Con la flebo, comunque, dovrebbe rimettersi un po’ in sesto…» Rimanemmo in attesa circa un’ora, poi tornammo a casa con nuovi cibi che dovevano stimolarle l’appetito. Il veterinario ci aveva detto di lasciarla tranquilla, avvolta in una coperta con una boule d’acqua calda. Così facemmo, ma il pomeriggio, rientrando a casa dopo una breve assenza, la ritrovammo distesa su un fianco nella sua lettiera.
In quelle condizioni aveva trovato la forza di raggiungere il luogo dei suoi bisogni, ma da lì non era riuscita più a muoversi. La presi in braccio e la strinsi a me con tenerezza. Dovevamo aspettare ancora due ore e sarebbe venuto a casa nostra il veterinario con l’esito delle analisi e una seconda flebo. Il tempo passò velocemente e il medico arrivò. Era ottimista. «Ha un’intossicazione per insufficienza renale… Con le flebo possiamo aiutarla molto, ma dovrà continuare a farle per diversi giorni. Al momento non è il tumore il problema, bensì l’avvelenamento causato proprio dal malfunzionamento dei reni…» Potevamo ancora aiutarla, quindi, dovevamo lottare al suo fianco.
Ogni volta che un medico si avvicinava a Pupina, sapevo che per lei si profilava un’altra sofferenza: un ago, una pastiglia, una nuova analisi… Sapevo anche che era per il suo bene, ma non sopportavo più di vedere i suoi occhi che riflettevano tutto quel dolore…
Chiamai quindi Gianni e gli chiesi se poteva stare con Alessandro e il veterinario: io non riuscivo a sopportare che le facessero un’ennesima flebo in una zampina che non aveva più un briciolo di carne, tanto era dimagrita…
Non mi allontanai da lei, mi spostai solo nella stanza adiacente in attesa che l’ago fosse inserito. Terminata l’operazione, ritornai da loro, che stavano parlando delle sue condizioni. Gianni stava chiedendo delucidazioni su tutto ciò che si doveva fare. Alessandro ascoltava senza mai perdere di vista Pupina, che, con il capo adagiato su un cuscino, sembrava rassegnata. Non trascorsero neanche quindici secondi che la nostra amata piccola emise nuovamente un miagolio come quello della mattina. Il veterinario e Gianni stavano ancora parlando quando io, sentito quel verso, gridai: «Pupina sta morendo… Pupina muore…». Terroriz...