«Siamo già nel golfo» mi disse uno dei miei compagni quando mi alzai per far colazione, il 26 febbraio. Il giorno prima avevo avuto un po’ di paura per le condizioni del tempo nel golfo del Messico. Ma il cacciatorpediniere, anche se si muoveva un poco, scivolava via dolcemente. Pensai tutto contento che i miei timori erano infondati e salii in coperta. Il profilo della costa era svanito. Solo il mare verde e il cielo azzurro si stendevano intorno a noi. E tuttavia, a traponte, il sottocapo Miguel Ortega se ne stava seduto, pallido e stravolto, a lottare contro il mal di mare. La cosa era già cominciata prima. Da quando ancora non erano scomparse le luci di Mobile, e per le ultime ventiquattro ore, il sottocapo Miguel Ortega non poteva reggersi in piedi, anche se in mare non era un novellino.
Miguel Ortega era stato in Corea, sulla fregata Almirante Padilla. Aveva viaggiato molto ed era abituato al mare. E tuttavia, anche se il golfo era tranquillo, fu necessario aiutarlo a mettersi in piedi perché potesse fare il suo turno di guardia. Sembrava un agonizzante. Non sopportava nessun genere di cibo, e noi che facevamo la guardia con lui lo sedevamo a poppa o a traponte fin quando non veniva l’ordine di trasportarlo nel dormitorio. Allora si stendeva supino nella sua cuccetta, con la testa di fuori, aspettando di vomitare.
Credo che fu Ramón Herrera a dirmi, la notte del 26, che ce la saremmo vista brutta nel mar dei Caraibi. Secondo i nostri calcoli, saremmo usciti dal golfo del Messico dopo la mezzanotte. Al mio posto di guardia, di spalle ai tubi lanciasiluri, io pensavo con ottimismo al nostro arrivo a Cartagena. La notte era chiara, e il cielo, alto e rotondo, era pieno di stelle. Da quando mi ero arruolato nella Marina, avevo preso gusto a identificare le stelle. Quella notte mi ci divertii, mentre l’ARC Caldas procedeva serenamente verso i Caraibi.
Credo che un vecchio marinaio che abbia viaggiato per tutto il mondo, sia in grado di sapere in che mare si trova dal modo in cui la nave si muove. L’esperienza di quel mare dove io avevo fatto le prime armi mi permise di capire che eravamo nei Caraibi. Guardai l’orologio. Erano le dodici e trenta della notte. Le dodici e trentuno della mattina del 27 febbraio. Anche se la nave non si fosse mossa tanto, avrei capito lo stesso che eravamo nei Caraibi. Ma si muoveva. Io, che non ho mai avuto il mal di mare, cominciai a sentirmi a disagio. Provai uno strano presentimento. E senza sapere perché, mi ricordai allora del sottocapo Miguel Ortega, che era là sotto, nella sua cuccetta, a vomitare fin le budella.
Alle sei della mattina il cacciatorpediniere ballava come un guscio di noce. Luis Rengifo era sveglio, nella cuccetta sotto la mia.
«Ciccio» mi disse. «Non ti è ancora venuto il mal di mare?»
Gli dissi di no. Ma non gli nascosi i miei timori. Rengifo, che, come ho detto, era ingegnere, molto studioso e buon marinaio, mi fece allora un’esposizione dei motivi per cui non c’era il minimo pericolo che al Caldas accadesse un incidente nei Caraibi. «È una nave lupo» mi disse. E mi ricordò che durante la guerra, in quelle stesse acque, il cacciatorpediniere colombiano aveva affondato un sottomarino tedesco.
«È una nave sicura» diceva Luis Rengifo. E io, coricato nella mia cuccetta, che non potevo dormire per via dei movimenti della nave, mi sentivo al sicuro ascoltando le sue parole. Ma il vento era sempre più forte a babordo, e io mi immaginavo come doveva essere il Caldas in mezzo a quelle ondate tremende. In quel momento mi ricordai dell’Ammutinamento del Caine.
Il tempo non cambiò per tutto il giorno, ma la navigazione proseguiva normale. Mentre montavo la guardia mi misi a fare progetti per quando sarei arrivato a Cartagena. Avrei scritto a Mary. Pensavo di scriverle due volte la settimana, non sono mai stato pigro a scrivere. Da quando sono entrato nella Marina, ho scritto tutte le settimane alla mia famiglia di Bogotá. Ho scritto ai miei amici del quartiere Olaya lettere lunghe e frequenti. Dunque avrei scritto a Mary, pensai, e calcolai quante ore mancavano ancora per arrivare a Cartagena: mancavano ancora esattamente ventiquattro ore. Quella era la mia penultima guardia.
Ramón Herrera mi aiutò a trascinare il sottocapo Miguel Ortega nella sua cuccetta. Stava sempre peggio. Da quando eravamo partiti da Mobile, tre giorni prima, non aveva mangiato un boccone. Non riusciva quasi a parlare e aveva la faccia verde e stravolta.
Comincia il ballo
Il ballo cominciò alle 10 di sera. Per tutto il giorno il Caldas si era agitato, ma non tanto come quella notte del 27 febbraio quando io, insonne nella mia cuccetta, pensavo con paura alla gente che era di guardia sopra coperta. Ero sicuro che nessuno dei marinai che stavano lì con me, nelle loro cuccette, era riuscito a conciliare il sonno. Un po’ prima delle dodici dissi a Luis Rengifo, il mio vicino di sotto:
«Non ti è ancora venuto il mal di mare?»
Come avevo supposto, neanche Luis Rengifo riusciva a dormire. Ma nonostante il dimenarsi della nave, non aveva perduto il buon umore. Disse:
«Te l’ho già detto, il giorno che a me venga il mal di mare, viene anche al mare.»
Era una frase che ripeteva spesso. Ma quella notte non ebbe quasi il tempo di terminarla.
Ho detto che provavo inquietudine. Ho detto che provavo qualcosa di molto simile alla paura. Ma non ho il minimo dubbio su ciò che provai la mezzanotte del 27, quando attraverso gli altoparlanti fu dato un ordine generale: “Tutto il personale a babordo”.
Io sapevo cosa voleva dire quell’ordine. La nave stava sbandando pericolosamente a tribordo e si trattava di riequilibrarla col nostro peso. Per la prima volta, in due anni di navigazione, ebbi veramente paura del mare. Il vento fischiava, là sopra, dove il personale di coperta doveva battere i denti, inzuppato fino alle ossa.
Appena udii l’ordine saltai su dal tavolaccio. Con molta calma, Luis Rengifo si mise in piedi e andò in uno dei posti di babordo, che erano liberi, perché appartenevano al personale di guardia. Abbrancandomi alle cuccette, cercai di camminare, ma in quel momento mi ricordai di Miguel Ortega. Non poteva muoversi. Udito l’ordine aveva cercato di alzarsi, ma era ricaduto nella cuccetta, prostrato dal mal di mare e dallo sfinimento. Lo aiutai a sollevarsi e lo sistemai in una cuccetta di babordo. Con voce spenta mi disse che si sentiva molto male.
«Vediamo di fare in modo che tu non debba fare la guardia» gli dissi.
Può sembrare una battuta di cattivo gusto, ma se Miguel Ortega fosse rimasto nella sua cuccetta ora non sarebbe morto.
Senza aver dormito un minuto, alle quattro della mattina del 28 ci riunimmo a poppa in sei disponibili a fare la guardia. C’era anche Ramón Herrera, il mio compagno di tutti i giorni. Il sottufficiale di guardia era Guillermo Rozo. Quello era il mio ultimo servizio a bordo. Sapevo che alle due del pomeriggio saremmo stati a Cartagena. Pensavo che avrei dormito appena fossi smontato, per potermi divertire quella notte in terra ferma, dopo otto mesi di assenza. Alle cinque e mezzo della mattina andai a ispezionare i depositi accompagnato da un mozzo. Alle sette demmo il cambio a quelli dei posti di servizio effettivo perché andassero a fare colazione. Alle otto tornarono a darci il cambio. Esattamente a quell’ora terminai la mia ultima guardia, senza nessuna novità, anche se il vento rinfrescava e le onde, sempre più alte, si frangevano sul ponte e inondavano la coperta.
A poppa c’era Ramón Herrera. E c’era anche, in servizio di soccorso, Luis Rengifo, con su gli auricolari. A traponte, prostrato, agonizzante nel suo eterno mal di mare, c’era il sottocapo Miguel Ortega. In quel punto si sentiva meno il movimento. Chiacchierai un istante con il marinaio di seconda Eduardo Castillo, magazziniere, scapolo, bogotano e molto riservato. Non ricordo di che cosa parlammo. So soltanto che da quel momento non ci vedemmo più, fino a quando precipitò in mare, poche ore dopo.
Ramón Herrera stava raccogliendo dei cartoni per coprirsi e cercare di dormire. Per via del movimento era impossibile prender sonno nelle cabine. Le onde, sempre più forti e più alte, si rompevano sul ponte. Tra le lavatrici, le stufe elettriche e i frigoriferi assicurati a poppa, Ramón Herrera e io ci coricammo, sistemandoci con cura per evitare che ci portasse via un’ondata. Steso supino io contemplavo il cielo. Mi sentivo più tranquillo, coricato, con la certezza che nel giro di poche ore saremmo stati nella baia di Cartagena. Non c’era tempesta; la giornata era perfettamente limpida, la visibilità completa e il cielo profondamente azzurro. Non mi stringevano neanche più gli stivali, ora. Dopo essere smontato di guardia me li ero tolti e mi ero messo delle scarpe di gomma.
Un minuto di silenzio
Luis Rengifo mi chiese l’ora. Erano le undici e mezzo. Un’ora prima la nave aveva cominciato a sbandare, a inclinarsi pericolosamente a tribordo. Attraverso gli altoparlanti fu ripetuto l’ordine della notte precedente: “Tutto il personale a babordo”. Ramón Herrera e io non ci muovemmo, perché eravamo già da quella parte.
Pensai al sottocapo Miguel Ortega, che un momento prima avevo visto a tribordo, ma quasi subito lo vidi passare barcollando. Si lasciò cadere a babordo, agonizzando con il suo mal di mare. In quell’istante la nave si inclinò paurosamente; si rovesciava. Trattenni il respiro. Un’ondata enorme si infranse sopra di noi e ci lasciò inzuppati, come se fossimo usciti dal mare. Con molta lentezza, faticosamente, il cacciatorpediniere riacquistò la posizione normale. Al suo posto di guardia, Luis Rengifo era livido. Disse, nervosamente:
«Che rottura di palle! La nave tira a rovesciarsi, non riesce più a stare dritta.»
Era la prima volta che vedevo nervoso Luis Rengifo. Accanto a me, Ramón Herrera, impensierito, bagnato da capo a piedi, se ne stava zitto. Ci fu un istante di silenzio totale. Poi, Ramón Herrera disse:
«Quando decideranno di far tagliare i cavi perché il carico vada a mare, io sarò il primo a farlo.»
Erano le undici e cinquanta minuti.
Anch’io pensavo che da un momento all’altro avrebbero ordinato di tagliare le funi del carico. È quello che si chiama “sgombro di alleggerimento”. Radio, frigoriferi e stufe sarebbero caduti in mare non appena avessero dato l’ordine. Pensai che avrei dovuto allora scendere negli alloggi equipaggio, visto che era la sistemazione tra i frigoriferi e le stufe elettriche a garantirci sicurezza a poppa. Senza di quelli l’ondata ci avrebbe spazzati via.
La nave continuava a difendersi dalle onde, ma sbandava sempre di più. Ramón Herrera srotolò un telo e si coprì. Una nuova ondata, più grande della precedente, tornò a esplodere sopra di noi, che eravamo già sotto il telo. Mi strinsi la testa tra le mani, mentre passava l’onda, e mezzo minuto dopo gli altoparlanti cominciarono a sfrigolare.
“Ora danno l’ordine di mollare il carico” pensai. Ma l’ordine fu un altro, dato con voce ferma e tranquilla: “Personale sopra coperta, usare il salvagente”.
Con calma, Luis Rengifo, tenendo con una mano gli auricolari, si mise con l’altra la cintura di sicurezza. Come dopo ogni ondata grande, io sentivo prima un gran vuoto e poi un silenzio profondo. Vidi Luis Rengifo che, con il salvagente allacciato, tornava a mettersi gli auricolari. Allora chiusi gli occhi e udii chiaramente il tic-tac del mio orologio.
Stetti ad ascoltare l’orologio per circa un minuto. Ramón Herrera non si muoveva. Calcolai che doveva mancare un quarto alle dodici. Due ore ad arrivare a Cartagena. La nave parve restar sospesa in aria un secondo. Tirai fuori la mano per guardare l’ora, ma in quell’istante non vidi né il braccio, né la mano, né l’orologio. Non vidi l’onda. Sentii che la nave si rovesciava del tutto e che il carico al quale mi appoggiavo stava rotolando via. Mi drizzai in piedi, in una frazione di secondo, e l’acqua mi arrivava fino al collo. Con gli occhi fuori dalla testa, verde e silenzioso, vidi Luis Rengifo che cercava di non affondare, tenendo gli auricolari sollevati. Allora l’acqua mi sommerse completamente e cominciai a nuotare verso l’alto.
Cercando di venire a galla, nuotai una cosa come uno, due, tre secondi. Continuai a nuotare verso l’alto. Mi mancava il respiro. Affogavo. Cercai di aggrapparmi al carico, ma il carico non era più lì. Non c’era più niente. Quando riuscii a venire a galla non mi vidi intorno altro che mare. Dopo un secondo, a un cento metri di distanza, la nave venne fuori dalle onde, grondando acqua da tutte le parti, come un sottomarino. Solo allora mi resi conto che ero caduto in mare.
La mia prima impressione fu di essere completamente solo in mezzo al mare. Mantenendomi a galla vidi che un’altra ondata si infrangeva contro il cacciatorpediniere, e che questo, a un duecento metri da dove mi trovavo io, precipitava in un abisso e scompariva dalla mia vista. Pensai che fosse affondato. E un momento dopo, a confermare la mia supposizione, mi apparvero intorno numerose casse della merce che era stata caricata sul cacciatorpediniere a Mobile. Mi mantenni a galla tra casse di roba, radio, frigoriferi e ogni sorta di utensili domestici che ballavano confusamente, sbatacchiati dalle onde. In quell’istante non avevo idea esatta di ciò che stesse accadendo. Un po’ stordito, mi afferrai a una delle casse che ondeggiavano e insensatamente mi misi a contemplare il mare. La giornata era di una luminosità perfetta. Se non fosse stato per le forti ondate mosse dal vento e per gli oggetti dispersi sulla superficie del mare, non c’era nulla in quel luogo che potesse far pensare a un naufragio.
Improvvisamente cominciai a sentire delle grida vicine. Attraverso lo sferzante sibilare del vento riconobbi perfettamente la voce di Julio Amador Caraballo, l’alto e ben piantato secondo nostromo, che gridava a qualcuno:
«Si aggrappi lì, di sotto al salvagente.»
Fu come se in quell’istante mi fossi destato da un profondo sonno di un minuto. Mi resi conto che non ero solo in mare. Lì, a pochi metri di distanza, i miei compagni si gridavano delle cose gli uni con gli altri, tenendosi a galla. Rapidamente cominciai a pensare. Non aveva senso che nuotassi in nessuna direzione. Sapevo che eravamo a quasi duecento miglia da Cartagena, ma non avevo bene il senso dell’orientamento. E tuttavia, ancora non avevo paura. Per un momento pensai che avrei potuto restare afferrato alla cassa per un tempo indefinito, fin quando fossero venuti a soccorrerci. Mi tranquillizzava sapere che intorno a me altri marinai si trovavano nella mia stessa situazione. Fu allora che vidi la zattera.
Erano due, attrezzate con remi, a circa sette metri di distanza l’una dall’altra. Comparvero improvvisamente sulla cresta di un...