Sole e ombra
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Sole e ombra

  1. 322 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Sole e ombra

Informazioni su questo libro

Spagna, 1936. Nel paese, rosso di sangue e di passione, la Guerra Civile affonda la sua lama affilata. In quest'arena di sole e ombra, tre personaggi si muovono al di là delle ideologie, spinti solo dalle ragioni del cuore e della mente. Nina, cresciuta in una famiglia soffocante, dotata del dono della pittura. Julian, il poeta, mezzo inglese e mezzo spagnolo, raffinato e fragile, che nella Madrid assediata salverà Nina dalle prigioni dei miliziani, accendendola senza quasi volerlo di un amore incondizionato. Infine Michele, un italiano estroverso, ironico e generoso, che custodisce una colpa atroce e nelle Brigate Internazionali incrocerà anche gli occhi turchesi di Nina, fatalmente innamorati di un uomo che è l'opposto di lui. In questa grande storia d'amore, di morte e di eroismo Cinzia Tani accompagna i suoi personaggi nel vortice di una delle guerre più laceranti e drammatiche d'Europa, racconta i loro misteri, ne intreccia le sorti, s'insinua nei dubbi e nei desideri che li animano. E mentre alcuni di loro si perderanno per sempre, altri capiranno «da che parte stare» o ritroveranno se stessi al di là di ogni menzogna.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804589259
eBook ISBN
9788852013577

1

Poiché sua moglie aveva partorito una bambina, Ricardo Morales non tornò a casa. Raggiunse Malaga e si imbarcò per il Marocco.
«È stato avvertito?» chiese Manuela.
«Sì, signora.»
«E allora?»
«È partito lo stesso.»
«Bene.» Alzò il lenzuolo scoprendo il corpo della figlia e decise il nome che le avrebbe dato. Quando presero dalle sue braccia la neonata per vestirla, lei, distratta dalle note di una fisarmonica che nessun altro sentiva, quasi non se ne accorse. Si addormentò e la musica la condusse nel luogo in cui la bambina era stata concepita. Svegliandosi, ebbe paura del sogno che aveva fatto.
Si sollevò sui gomiti e cercò una presenza nella stanza. Chiamò a bassa voce e nessuno le rispose. L’avevano lasciata sola perché riposasse. La camera era al buio. I raggi della luna rimanevano imprigionati nella spessa trama della tenda di broccato. Della piccola Nina percepiva solo l’eco di un pianto leggero. Manuela scese dal letto con cautela, tenendo le mani sul ventre dolorante. Si inginocchiò sul pavimento e cominciò a recitare il rosario. Non le bastò per calmarsi, così, nonostante l’ora, suonò con forza il campanello e chiese che fosse convocato don Emilio. Gli domandò di confessarla, subito, nella sua stanza.
Il prete la ascoltò sbalordito e, quando più tardi tornò in chiesa, si sedette nell’ultimo banco e rimase lì fino all’alba, con il viso stretto tra le mani.
Nei giorni che seguirono, Manuela non uscì di casa. Teneva la piccola accanto a sé nel letto e ne osservava puntigliosamente ogni particolare fisico, ogni movimento, alla ricerca di quell’imperfezione che era sicura di trovare. Pregava perché non fosse così, ma era convinta che un peccato grave venisse punito anche sulla Terra.
A vent’anni aveva saputo il nome dell’uomo che le era stato destinato. Suo padre, Alejandro Amado Morales de Villamajor, era caduto da cavallo durante una partita di caccia. Dopo due giorni di coma sembrava che si fosse risvegliato solo per dire una frase all’orecchio della figlia, poi aveva chiuso gli occhi per sempre. Manuela pensò di aver capito male e guardò la madre per una conferma. Non si era sbagliata, avrebbe sposato un cugino di secondo grado che aveva visto poche volte, abbastanza per rabbrividire udendo il suo nome.
La prima era stata nell’estate del 1900. Ricardo, un quindicenne sfrontato e prepotente, si esercitava con il fucile del padre a colpire una fila di barattoli in giardino, mentre nella villa di campagna dei Morales si festeggiava il matrimonio di sua sorella Pilar. Manuela, che allora aveva dieci anni, era intervenuta alle nozze con i suoi genitori. Dopo la cerimonia che si era svolta nella piccola cappella privata, si era allontanata dagli altri per passeggiare nel parco. Incuriosita dagli spari, si era avvicinata al muretto su cui i barattoli cadevano uno dopo l’altro, centrati dai colpi precisi del cugino. Ricardo, infastidito dalla presenza della bambina, aveva smesso di sparare e si era voltato a guardarla. Scarpette immacolate, il vestito bianco di mussolina con gli ampi volant, i capelli scuri divisi da una netta scriminatura al centro della fronte e stretti in due lunghe trecce ordinate. Improvvisamente le aveva puntato contro il fucile.
«Sciogli quelle trecce!» le aveva ordinato serio.
Manuela era rimasta immobile, interdetta. Accanto a Ricardo c’erano i due fratelli Ruiz de Luna, coetanei del giovane Morales, che avevano ripetuto l’ordine alla bambina: «Hai sentito che ha detto? Ubbidisci!». Lei si portò velocemente le mani al capo e cercò di sciogliere i nodi senza riuscirci. Fissava la canna del fucile a pochi centimetri dalla sua fronte e muoveva le piccole dita impacciate. «Non ce la faccio» disse con un filo di voce mentre le lacrime le rigavano le guance. «Non ce la faccio» ripeterono i fratelli Ruiz imitando il tono lamentoso di Manuela. Uno dei nastri cadde sul prato e parte dei lunghi capelli neri le scivolarono su un lato del viso, coprendole un occhio. Con un gesto brusco Ricardo spostò l’arma e riprese a sparare ai barattoli, dimenticandosi in un istante della cugina.
I Morales erano proprietari terrieri da diverse generazioni. Vivevano a Talavera de la Reina, una ricca cittadina di tredicimila abitanti lungo l’argine del fiume Tago, nella provincia di Castiglia-La Mancha, a ottanta chilometri da Toledo. Alejandro Morales, il padre di Manuela, e il cugino Rolando, padre di Ricardo e di Pilar, possedevano ettari di vigneti oltre alla più grande fabbrica di ceramica di Talavera.
Ricardo era piccolo di statura ma la consapevolezza della propria forza fisica, l’orgoglio smisurato per ciò che era e soprattutto per quello che sarebbe diventato, oltre al modo di fare dispotico e arrogante, rendevano impercettibile il suo difetto, tanto che nessun coetaneo osava confrontarsi con lui. Neppure il padre provò a contraddirlo quando, a quattordici anni, Ricardo gli comunicò che aveva deciso di entrare nell’Accademia di Fanteria di Toledo per terminare gli studi e di intraprendere poi la carriera militare.
La dura disciplina e il rigore che logoravano la resistenza dei cadetti più fragili avevano per Ricardo un sapore dolcissimo. Godeva di regolamenti ferrei e orari implacabili mentre cresceva in lui il desiderio di misurarsi con i compagni e con i propri limiti. Essere l’ultimo maschio dei Morales, una famiglia antica e prestigiosa, gli faceva sognare di compiere qualcosa di straordinario per rendere onore al proprio cognome. Entrò nell’Accademia l’anno successivo a quello in cui la Spagna, sconfitta dagli Stati Uniti nel corso di una serie di battaglie navali, aveva perso in meno di quattro mesi Cuba, Portorico e le Filippine: tutto quello che era rimasto del suo vastissimo impero.
Fu un trauma per gli spagnoli, ma in particolar modo per i militari di professione che venivano insultati e derisi per le strade. Ricardo condivideva con gli altri cadetti la rabbia e il desiderio di vendetta per l’umiliazione subita. Alimentava il loro patriottismo con discorsi impetuosi, infervorati. Aveva un modo di fare istrionico, teatrale, che incantava chi lo ascoltava. Nello stesso tempo lo spirito di abnegazione, il rispetto della gerarchia e la cieca ubbidienza agli ordini lo facevano notare dai superiori.
Quando tornava a Talavera per le vacanze, cercava Manuela. C’era qualcosa in quella ragazzina che scatenava in lui un istinto crudele. La guardava, in chiesa, composta nel suo banco, il visetto pallido, le labbra serrate, di un colore sbiadito, raccolta in preghiera dall’inizio alla fine della funzione. Per il cugino era l’antitesi esatta della femminilità. All’uscita della chiesa Manuela non alzava lo sguardo neppure quando Ricardo la interrompeva nel suo ritorno verso casa. Rimaneva immobile, come quel giorno in cui le aveva puntato contro il fucile, con le spalle strette, le braccia penzolanti, a guardarsi la punta delle scarpe. Recitava mentalmente delle preghiere per non ascoltare le frasi beffarde del cugino e aspettava che, come accadeva sempre, si stancasse rapidamente di lei.
Ricardo accettò di sposarla come gli suggeriva il padre. A ventotto anni aveva già conquistato molte delle ragazze più desiderabili della cittadina e Manuela gli sembrava perfettamente adatta al ruolo di moglie che aveva in mente. Non gli avrebbe dato fastidi.
Il matrimonio unì due estranei e un enorme patrimonio. Appena un mese dopo le nozze, Ricardo partì per il Marocco. La Spagna si era lanciata in una nuova avventura coloniale. Doveva far dimenticare le sconfitte di Cuba e delle Filippine creando un nuovo impero in Africa. Nel 1912 il trattato stipulato con il sultano del Marocco stabiliva che il Protettorato della zona nordoccidentale marocchina venisse affidato alla monarchia di Alfonso XIII, che doveva amministrare Tetuàn e Larache e condividere con la Francia il controllo di Tangeri e Casablanca.
Servivano nuove forze per domare le continue ribellioni, ma l’invio delle truppe in Africa scatenò proteste in tutta la Spagna. Nonostante molti ritenessero che l’intervento militare in Marocco fosse dovuto solo agli interessi economici dei ricchi industriali, nonostante le rivolte e gli scioperi, migliaia di soldati si imbarcarono per l’Africa. Ricardo partì nel settembre del 1913 per Melilla ed entrò nel corpo dei Regulares, compagnie di soldati indigeni comandate da ufficiali spagnoli. Nel marzo seguente, per l’audacia e la determinazione dimostrate nella battaglia di Beni Salem, fu decorato con la croce di seconda classe al merito militare.
Le altissime montagne del Rif dominavano il territorio su cui la Spagna esercitava la sua influenza. Le operazioni militari erano rese difficili anche dal clima, piogge intense d’inverno e caldo atroce d’estate. Gli scontri erano brevi ma feroci e sanguinosi. I mori, anche se non disponevano di armi adeguate per resistere, non si arrendevano se non dopo aver combattuto almeno un giorno, per salvare l’onore. Si trattava di guerriglieri formidabili, esperti nel cavalcare, abituati a sopravvivere con poco cibo e poca acqua. In piccoli gruppi si mimetizzavano tra le rocce e gli arbusti e tenevano gli spagnoli in continua tensione.
Quella era la vita che Ricardo aveva scelto, misurarsi con il nemico, affrontare e sconfiggere la morte ogni giorno. Aveva bisogno di rischio e precarietà, di soluzioni da trovare in fretta, di affermare il proprio coraggio. Della moglie non sentiva nostalgia. Con il matrimonio era finito anche il piacere di prendersi gioco di lei, di provocarla per vedere i lineamenti tirarsi, il volto farsi ancora più pallido. Manuela si sentiva morire quando Ricardo la guardava così, con la ferma intenzione di spegnerla, di annullarla.
I ritorni a casa erano anche le occasioni per rapporti frettolosi, in cui lui si faceva largo tra le sete e i merletti, senza mai spogliarla. La visione di Manuela nuda l’avrebbe imbarazzato, aveva un corpo così bianco e fragile che sembrava vi scorresse meno sangue del normale. E poi sua moglie non lo guardava mai in faccia, rimaneva immobile sul letto, passiva come un agnello sacrificale. Ricardo era convinto, anche se non ne aveva la prova, che in quei momenti fissasse il crocifisso appeso sopra il letto, o una delle numerose immagini di santi che aveva distribuito dappertutto nella stanza. Questa idea lo rendeva ancora più sbrigativo, ma non rinunciava. Doveva prima avere il figlio maschio che avrebbe perpetuato il nome della famiglia Morales.
Per questo la notizia della nascita di una bambina non cambiò i suoi progetti. Aveva deciso di partire proprio quel giorno e partì. Riprese la strada di casa quando Nina aveva compiuto tre mesi. Manuela lo aveva aspettato per il battesimo. La sera del ritorno, Ricardo si sedette a tavola e raccontò le sue imprese in Africa alla moglie distratta. Parlava senza sosta, soprattutto per riempire il silenzio di quella casa che l’opprimeva, non aveva bisogno di essere ascoltato. Manuela non avrebbe mai capito che tipo di cuore gli batteva in petto. Lei, con i suoi vestiti candidi, gli occhi mesti, le mani giunte in grembo, sembrava voler dichiarare un’innocenza incontaminata e rabbrividiva ai racconti feroci di guerra e di violenza con i quali lui condiva ogni pasto. Questo almeno pensava Ricardo, non sapendo che proprio la perdita di quell’innocenza aveva spinto sua moglie a chiudersi in un’immaginaria cella di rigore, in cui ogni mondanità era bandita e solo il desiderio di penitenza aveva valore.
Il giorno del battesimo, la chiesa di Nuestra Señora del Prado era affollata. Tutti volevano vedere l’ultima nata dei Morales, anche perché nei mesi precedenti la madre l’aveva tenuta gelosamente in casa suscitando le chiacchiere della gente. Che la bambina avesse qualche problema? A Talavera si spettegolava su tutti. E sicuramente la famiglia Morales concentrava su di sé gran parte della curiosità. Si parlava di Manuela, la sposa triste che usciva poco e sempre con il volto coperto da un velo. Andava in chiesa tutte le mattine e tornava a casa. Riceveva le visite di poche amiche, della madre e di don Emilio che spesso si tratteneva a cena, mentre il marito era occupato a farsi una fama da eroe in Marocco.
Don Emilio era pronto per officiare la cerimonia. Si passava le mani sudate sulla veste, era nervoso. Manuela, arrivata in ritardo, percorse con passo rapido il tragitto fino alla fonte battesimale senza guardare nessuno, mentre Ricardo rimaneva indietro, a stringere le mani degli amici, a mostrare le decorazioni sulla divisa.
Anche durante il rito, Manuela trovò modo di preoccuparsi per la sua bambina che le sembrava troppo tranquilla. Non un lamento, neppure quando l’acqua benedetta le bagnò la fronte. Aveva voglia di scuoterla per farla reagire, ma la gente non avrebbe capito. Al termine della funzione uscì in fretta dalla chiesa, evitando i parenti e gli amici che l’avrebbero raggiunta più tardi al palazzo per il ricevimento. Ma un uomo riuscì a farsi largo tra la gente e a interrompere la sua corsa. Manuela si fermò perché lui le stava davanti e le impediva di proseguire: la sua altezza la sovrastava. Gli invitati appena usciti sul piazzale ammutolirono e rimasero in attesa. L’uomo non disse niente ma allungò una mano e toccò quella della bambina. La madre indietreggiò di scatto, stringendosi la piccola al petto.
«Non ti avvicinare a mia figlia!» disse scandendo le sillabe. Rafael, colpito più dal tono che dalle parole della donna, abbassò subito il braccio e lo lasciò ciondolare lungo il corpo. Per qualche istante fissò l’erba vicino ai suoi piedi. Non vedeva Manuela ma sentiva il suo sguardo addosso, come quello di tutte le persone presenti in quel momento nel viale alberato davanti alla chiesa. Si voltò e cominciò a correre con il suo passo sgraziato. Dalla borsa di cuoio che teneva a tracolla caddero delle buste e i monelli che giocavano nel giardino lì a fianco le raccolsero e lo inseguirono per restituirgliele. «Rafael! Ehi, Rafael! Ti perdi la posta» gridavano ridendo e sventolando le lettere.
Dal portone della chiesa, don Emilio aveva seguito la scena con il cuore oppresso dal dolore. Accanto a lui qualcuno commentava la brusca reazione di Manuela al gesto delicato del postino. Altri notarono che era la prima volta che Rafael volontariamente toccava qualcuno.

2

Amato da qualcuno, deriso da altri, Rafael era il postino di Talavera. Viveva solo, in una casetta di muratura bianca sulla riva del Tago, vicino al ponte romano. Una sola stanza, con il letto, un tavolo e il fuoco del camino per cucinare. L’unica finestra affacciava sull’argine del fiume, in un punto in cui il prato finiva in cespugli e sterpaglie. A parte quella piccola casa e i pochi oggetti che conteneva, non possedeva niente. Si manteneva con il suo lavoro di portalettere e non aveva bisogno di altro.
Era cresciuto nell’orfanotrofio di San Prudencio, insieme a una ventina di bambini di tutte le età. A due anni non aveva ancora detto una parola. In seguito cominciò a rispondere alle domande con dei monosillabi e lì si fermò. I pochi medici che lo visitarono non riuscirono a dare un nome alla sua malattia. Rafael era intelligente, reagiva a tutti gli stimoli ma sembrava abitare uno spazio e un tempo tutti suoi. Lo sguardo sorvolava le persone e si fissava solo su alcuni oggetti, quelli con i colori ben definiti: una palla rossa che si rigirava tra le mani senza mai lanciarla. La stessa cosa avveniva per i suoni. Rispondeva al suo nome o a un comando breve, ma rimaneva indifferente se le frasi che gli venivano rivolte erano più di una. A spaventarlo era la quantità. Troppi oggetti, troppe parole, troppo chiasso, troppi movimenti intorno a lui. Ma soprattutto non voleva essere toccato. Imparò presto a vestirsi da solo, a lavarsi, pettinarsi, per evitare che mani estranee si allungassero verso il suo corpo. Anche una piccola carezza lo faceva fuggire. Si metteva in un angolo e rimaneva raggomitolato per periodi lunghissimi, con la testa fra le mani, le ginocchia strette al petto, distante da tutto e tutti.
Aveva cinque anni quando, una notte, le suore furono svegliate dal suono del pianoforte che si trovava nel refettorio. Corsero a vedere e lo trovarono in piedi davanti allo strumento, concentrato a seguire le piccole dita che si muovevano rapide sui tasti. Lo riportarono a letto. Poiché la cosa si ripeté la notte successiva e quella seguente, furono obbligate a chiudere a chiave la porta del refettorio prima di andare a dormire.
Ma quando l’ultima lampada a petrolio veniva spenta e il silenzio copriva ogni cosa, Rafael sgusciava dal letto. Scalzo, coperto solo da una camiciola di cotone, lasciava la camerata e scendeva al piano di sotto. Cercava la chiave negli armadi, nelle scansie, nei cassetti. Quando la trovò, aprì la porta del refettorio e, al buio, si sedette sullo sgabello davanti al pianoforte. Notte dopo notte, per non farsi sentire, si limitò a sfiorare i tasti dello strumento e a immaginare il suono che avrebbero prodotto. Nella sua mente le note si legavano una all’altra secondo un disegno melodico preciso. Una volta tornato a letto continuava, muto, a cantare.
Rafael imparò a leggere e a scrivere, ma la comunicazione verbale non progredì. Quando don Emilio lo faceva visitare, otteneva sempre le stesse risposte: altezza, peso e aspetto fisico rientravano nella norma, ma il bambino aveva un ritardo verbale ed era indietro anche nello sviluppo motorio. Poi, la vigilia di Natale del 1896, le suore organizzarono una recita a cui invitarono i benefattori dell’orfanotrofio.
Alla fine dello spettacolo i piccoli che avevano cantato e recitato si sparpagliarono nella sala. Mentre gli ospiti distribuivano i regali che avevano portato, qualcuno vide uno dei bambini andare verso il pianoforte, sedersi sullo sgabello e iniziare a suonare i Notturni di Chopin. Il brusio cessò e i presenti nella sala si voltarono tutti insieme. Nessuno si avvicinò a Rafael finché non ebbe finito, poi scoppiò un lungo applauso. Sollevando lo sguardo dai tasti, si vide al centro dell’attenzione generale e ne fu sconvolto. Si alzò in piedi e scese in fretta i gradini della pedana, inciampò, si tirò su e zoppicando continuò a correre via.
«Me ne occupo io» disse don Emilio e raggiunse il piccolo in camera, mettendosi poi a sedere sul letto accanto a lui. Non gli chiese nulla, si limitò a guardarlo. Fissò a lungo la testolina bionda che Rafael teneva piegata in avanti, appoggiata alle braccia che stringevano le ginocchia. Il sacerdote pensò che Adelita, con la sua pelle bruna e i capelli corvini, aveva partorito un bambino biondo con gli occhi turchini e non lo sapeva.
Ricordò il giorno in cui la ragazzina era corsa da lui a confessare la violenza subita da uno sconosciuto, mentre tornava al suo casolare. Non lo voleva quel bambino, perché sapeva chi era lo stupratore. Ne parlavano tutti in paese del pazzo fuggito dal manicomio di Toledo, che aveva ucciso due contadini prima di essere abbattuto a sua volta dalle guardie. Adelita se lo era trovato davanti all’improvviso. Era un uomo alto ma lei lo ricordava gigantesco. Sotto lo sporco accumulato nei giorni di vagabondaggio per la campagna, i capelli erano biondi. Aveva occhi azzurri. Secondo Adelita privi di espressione, come pezzi di vetro colorato. Non parlava spagnolo. La gente pensava che fosse svedese o tedesco, nessuno l’aveva mai capito e nessuno ricordava perché fosse rinchiuso da tanto tempo.
Adelita aveva solo sedici anni e piangeva davanti a don Emilio scongiurandolo perché la aiutasse a perdere il bambino. Lui doveva decidere, e presto. Passò tutta la notte a pregare e all’alba era soddisfatto delle sue conclusioni. Non c’era una scelta da fare. Chiamò Adelita e le spiegò che Dio voleva che suo figlio vedesse la luce. La ragazza si gettò in ginocchio, gridò che se suo padre avesse saputo l’avrebbe ammazzata.
Aveva impiegato diversi giorni il sacerdote a convincerla che doveva tenere il bambino. Era anche stato costretto a minacciarla. «Andrai all’inferno se lo ucciderai!» Alla fine Adelita si era rassegnata, a patto che lui non l’abbandonasse. Don Emilio le aveva dato il denaro per vivere a Madrid tutto il periodo della gravidanza e il permesso di mentire in famiglia.
Il padre di Adelita era un bracciante che viveva tra la campagna e la periferia estrema della cittadina. Le giornate di lavoro erano dure, dall’alba a notte fonda in proprietà anche molto lontane che doveva raggiungere a piedi. Nella stagione delle olive si faceva aiutare nella raccolta dai tre figli maggiori. Gli altri due, troppo piccoli, rimanevano a casa insieme a Adelita che si occupava di loro dopo la morte della madre. Per que...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. Epigrafe
  6. 1
  7. 2
  8. 3
  9. 4
  10. 5
  11. 6
  12. 7
  13. 8
  14. 9
  15. 10
  16. 11
  17. 12
  18. 13
  19. 14
  20. 15
  21. 16
  22. 17
  23. 18
  24. 19
  25. 20
  26. 21
  27. 22
  28. 23
  29. 24
  30. 25
  31. 26
  32. 27
  33. 28
  34. 29