Amori imperfetti
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Amori imperfetti

Come si impara ad amare storia dopo storia

  1. 280 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Amori imperfetti

Come si impara ad amare storia dopo storia

Informazioni su questo libro

Maria Rita Parsi, psicoterapeuta e scrittrice, ci conduce in un percorso profondo e appassionato nelle strade tortuose e improbabili che spesso prende l'amore, per farci imparare a conoscere e costruire la nostra "identità sentimentale". Raccogliendo e commentando casi clinici, confessioni, lettere, poesie, biglietti, racconta storie insieme affascinanti e familiari, romanzesche e quotidiane. Capita allora di riconoscersi nella storia di Giuliana, innamorata di un uomo sposato che la illude, o in quella di Ernesto, traditore incredulo e disperato per essere stato tradito; capita di stupirsi e di commuoversi per la storia di Padre P.M., sconvolto da perversioni ossessive e incontrollabili o per Paola che cerca di emergere da un vortice di sofferenze. Storie di cenerentole e di belle addormentate, di principesse sul pisello e di pinocchi, di cappuccetti rossi con l'immancabile lupo cattivo. Da leggere fino a capire qual è la propria storia, dentro quale fantastica o terribile fiaba stiamo vivendo. Per conoscere e imparare l'amore nell'unico modo in cui si fa conoscere: storia dopo storia, ferita dopo ferita, amore imperfetto dopo amore imperfetto.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804583196
eBook ISBN
9788852012075

Parte prima

CONOSCERSI

Storie d’amore che rivelano le persone a se stesse

Quando cerchiamo dentro di noi (come Michelangelo quando scolpiva cercando di «ritrovare» dentro il marmo i suoi «prigioni») è là che possiamo trovare l’amore. Colpo dopo colpo, emozione dopo emozione, incontro dopo incontro, esperienza dopo esperienza, rinuncia dopo rinuncia, riconoscimento dopo riconoscimento, abbandono dopo abbandono, errore dopo errore, scoperta dopo scoperta, delusione dopo delusione, esaltazione dopo esaltazione, piacere dopo piacere, dolore dopo dolore, passo dopo passo. Ogni giorno della nostra vita, l’amore è ricerca. Poiché quel che l’essere soprattutto desidera è comprendere, conquistare totalmente e vivere l’amore. Il senso profondo, l’odore, il sapore, la chimica dell’amore. La sua essenza che si fa carne. La sua carnalità che si fa anima. E anzitutto, ciascuno ha bisogno di riscoprire l’amore che ha dentro di sé prima di poterlo riconoscere nell’altro e di condividerlo. Prima che condividendolo, possa finalmente interiorizzarne l’armonia. Ed abbracciandola, estenderla al mondo.

Iniziazione all’amore

Voglio iniziare questo libro con la lettera di una ragazzina di dodici anni, Caterina, innamorata di un giovane di ventidue, Giovanni. È la lettera d’amore, anzi, la dichiarazione d’amore, più commovente che io abbia mai letto. Una lettera di «iniziazione» alla vita amorosa che sembra voler sottolineare il valore di un’identità sentimentale nella quale le ragioni del cuore, l’identità sessuale di genere, le esperienze affettive, i condizionamenti e gli esempi ricevuti nell’ambiente familiare e sociale in cui si cresce possono fondersi armonicamente e dare senso pieno alla vita. Un’identità sentimentale che può essere comunque raggiunta e goduta pienamente – anche se tutto questo per alcuni di noi non è stato possibile – proprio attraverso il raggiungimento della consapevolezza che, per amarci e amare, bisogna accettare di riconoscere il valore delle esperienze di amore, degli incontri, dei distacchi che hanno segnato la nostra vita e che, pure, rimandano alle simbiotiche esperienze primarie: eventi sentimentali felici o frustranti, che si succedono nella nostra esistenza e la caratterizzano mettendoci in relazione con noi stessi e con gli altri. Quegli eventi sentimentali, infatti, se accettati e valorizzati, ci fanno da guida, «ci svelano a noi stessi», ci consentono di conoscerci meglio e di conoscere l’altro; di provare empatia e, perfino, generoso, incondizionato amore e rispetto profondo nei confronti della nostra vita e di quella degli altri.
Le parole di Caterina indicano tutto questo con una semplicità illuminante. Caterina ha oggi ventitré anni, è laureata in filosofia. Non ha mai inviato quella lettera. Ma è stata felice di donarmela perché potessi iniziare questo libro con le sue parole di allora.
Lettera di Caterina a Giovanni
I grandi sorridono dell’amore dei ragazzini. E fanno un danno grave. Perché i ragazzini sanno amare più dei grandi. Con una sincerità, con un trasporto, con una purezza che loro non hanno più. O che forse non ricordano. Che non vogliono ricordare.
Nessuno di voi deve ridere del mio amore. E soprattutto tu, Giovanni, che sei più grande e mi vedi come una bambina. Io non sono più una bambina perché questo amore che sento per te mi ha fatto crescere. All’improvviso le bambole mi sono sembrate delle pupazze morte; le amichette del cortile, carine, piccole, bambine noiose, senza un cuore capace di battere veramente e una testa capace di pensare al domani. Non c’è da ridere perché questa mi sembra come una malattia che mi separa definitivamente dai miei genitori. Penso con rifiuto all’idea che, se fino a un mese fa avevo paura, sarei andata a dormire nel lettone con loro. Ora tu dormi con me sotto il mio cuscino soprattutto la sera quando ti penso. Occupi la mia mente, la mia camera, i miei pensieri. Sei arrivato come un raggio di sole improvviso. Mi hai illuminata, fatta brillare, trapassata, attraversata, ingentilita, riscaldata, incoronata di pulviscolo giallo.
E poi, all’improvviso, sei andato via. Io non so stare senza te perché ora che sei apparso, io mi sono sentita diversa, mi sono interrogata, ho cercato di darmi delle risposte. Mi sono trovata come non pensavo proprio di essere. Anche se tu non mi ami io invece ti amo, Giovanni. E non mi importa se i grandi per queste mie parole possono ridere. Per me, «ti amo» è stato un salto, cambiare tante cose, lasciare dietro di me affetti importanti che adesso sono diventati meno forti, meno potenti. Ricordi il mio cane Augh, il barboncino? Non lo amo come te! Eppure, lui dopo i miei genitori e nonna Alberta era il più amato. Tu vieni prima di ogni altro amore che io abbia mai avuto. Prima della mia famiglia, dei miei amici, del mio cane, dei miei giochi. Sei il primo dei miei pensieri e non c’è un ultimo pensiero poiché sono come fissata al primo. Sei un tormento al quale non rinuncerei. Un’assenza che mi fa sentire viva, me stessa sola al mondo. Col pensiero di te. Io, proprio io. Caterina. E non c’è un’età giusta per provare un amore così perché quando lo provi è l’età giusta.
Io ti aspetterò, Giovanni. Non so se tu lo farai. Magari riderai di questa lettera o, magari, penserai di poter approfittare di me perché, come dice la nonna, ci sono tanti pedofili in giro e potresti pensare con piacere di farti una ragazzina. Io so bene come si fa l’amore. Però anche se l’ho letto e me lo hanno spiegato tante volte non sono proprio in grado di farlo. Per quello non sono pronta perché prima ho bisogno di un mondo di cose dolci, di essere corteggiata, conquistata. Le cose da innamorati, senza le quali fare l’amore fisicamente proprio non mi interessa. Magari sarò immatura perché, a quello che ho capito, all’età tua l’importante è spogliarsi. Nel mio mondo mi sono svegliata all’amore solo adesso e c’è spazio soprattutto per l’amore grande. Ho bisogno di parole, di baci, di abbracci. Ho bisogno di sentire che posso fidarmi di te e di me. Ho bisogno di conoscere il tuo cuore e la tua mente perché il corpo possa andargli dietro. Io non so. Ma penso che continuerò a volere così e a pensare così anche quando sarò grande. C’è troppa bellezza nell’amore perché si possano saltare certi passaggi.
Quando ero bambina mio nonno Armando, che ora è morto, scriveva delle bellissime poesie. Poi me le leggeva e me le regalava. Quando andavamo al mare, facevamo aquiloni di carta con sopra scritte le poesie e le facevamo volare. Il mio aquilone preferito portava scritta sopra una poesia che diceva:
L’amore è necessario come il pane.
L’amore è bello come te.
L’amore è libero come un gabbiano.
L’amore è libertà.
L’amore è bellezza.
Ha i tuoi occhi e nessuna fame.
Io chiedevo sempre al nonno di insegnarmi a fare le poesie. Ma il nonno diceva che le poesie non si insegnano. Vengono dal cuore. Aveva ragione. Io non sapevo farle fino a quando non mi sono innamorata di te. Così, ho chiuso questa lettera che non so se ti invierò con la prima poesia che ho scritto.
Non m’importa
se tu mi amerai
non m’importa se tu dirai «sì»
a quello che io sento per te
io ti amerò comunque
senza alcuna condizione
io ti amo incondizionatamente
il tuo amore è il mio sì alla vita
un sì che io dico
grazie a te,
Amore.
L’amore sognato. Storia di Bianca
Bianca oggi ha ottant’anni. Ha volentieri scritto la storia del suo primo, grande, sfortunato amore perché quella storia ha cambiato in modo decisivo la sua vita e soprattutto perché le ha consentito di scoprire le risorse, l’energia interiore, il coraggio, il potere dell’amore che aveva dentro di sé.
Per Bianca valgono le bellissime parole della psicoanalista Lou Andreas-Salomé: «Solo chi rimane completamente se stesso si presta alla lunga a venire amato, perché solo così, nella sua pienezza vitale, può simbolizzare per l’altro la vita, essere avvertito come una potenza di essa. Non vi è errore più grande nell’amore dell’adattarsi timorosamente l’uno all’altro e di uniformarsi a vicenda […]. Un eterno rimanere estranei nell’eterna vicinanza è dunque il segno più pertinente e inalienabile di ogni amore in quanto tale: […] non solo nel disprezzo o nell’amore non ricambiato, infatti, ma dappertutto, ovunque dove ci si ama, l’uno sfiora solo l’altro lasciandolo poi a se stesso. È sempre una stella irraggiungibile che noi amiamo, e ogni amore è sempre nella sua profonda essenza una segreta tragedia, ma proprio per il fatto di esserlo riesce ad avere effetti così potentemente produttivi» (Lou Andreas-Salomé, Riflessioni sull’amore, Editori Riuniti, Roma 1997).
Images
Ero molto piccola quando cominciai a sognare a occhi aperti. Avevo sette o otto anni. Il pomeriggio, mentre la mamma stirava, mia sorella, che aveva due anni più di me, leggeva «Le favole della nonna», libri per ragazzi ben scritti. C’era una nonna, con una bella famiglia e tanti nipotini, che, oltre alle storie di famiglia, raccontava novelle dolci e avventurose di ragazzi, fate e personaggi interessanti e vari che io, ascoltando, «vedevo» con gli occhi della mia fantasia. Poi ci ripensavo e immaginavo scene ed episodi ispirati a quel «canovaccio» nei quali ero sempre la protagonista, guidata da buone intenzioni come quelle dei miei eroi e con comportamenti sempre lodevoli. In realtà io allora mi sentivo assai sminuita nei confronti di mia sorella, perché lei era da tutti ritenuta molto intelligente, in quanto vispa e intraprendente. Anna, infatti, se voleva ottenere qualcosa da mia madre, arrivava a essere lamentosa e accidiosa. Io, invece, ero calma e riflessiva, sempre con la testa nei miei sogni. Ragione per cui, essendo tranquilla, tutti erano portati a giudicarmi meno pronta. Io, invece, non mi davo pena di insistere con mia madre per ottenere di andare a giocare con i nostri amichetti oppure fare qualche altra cosa perché tanto c’era mia sorella a ottenerla.
Crescendo, poi, cominciai a sognare con i libri «per signorine» di Delly e con gli attori del cinema, che mi dilettavo a disegnare. Ero, in verità, assai brava e, perciò, venni considerata sia dai miei familiari che dai compagni capace in disegno ma assai meno a scuola. Questa considerazione mi punse sul vivo. Non accettavo di essere inferiore a mia sorella, della quale ero gelosa anche perché a me toccavano sempre i vestiti che a lei, crescendo, non andavano più bene! Allora mi misi a studiare d’impegno e facilmente dimostrai di essere brava in tutto, anche in matematica, che inizialmente sembrava essere il mio punto debole. Iniziai a studiarla senza seguire il libro, troppo complicato, bensì scrivendo quello che l’insegnante spiegava a scuola con le sue parole e con le figure geometriche ed espressioni algebriche che scriveva alla lavagna. Ne venne fuori un quaderno ordinatissimo, perché io tenevo alla precisione, e perfettamente comprensibile perché le parole del professore venivano da me tradotte in maniera semplice ed efficace.
Una volta che il professore era arrabbiatissimo perché la scolaresca era disattenta, mi «beccò» che stavo appunto scrivendo quello che lui aveva appena spiegato e, pensando che stessi facendo qualcos’altro, mi redarguì, sequestrandomi il famoso quaderno. Io ero terrorizzata mentre lui lo sfogliava da cima a fondo per dieci minuti buoni. Alla fine, con un’espressione tipicamente siciliana, il professore disse: «Ah! Questo faceva, signorina!» – allora si dava del «lei». «Tutte dovreste fare lo stesso.» A farla breve, tutta la classe copiò il mio quaderno, con notevole miglioramento generale di comprensione in matematica. E io passai dal 5 all’8!
Avevo solo nove anni e mezzo quando, precocemente, ero diventata «signorina», come si diceva allora. In effetti, però, io ero sempre rimasta una bambina serena e piena di sogni. Abitavamo al primo piano di una casa le cui finestre davano su un giardino. Di fronte c’era la casa di un’amichetta di scuola di mia sorella con un fratello poco più grande. Su questo giardino si ergeva anche la fiancata di un’altra casa a due piani di proprietà della famiglia di un notaio, persona molto seria, ma di assai bassa statura. Allora ai miei occhi quell’uomo non era un’eccezione, perché anche il re Vittorio Emanuele III era uguale a lui.
Aveva due figli: uno basso come lui ma molto allegro e simpaticissimo, e un altro, Attilio, di statura normale per la sua età, circa dodici anni e un po’ tondo. Indossava sempre pantaloncini neri corti che mettevano in mostra le sue gambe grassocce e portava camicie bianche con i pizzi lunghi. Ragion per cui, con mia sorella e le sue amichette, lo avevamo soprannominato «pizzi bianchi». Aveva, però, un viso bellissimo, con lineamenti degni di un angelo, occhi castani molto espressivi. Quello che più mi colpiva, poi, era un sorriso aperto e comunicativo con una fila di denti perfetta. Quando rideva, gli spuntava un pezzetto di lingua tra i denti e io rimanevo incantata a guardarlo. Era vivace, impulsivo, sempre pronto a inventare giochi e a esserne il protagonista. Quando non gli consentivano di venire con noi ai giardini o al Palatino insieme agli altri nostri amici, con la scorta sempre vigile di mia madre, eravamo noi a scendere nel giardino. E allora lui si arrampicava a una finestrella della sua casa che dava sul giardino e trovava il modo di chiacchierare con noi e con gli altri e di partecipare ai nostri giochi. Gli anni scorrevano tra la scuola e i momenti che potevamo stare tutti insieme a giocare.
Quando avevo undici anni nacque mio fratello. Per me era un bambolotto vivente e quando potevo mi dedicavo a lui per accudirlo e farlo giocare. Lui era attaccatissimo a me, mentre mia sorella non aveva troppa pazienza. Proprio per portarlo a spasso, avevamo più occasioni per andare ai giardini con la mamma, che volentieri accompagnava noi e gli altri amichetti. Erano momenti veramente felici quelli che trascorrevamo sui prati verdi del Palatino, del Colle Oppio, e con la bicicletta che ci avevano regalato a Natale.
Purtroppo, però, poco dopo ad Attilio morì il padre. La notizia mi sconvolse. Era la prima volta che l’ombra della morte mi veniva vicina. Pensavo al dolore di Attilio in mezzo ai familiari sconvolti dalla perdita di quello che era il perno della famiglia, del padre, per tutti loro fonte di saggezza e di sicura protezione. Vidi dalla finestra la bara portata anche da Ernesto e Attilio che usciva dal portoncino della loro casa e sentii una pena tremenda, come non ne avevo mai sofferta una prima. Attilio, poi, si muoveva piano con il peso della bara sulla spalla e, continuamente, la baciava. In quel momento capii che ero innamorata di lui.
Dopo qualche tempo noi cambiammo casa ma non andammo a vivere molto lontano e rimanemmo sempre in contatto con i nostri compagni di gioco. Seppi così che lo zio di Attilio, che non aveva figli, dimostrava una vera predilezione per lui e aveva cominciato a seguirlo anche negli studi. Attilio era molto intelligente ma non era molto dedito allo studio. Intanto eravamo, ormai, adolescenti e non si andava più ai giardini a giocare. In compenso, andavamo d’estate al mare tutti insieme con il trenino di Ostia. Oppure, d’inverno, a ballare. La mamma ci consentiva di farlo sia a casa nostra sia a casa di un mio cugino più grande che aveva un ampio salone. Si erano uniti alla nostra comitiva altri amici e amiche di mia sorella. Quasi sempre compagni di scuola prima e, poi, di studi superiori.
Ballare mi piaceva immensamente, anche perché c’erano allora i film di Ginger Rogers e Fred Astaire e delle melodie intramontabili. Ero molto agile e leggera e potevo stare tra le braccia di Attilio, che amavo e sognavo più che mai, senza che lui, però, lo immaginasse minimamente, perché non mi sentivo bella. Lui invece era diventato un bel ragazzo snello, elegante, fiero ed era visibilmente corteggiato dalla parte femminile del nostro gruppo. Con me si comportava amichevolmente, come un fratello maggiore, mentre lui era sempre il «caporione» insieme a mia sorella. Io sapevo di non avere alcuna speranza che potesse accorgersi di me e contraccambiare il mio amore. Me ne struggevo ma, contemporaneamente, non avevo smesso di sognarlo. Nella mia modestia e umiltà ero diventata francescana, grazie a uno straordinario frate, padre Marcello, che mi aveva invogliato a entrare nel circolo di ragazze del coro. Avevo imparato quella che, poi, è stata la mia regola di vita: essere sempre «serena, umile e gioconda».
Ero anche certa che se il Signore non mi avesse concesso quello che speravo, avrebbe però esaudito, alla fine, le mie preghiere facendomi incontrare un grande amore corrisposto e meraviglioso, proprio come sognavo.
Attilio veniva a casa nostra a trovarci qualche volta. Parlava volentieri con mia madre, che teneva in grande considerazione e che lo conosceva fin da bambino. Parlava degli studi, dei fratelli (ne aveva un altro, più grande di lui, Gino, che era diventato il suo modello), della madre, sempre cagionevole di salute, delle due vecchie zie che lo adoravano. Io ero sempre un po’ in disparte. Non riuscivo a essere disinvolta come con gli altri. Mi accontentavo di adorarlo in silenzio e, poi, quando se ne andava, cominciavo a sognare di essere insieme a lui, di parlargli, di essere la sua unica ragazza! Lui però, con il tempo, di ragazze cominciò a frequentarne parecchie, e le sue visite si fecero più rare.
Io cominciai a lavorare in ufficio. Non avevo potuto continuare a studiare per questioni economiche. I professori dicevano che avrei dovuto fare il liceo artistico in considerazione della mia abilità in disegno, soprattutto come ritrattista. Infatti riuscivo a conferire ai visi che disegnavo la loro espressione viva e naturale. Cominciai ad avere altre amicizie con persone incontrate sul posto di lavoro. Nel tempo libero andavo a pattinare, avevo una bicicletta e mi muovevo liberamente, andavo a fare gite con nuovi amici di mia sorella e miei. La domenica si ballava sempre. Qualche volta veniva anche Attilio, ma poi partì per fare il militare.
C’era la guerra e lo mandarono in Grecia. Io gli scrivevo delle lettere molto allegre – sapevo scrivere bene. Lui mi rispondeva. Una volta gli mandai una mia foto, molto ben riuscita, fatta al mare, in pantaloncini, dove spiccavano le mie gambe che erano veramente belle, con la dedica: «Per essere più vicina al cuore di un soldato». Poteva sembrare patriottica! Poi ci fu l’8 settembre e non avemmo più notizie di lui.
Mia sorella aveva conosciuto un giovane universitario molto alto, di nome Alberto, che aveva un fratello più piccolo, Mario, poco più giovane di me. Diventammo una coppia di ballerini affiatatissima. Penso che lui avesse una cotta per me, ma a me piaceva molto il fratello, e cercando di dimenticare Attilio, provai a innamorarmi di lui. Ma non funzionò, anche perché lui mi credeva infatuata del fratello. In quel periodo comunque conobbi altri giovani, tutti granatieri, alti e belli. Uno, di nome Amleto, cugino di un noto cantante di allora, si innamorò di me. Per lui ero il primo amore. Mi commosse molto, anche perché sapevo quanto si soffre a non essere ricambiati. Ma dovetti subito dirgli francamente che il mio cuore era altrove. Ci rimase malissimo (ancora, dopo anni, venne al ristorante di mio padre per avere mie notizie e si commosse nel vedere mia figlia che, per caso, era lì dai nonni e aveva due anni).
Conobbi anche un altro giovane militare, Sergio, che era tornato dalla Russia un po’ malato ma si stava riprendendo. Poiché era interessato a tutto ciò che era artistico e molto capace, mi insegnò a lavorare la creta e cominciai a modellare le figure del Presepe e ne feci alcune bellissime. Tra noi nacque qualc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Maria Rita Parsi
  3. Amori imperfetti
  4. Prefazione
  5. Introduzione
  6. Parte prima - CONOSCERSI
  7. Parte seconda - FIABARE
  8. Parte terza - COMUNICARE
  9. Parte quarta - RIFLETTERE
  10. Parte quinta - RICERCARE
  11. Copyright