Canale Mussolini
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Canale Mussolini

  1. 468 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Canale Mussolini

Informazioni su questo libro

Canale Mussolini è l'asse portante su cui si regge la bonifica delle Paludi Pontine. I suoi argini sono scanditi da eucalypti immensi che assorbono l'acqua e prosciugano i campi, alle sue cascatelle i ragazzini fanno il bagno e aironi bianchissimi trovano rifugio. Su questa terra nuova di zecca, bonificata dai progetti ambiziosi del Duce e punteggiata di città appena fondate, vengono fatte insediare migliaia di persone arrivate dal Nord. Un vero e proprio esodo. Contadini emiliani, veneti e friulani lasciano le proprie terre, dove non rimaneva altro che stare a "puzzarsi di fame" e diventano i primi attori del nuovo sogno italico di grandezza. A migrare sono famiglie intere, con nonne che sanno guidare un carretto e governare le bestie, uomini forti come tori, donne spavalde che alle feste della mietitura ballano e ridono con tutti i maschi, truppe di bambini di ogni età. Sono i "cispadani" scesi dal Nord, e i "marocchini" del Lazio li guardano con sospetto, spiano le loro abitudini disinvolte, le loro donne in gonne corte e sgargianti, allegre.
Tra queste migliaia di coloni ci sono i Peruzzi, gli eroi di questa saga straordinaria. A farli scendere dalle pianure padane sono il carisma e il coraggio di zio Pericle, che dentro il Fascio conta qualcosa perché ha meriti di audacia e valore, ma che dal Fascio non si fa dettare ordini. Con lui scendono i vecchi genitori, tutti i fratelli, le nuore. E poi la nonna, dolce ma inflessibile nello stabilire le regole di casa cui i figli obbediscono senza fiatare. Il vanitoso Adelchi, più adatto a comandare che a lavorare, il cocco di mamma. Iseo e Temistocle, Treves e Turati, fratelli legati da un affetto profondo fatto di poche parole e gesti assoluti, promesse dette a voce strozzata sui campi di lavoro o nelle trincee sanguinanti della guerra. E una schiera di sorelle, a volte buone e compassionevoli, a volte perfide e velenose come serpenti.
E poi c'è lei, l'Armida, la moglie di Pericle, la più bella, andata in sposa al più valoroso. La più generosa, capace di amare senza riserve e senza paura anche il più tragico degli amori. La più strana, una strega forse, sempre circondata dalle sue api che le parlano e in volo sibilano ammonimenti e preveggenze che, come i sogni oscuri della nonna, non basteranno a salvarla dalla sorte che l'aspetta. E Paride, il nipote prediletto, buono e giusto, ma destinato, come l'eroe di cui porta il nome, a essere causa della sfortuna che colpirà i Peruzzi e li travolgerà.
Un poema grandioso che, con il respiro delle grandi narrazioni, intreccia le vicende drammatiche e sorprendenti dei suoi protagonisti a quelle, non meno travagliate, di mezzo secolo di storia italiana. Antonio Pennacchi rievoca il passato controverso e insieme epico della nazione, animando ricordi e fantasmi con uno sguardo sempre lucido, ironico e spiazzante, ma soprattutto carico di pietas e profonda commozione per i propri personaggi, per quelle tre generazioni di Peruzzi che combattono con glorioso accanimento contro le sferzate del destino che sembra non concedergli tregua. Un'autentica epopea, un grande romanzo italiano.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804546757
eBook ISBN
9788852010385
Argomento
Letteratura

III

Quello che più colpì mio zio Adelchi di Addis Abeba quando vi entrò per la prima volta alla testa delle truppe vittoriose subito dietro al maresciallo Badoglio, furono gli eucalypti. «Varda i calìps» disse al suo amico e compare Franchini di Cisterna che marciava al fianco suo – a passo romano e moschetto spall’arm – nell’ultima fila in fondo del plotone d’onore della compagnia Camicie nere “Littoria”, subito dietro alla bandiera di combattimento: «Varda i calìps come ch’i vièn!». Era il 5 maggio 1936 e loro stavano nell’ultima fila perché erano i più alti.
«Zitto e marcia, compa’» gli rispondeva però Franchini, «che qua ci puniscono un’altra volta.»
«Ma guarda i calìps come sono grandi, Franchìn! Varda che bestie ch’i vièn.» Bestie appunto da quaranta metri d’altezza. Con dei tronchi che non ce la facevano due uomini grandi ad abbracciarli, e mio zio e il compare Franchini ci si provarono pure. Era tutto un bosco d’eucalypti Addis Abeba, una macchia scura in cui si nascondevano tra i tronchi le abitazioni e da cui emergevano in altezza – fra i rami e le fronde – solo i tetti e le coperture in lamiera dei palazzi più grandi e degli edifici pubblici.
Mai visti prima, ripeto, eucalypti così, perché da noi – appena arrivati – non erano che piantine d’un metro, messe a dimora il giorno prima. Anche i miei zii erano andati a piantarli per conto dell’Opera nei mesi invernali – pagati a giornata per integrare il reddito – lungo tutte le strade, fossi e canali. I primi furono proprio quelli in cima all’argine del Canale Mussolini, piante piccoline appunto, che facevano anche pena a vedersi, fragili e striminzite, con questi filini di foglie allungate come spine di pesce: «Ma sono foglie queste? Sono alberi?». Poi arrivi ad Addis Abeba e trovi queste bestie. «Orca!» aveva detto mio zio Adelchi.
Lì ce le aveva fatte mettere nel 1896 l’imperatore Menelik II Negus d’Etiopia – subito dopo averci sconfitto ad Adua – perché i ginepri che c’erano prima s’erano seccati. «Qua non ci cresce più niente» pare gli avessero detto i tecnici nostri qualche anno prima, quando ancora andavamo d’amore e d’accordo. Poi invece avevamo cambiato idea rispetto all’amore e all’accordo, lo volevamo tutto noi l’impero suo. Allora lui ci aveva bastonato e al posto dei tecnici nostri erano arrivati quelli inglesi: «Prova gli eucalypti» gli avevano detto. «Proviamo» aveva fatto Menelik, e questi eucalypti si erano adattati lì meglio che a casa loro.
Da noi nel 1935 – in Agro Pontino, quando zio Adelchi era partito per l’Africa Orientale – erano arrivati a quattro metri, che non è la fine del mondo ma che è comunque già un alberello, non più solo il cespuglio dell’anno prima. E tutti pieni di foglie odorose. E quando poi lui è tornato a casa due anni dopo, erano già più alti del podere: «Ma tu varda sti casso de calìps» diceva a tutti, ammirato, mio zio Adelchi.
In realtà l’unica che li guardasse ammirata quanto lui era l’Armida – la moglie di zio Pericle – per via delle sue api che andavano pazze per questi eucalypti. Non le aveva mai viste così. Un miele da cui esalava un profumo che era la fine del mondo. Tutti gli ormoni in ebollizione, le api. Se vedevano una rosa la schifavano, oramai. Solo i calìps. E l’Armida s’era dovuta far fare due arnie nuove da zio Iseo – che era il più bravo nei lavori di falegnameria – più una per la moglie di lui: «Ti insegno» le aveva detto, perché andavano d’accordo come due amiche, ancora più che sorelle.
Insomma, arrivate qua e trovato questo eucalyptus con le foglioline allungate e i fiori che sembravano pallini da caccia, le api erano impazzite dalla gioia, fottevano dalla mattina alla sera – «Brutte maiale», faceva l’Armida – e in capo a tre anni tutti gli alveari avevano figliato due o tre volte l’anno. Da una, adesso c’erano quattro arnie di legno con i tettucci ognuna d’un colore diverso, sotto l’argine del Canale Mussolini al confine del nostro podere 517. Lei però vada pure a chiedere in giro, non è solo un fatto di quantità, è che proprio non c’è – a questo mondo – un miele migliore di quello d’eucalyptus.
Oggi gli eucalypti si trovano dappertutto in Italia e perfino foreste intere, o filari e fasce frangivento che non finiscono mai. Ma ogni eucalyptus che lei trova disseminato anche nella landa più sperduta e deserta della Sicilia o della Sardegna, è un segno permanente e tangibile di quella che allora si chiamava «Era Fascista». Altro che damnatio memoriae. Non è stato sufficiente andare a togliere i fasci e le iscrizioni dai muri e dalle torri littorie il 25 luglio 1943. Se davvero volevi estirpare quel ricordo, bisognava solo andare a strappare ab radicibus – come dice Catone – ogni eucalyptus dal suolo patrio.
In realtà ai tempi di Catone l’eucalyptus qua non c’era. Stava solo in Australia, dove ce ne sono seicento specie. In Europa lo portò James Cook, dopo averlo appunto scoperto lì nel 1770: «Che casso d’albero xèo, questo?» pare abbia detto anche lui – come mio zio Adelchi – ai suoi marinai appena sbarcato là. Fu il fascismo ad importarlo su larga scala e ad impiantarlo nelle zone di bonifica, perché è un grande assorbitore d’acqua, allontana le zanzare, ha crescita velocissima e fornisce un robusto legname da costruzione. Può arrivare anche a centotrenta metri d’altezza e campa sei o sette secoli come il cipresso.
Noi ne importammo due sole specie, ma la Milizia forestale le piantò dappertutto. Piantava solo l’eucalyptus oramai, e risultò subito vero che di acqua ne assorbiva. Ma in eccesso. «Troppa grazia, sant’Anto’» facevano i coloni. Era peggio d’un cammello. Tutt’attorno non ci cresceva più niente. Hai voglia a piantare grano o trifoglio e ad irrigare a profusione. Per quindici o venti metri dagli eucalypti non ci nasceva più un filo d’erba. Pure Attila sarebbe stato invidioso.
Anche la crescita era veloce, e dopo i primi tre anni erano già arrivati intorno ai cinque metri. Ma anche questo non tranquillizzava per niente i contadini: «Più cresce e più beve, sto disgraziato». L’effetto balsamico si sa – se ne estrae l’eucaliptolo – ma le zanzare le attira come il miele; d’estate ancora adesso non ci puoi passare sotto che t’assalgono in picchiata gli stormi di vampiri. Sulla qualità del legno invece non so dire. In Australia ci pavimentavano pure le strade, in Agro Pontino lo abbiamo usato solo per la cellulosa o per il fuoco del camino. Una fiammata e via. Ma come fascia frangivento funzionava da dio.
L’Opera combattenti s’era tenuta come sua proprietà queste fasce di terreno – larghe tra i cinque e i dieci metri – ai lati d’ogni strada, fosso, canale e confine d’appoderamento. E le aveva tutte piantumate ad eucalyptus. Così il vento – dal mare – non aveva più modo di razzolare, rinforzarsi e inturbinarsi indisturbato per la piana fino ai monti. Veniva franto man mano che passava e un po’ alla volta dominato, abbattendo la sua forza almeno del sessanta per cento, dai cinquanta chilometri in media all’ora a meno di diciotto. Adesso però non è più così. Se lei va da Latina ad Aprilia non vede più una pianta d’eucalyptus. L’Opera combattenti è stata soppressa. Era un ente inutile, dissero – di sicuro era un po’ fascista, non dico di no, o fasciocomunista – comunque l’hanno disciolta e le migliaia d’ettari di fasce frangivento sono passate alla regione Lazio ed ora le fasce non ci stanno più. Scomparse. C’è rimasta la terra, ma le piante se le sono vendute tutte qualche anno fa alle ditte, che le hanno segate una ad una alla radice e poi se ne sono andate con i pezzi di tronco caricati sopra i camion. Cellulosa. Hanno lasciato per terra solo le foglie che il vento – il primo vento che dal mare s’è levato – s’è caricato bene bene insieme a un paio di vitelli e a qualche tetto, per scaricarli in cima ai monti Lepini nella prima e giuliva tromba d’aria che dopo tanto tempo d’astinenza s’è fatto.
Adesso ogni anno ce ne toccano almeno tre o quattro di trombe d’aria, che spazzano la pianura, scoperchiano le villette, sventrano le serre, i capannoni e sradicano gli oleandri e le magnolie che la gente di città – ma pure i contadini – s’è piantata nel giardino di casa.
Qualche pianta d’eucalyptus è pure rinata. Ma la maggior parte no. La gente gli è saltata addosso come al peggio delinquente. C’era chi faceva i buchi sulle radici con le punte lunghe dei trapani per poi buttarci l’acido o iniettare la benzina; chi gli dava fuoco tutte le estati; chi le radici le estirpava con i caterpillar. Non gli pareva vero di levarseli di torno. L’Opera combattenti aveva i fattori che passavano a controllare, e guai a chi toccava un eucalyptus. A questi di adesso invece non gliene frega niente, né alla regione né al comune. Anzi, al comune di Latina – che sono oltretutto postfascisti – appena ne incontrano uno gli sparano a vista. Non lo possono proprio più vedere. L’eucalyptus – che per il fascio era il monumentum perenne della bonifica – è diventato il nemico pubblico numero uno. Dicono che è un’essenza alloctona e che da queste parti le essenze vere e autentiche del territorio sono solo le querce, i lecci e qualche pino. Razzismo biologico. Gli eucalypti come gli extracomunitari. Però poi in tutte le aiuole, le rotonde, i rondò, i giardini privati – e soprattutto pubblici della città – al posto dell’eucalyptus che hanno appena giustiziato piantano una palma, una bouganville, un’ortensia, una magnolia, un canneto di bambù. Che vengono dall’Africa, dall’America tropicale, dall’Asia, dal Messico e dal Giappone. Come pure – se lei ci pensa – i pomodori, i fagioli e le patate; per non parlare dei kiwi, di cui oramai l’Agro Pontino è il primo produttore mondiale, ne produciamo più noi che la Nuova Zelanda dove è nato.
La verità è che l’alloctonia è una scusa, se no la prima cosa da sradicare sarebbero i giardini di Ninfa e di Fogliano – creazione d’una principessa Caetani, che s’era fatta venire apposta le essenze più esotiche da tutte le parti del mondo – vantati su tutti i dépliant come le meglio attrazioni ecologiche e turistiche del territorio. Quella s’era fatta impiantare un viale di palme tutto intorno al lago di Fogliano, per poterci andare a cavallo mentre i butteri suoi e il popolo delle Paludi si puzzavano di fame e di malaria in mezzo al fango. Il vecchio Benassi però – il padre di mio zio Benassi, che era mezzadro dei Caetani – diceva che non ci andasse a cavallo e basta la principessa, ma che ci andasse come Lady Godiva. Nuda. E se incontrava un buttero giovane e forte, lo sai tu quello che succedeva, diceva il vecchio Benassi. È per questo comunque che il film Scipione l’Africano vennero a girarlo qui, al lago di Fogliano; non per la principessa nuda, ma per le dune che somigliavano al deserto e soprattutto per le palme. Quando ero giovane io ci vennero a girare Sandokan con Ray Danton e Franca Bettoia, e pure Bora Bora. Mo’ le palme secondo lei sono autoctone? Le palme sì e gli eucalypti no? Ma non c’è una piazza a Latina in cui non mettano palme e non buttino giù eucalypti. Lei non ha idea dei salti di gioia che ho fatto io quando è arrivato il punteruolo rosso. C’è anche un po’ di giustizia a questo mondo. È la nemesi.
La verità è che a loro l’eucalyptus – il Genius loci della bonifica – gli ricorda la povertà e la miseria da cui sono partiti. Tutti quelli che stiamo qui – non solo i Peruzzi – ci siamo venuti per la fame. Fossimo stati bene al paese nostro, saremmo rimasti là. Siamo venuti i senzastoria – i senzaterra con le pezze al culo – diseredati come quelli che popolarono già l’America e l’Australia. E ogni ricco qui – o politico, avvocato, uomo di successo – non è che un parvenu alla fin fine, un pidocchio rifatto figlio pure lui d’un esule con le pezze al culo, che ogni volta che vede un eucalyptus si sente prudere quelle pezze. Invece di vantarsi si vergogna. E ammazza l’eucalyptus. Ma di che ti devi vergognare, dico io? Pure il primo dei Savoia non dev’essere stato che un bandito di strada, e l’ultimo canta a Sanremo.
In ogni caso però mio zio Adelchi non era andato in Africa per vedere gli eucalypti, ma per conquistare l’impero. Qualcuno ci doveva andare e c’era andato lui. Anche questa cosa non se l’era ovviamente inventata per primo il Duce, ma appena fatta l’unità d’Italia tutti avevano cominciato a dire: «E mo’ a noi chissà che ci tocca». Essendo stati per tanti secoli dispersi e divisi, il mondo – ora che ci eravamo uniti – secondo noi si doveva mettere alla pecorina: «Siamo tanti, siamo forti e siamo poveri: fateci largo che arriviamo noi». È Francesco Crispi – la Sinistra – che incomincia l’avventura coloniale e rimedia quella scoppola di Adua da Menelik II. Dopo una botta di quelle, però, uno ci dovrebbe pure ripensare: «Forse non è il mestiere mio, forse è meglio che rimango a casa». Invece no. Proprio come i latinensi che appena gli dici «Eucalyptus» pensano che li stai insultando, così gli italiani di allora appena sentivano «Adua» si sentivano immediatamente in dovere di andare a vendicare l’offesa. Fino a adesso s’erano trattenuti, perché non c’erano proprio le forze. Ma ora che finalmente i treni arrivavano in orario, che il fascismo aveva sistemato tutto, che eravamo una potenza mondiale – e che soprattutto avevamo finalmente quest’Uomo inviatoci dalla Provvidenza e che tutto il mondo ci invidiava, o almeno così ci dicevamo tra di noi – be’, adesso era finalmente giunta l’ora di onorare la parola dei Padri e di andare a saldare quell’antico conto di Adua. E siamo partiti anche noi Peruzzi. Potevamo mancare?
Noi in realtà non è che non avessimo proprio nient’altro da fare in Agro Pontino – c’era da lavorare come somari – però quella era la musica e su quella musica cantavamo tutti quanti allora: «Gli altri l’impero ce l’hanno tutti: Francia, Germania, Inghilterra. Solo a noi non deve toccare mai niente? E che siamo, più fessi?».
Ora io lo so benissimo che Francia, Germania e Inghilterra non fanno tutto il mondo, e che anzi tutto il resto del mondo non solo non ce lo aveva l’impero, ma era proprio ai danni suoi che quelli se lo erano andati a fare; e comunque non è giusto andarsi a prendere la roba degli altri. «Ma se lo fanno loro» dicevano però i miei zii, «perché non lo debbo fare io?» Gli vada lei a rispondere.
Noi italiani avevamo bisogno di terra. Terra e materie prime. Avevamo solo braccia. Un popolo numeroso. Ma neanche un chilo di ferro o di carbone. Non parliamo dell’oro e del petrolio. E nemmeno avevamo terra per tutti. La gente nostra doveva emigrare altrove. Infine – e questo dovrebbe troncare ogni discussione – c’era la questione dell’Imperium.
Come dice, scusi? Che cos’era l’Imperium?
Be’, tanto bene non l’ho capito neanche io, ma provo a spiegargliela come la spiegavano i miei zii, che a loro volta gliel’aveva spiegata il Rossoni. L’impero in pratica non è il nudo fatto che lì c’è della roba e tu te la vai a prendere. Questo sarebbe solo furto, ladrocinio. L’Imperium è il sacrosanto diritto ad andarsela a prendere quella roba, e questo diritto è dato solo dalla concordanza delle tue azioni con quelli che sono i voleri più generali delle forze che governano il Cosmo. O almeno così diceva il Rossoni: se tu stai in un posto dove c’è il ben di Dio, oro, petrolio, ferro, carbone, terra da lavorare e fertilissima in quantità, però non sei capace di lavorarla e di utilizzare quelle materie prime, è come se per il Cosmo tutte quelle potenzialità venissero sprecate. Allora permetti che per lui Cosmo è giusto mandare qualcun altro a insegnare a te come si fa, e camminare così tutti quanti verso le umane sorti progressive? Questo è l’Imperium, il diritto di comandare secondo i voleri più generali, ultracosmici ed ultraterreni.
«E come si fa a riconoscere chi ce l’ha e chi non ce l’ha quest’Imperium?» chiesero i miei zii.
«È semplicissimo» rispose il Rossoni: «Basta guardare un libro di storia». L’Imperium per lui non era un colombaccio che volava volava e si p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Canale Mussolini
  4. I
  5. II
  6. III
  7. Ringraziamenti
  8. Copyright