Quando il Maestro arrivò al Colle, verso la pianura stavano finendo di costruire la stazione, e attorno a quella già nascevano le prime case del nuovo borgo. Nascevano come funghi, e la gente sembrava eccitata dall’arrivo della ferrovia che avrebbe portato il treno e il progresso. Ancora l’edificio principale non era pronto, cosicché i passeggeri dovevano scendere molto più indietro, verso il Padule Lungo, e potevano raggiungere Colle Alto cogliendo al volo qualche rara carrozza o la gentilezza di un contadino per un passaggio su un carro trainato dai buoi.
Dalla strada che saliva verso il paese arroccato da millenni sulla collina si potevano vedere con chiarezza i campi tagliati in due dalla ferrovia: una ferita trasversale che dal Padule si ficcava in mezzo alla geometria dei poderi, delimitati dai fossi e dalle file di cipressi. Sembrava che il mondo fosse diviso nettamente: a sinistra, lungo il nastro ancora bianco della massicciata, una moltitudine di persone, carri, attrezzi, una certa confusione di formiche che andavano e venivano fra il tracciato della ferrovia e le case in costruzione. A destra, poco oltre la stazione, dalla parte in cui già era stata posata la striscia ferrata il mondo era in pace, e sui campi divisi dal sentiero del treno si poteva al massimo scorgere qualche debole ricciolo di polvere sollevato da un aratro.
Il Maestro aveva chiesto un passaggio a un fattore sul suo carro, dopo averlo aiutato a caricare gli ultimi sacchi di fagioli sul treno che sarebbe subito ripartito verso la città. Figlio di contadini, l’odore dei legumi e il contatto con la juta rasposa per un momento l’avevano fatto sentire di nuovo a casa, mitigando una certa sensazione di essere in qualche modo un traditore perché era l’unico, della sua famiglia, ad aver studiato.
Era arrivato da sud, da un paesino vicino a Sapri non troppo diverso da Colle, arroccato anch’esso sopra una collina, ma senza ferrovia e con più miseria. Era arrivato con due valigie: nella prima qualche mutanda, qualche paio di calze, due camicie e un vestito nero uguale a quello che indossava. L’altra era piena di libri, e pesava come un morto.
Non appena il treno si mosse, il Maestro si sentì affogare per un istante, e rimase a guardare il convoglio dei vagoni scivolare lentamente verso la direzione dalla quale era arrivato finché il fattore, le valigie già sul carro, non lo chiamò per partire. Allora si avvicinò, si pulì i palmi sui pantaloni e allungò la mano per presentarsi, come si fa tra uomini. Disse il proprio nome e il cognome, e ringraziò per la cortesia.
Il fattore non era uomo di grandi discorsi. A sentire quella parlata strana, che mai aveva risuonato in quei luoghi, pensò che la ferrovia, oltre a portare semi e verdure, avrebbe scaricato laggiù chissà quale gente. Il mondo era grande, e ora Colle si era agganciato a qualcosa che non conosceva. Comunque quel giovane sembrava a posto. Parlava con un accento strano ma corretto. Aveva aiutato, come si usa tra persone civili, e ora alla mano che porgeva bisognava rispondere anche per l’ospitalità che, tra uomini, si deve.
Fecero il viaggio in silenzio, l’uno per l’imbarazzo verso uno straniero, l’altro perché immerso nella malinconia e intento a osservare quel mondo sconosciuto nel quale la sua nuova vita sarebbe presto cominciata.
Solo quando ormai, assieme alle prime case del Colle, fu prossima la porta delle mura, il fattore domandò dove avrebbe potuto lasciarlo, e il Maestro rispose:
«Dov’è un albergo, o qualcuno che dia a pigione una stanza.»
Poi fece qualche secondo di pausa e, come vergognandosi di quello che stava per dire, abbassando lo sguardo quasi sussurrò:
«Sono il nuovo maestro, vengo a insegnare.»
Il conducente si voltò di scatto verso di lui:
«Il Maestro» disse, «i miei complimenti!» Poi aggiunse: «La vedova Bartoli vi potrà ospitare», e tacque fino a che non si fermò di fronte a una casetta di pietra, appena prima delle mura.
Scese in fretta, bussò e avvertì la donna che era arrivato il nuovo maestro. Quindi strappò dalle mani del giovane il bagaglio che questi si era affrettato a scaricare.
«Maestro, non vi scomodate. Lasciate fare.»
Gli posò le valigie sul marciapiede e si tolse il cappello. Con una certa deferenza gli porse ancora la mano.
«Vedrete, vi troverete bene qui al Colle. Siamo gente semplice, ma amiamo la vita. La vita tranquilla, lo stare in pace. Vedrete, sono convinto che vi piace.»
Se ne andò toccando la tesa del cappello, lasciando l’altro nelle mani della vedova Bartoli, l’affittacamere.
Dall’alto della scala l’uomo si sentì chiamare:
«Signor Maestro, entrate che ormai si fa fresco.»
Lui guardò ancora un attimo verso la pianura, verso il sole che tramontava, e dietro al Padule Lungo gli sembrò per un istante di veder brillare il suo mare.
La vedova Bartoli era una donna piacente, sulla trentina, rimasta sola dopo che il marito, capomastro, era morto durante i lavori del viadotto, giù al Padule, schiacciato dalle ruote della locomotiva che lo avevano agganciato per il mantello mentre controllava la tenuta di uno scolatoio durante un temporale. Il coniuge le aveva lasciato quella casa di sei stanze, nella quale viveva col figlio Bartolo, di otto anni, il dolore per quella morte improvvisa e straziante, e la fobia perenne per ogni mezzo di locomozione con le ruote. Il treno in testa.
Quando il fattore scaricò il Maestro davanti alla sua porta, nella casetta di pietra vicino alle mura alloggiavano a pensione due capisquadra del cantiere che stava erigendo la stazione. La terza stanza fu occupata dal nuovo venuto, una sistemazione che gli piacque subito: il locale non era ampio, ma era arredato con sobrietà e gusto. Un piccolo letto, un comodino, un armadio di ciliegio e un tavolo accostato al muro. Svuotata in un attimo la valigia degli indumenti, egli ripose con cura i suoi molti libri nello spazio che avanzava nell’armadio. La casa era posta sul limite della collina, così dalla sua finestra poteva vedere quasi tutta la pianura, con la ferrovia che avanzava, le case in costruzione, i campi, le strade.
La vedova era una persona discreta, ordinata e puntuale. Per una cifra accettabile si accordarono sulla pigione della stanza, la colazione e il pasto serale che consumavano tutti insieme nella grande cucina, i tre ospiti, la padrona di casa e il piccolo Bartolo. Subito dopo cena i capisquadra uscivano per un giro all’osteria, dal quale tornavano non troppo tardi, per il letto, mentre il Maestro non era solito uscire, e rimaneva in camera tra i libri e la scrittura fitta che riempiva una gran quantità di fogli.
Era molto preso dal nuovo lavoro, dai trenta ragazzi della scuola, e quel che restava del tempo impiegato a preparare lezioni e correggere compiti ai bimbi lo spendeva nella lettura e negli scritti che vergava di notte, fino a ora tarda. La domenica poi, non solo non andava come gli altri alla messa, ma si dedicava a passeggiate solitarie lungo la ferrovia, un libro in una mano, e nell’altra un toscano.
Questa sorta di isolamento colpì la vedova Bartoli, forse la incuriosì. Di certo lo reputò strano. Qualche volta, timidamente, tastò il terreno, si informò con discrete domande se il Maestro avesse bisogno di qualcosa, se tutto funzionasse, a casa e alla scuola, ma sempre ottenne cortesi risposte tranquillizzanti.
Un giovane così prestante, istruito e gentile, perché si ostinava a stare in disparte? Certo, Colle Alto non era una Mecca, ma pur c’erano un paio di buone osterie, e una sala, sotto il Comune, dove ogni settimana una Filarmonica suonava per il ballo. E poi, quella maledetta ferrovia avvicinava di molto la città, e con la città le delizie e i divertimenti che un giovane sano non avrebbe evitato.
Così, giorno dopo giorno, quasi senza accorgersene, la vedova iniziò a pensare alla vita del Maestro, un’abitudine che come una goccia leggera su una roccia scavò una piccola grotta dentro la sua solitudine. Infatti, pur se presa dai ritmi pieni delle sue incombenze di madre e di pensionante che aveva da badare a tre persone, dal giorno della morte del marito la sua esistenza era segnata dalla solitudine.
Fosco Bartoli non era mai stato uomo di tante parole. Spirito piuttosto pratico, gran lavoratore e di carattere un po’ ombroso, per la sua donna era stato comunque un marito leale e paziente. Soprattutto era un uomo capace di ascoltare, e negli anni in cui aveva diviso il tetto con lei aveva sempre avuto per la moglie un momento di attenzione, uno sguardo di complicità, fosse anche soltanto un rapido cenno di intesa che a lei bastava per sentirsi parte di qualcosa di forte, di quanto fosse necessario per affrontare la fatica di un’esistenza semplice, le cattiverie della vita, un dolore grande come la perdita della loro prima figlia che un torcibudello si era portata via in un amen.
Dalla sera maledetta in cui vennero a prenderla per portarla di corsa giù al viadotto di fronte al suo uomo strapazzato a morte dal ferro della locomotiva, non era più riuscita a trovare da nessuna parte, in nessuna persona, qualcosa che le potesse ridare almeno un po’ di quel senso di pienezza.
Erano passati i mesi, e lei si industriava a tirar su un povero bimbo che del padre avrebbe serbato un ricordo lontano, riempiva le ore a pulire, tenere in ordine la casa e a occuparsi degli ospiti, e in quel modo il tempo delle giornate, messo in fila con il ripetersi di scadenze sempre uguali, se ne andava velocemente e si perdeva nell’orizzonte azzurro e grigio del Padule. Ma la notte, quando i due capisquadra si erano ritirati, il piccolo Bartolo già perso tra i sogni, nella casa calava il silenzio e sulla vedova piombava il peso della solitudine.
Allora rimaneva a lungo con gli occhi aperti nel buio, ad ascoltare quel silenzio, pensando, più che alla sua vita passata, a quella che avrebbe potuto passare assieme al suo uomo se quelle ruote maledette non l’avessero stritolato, e questo pensiero era diventato il compagno delle sue notti, l’unico testimone di un sottile dolore che le impediva il riposo o, a volte, la sola tisana che la portasse dolcemente verso il sonno.
Fu con un certo stupore, dunque, che nel mezzo di una notte si sorprese a pensare alla vita del Maestro, immersa com’era nel desiderio di scoprire qualcosa di più su di lui, sulle sue abitudini schive, su quelle lunghe passeggiate solitarie. Quasi si spaventò nel constatare che già da molte notti questi pensieri l’accompagnavano per le stanze della casa, o giù per la discesa verso il Padule, dove immaginava il Maestro a passeggiare non più da solo ma in sua compagnia, leggendole un libro e raccontando di sé, del suo lavoro.
Se ne rese conto. Il cuore le fece un salto nel petto, e subito si rigirò tra le lenzuola come per scansare quel pensiero, e allontanarlo, e lasciarlo affogare nel pesante senso di colpa che già sentiva salirle dentro, neanche avesse tradito il marito e questi l’avesse sorpresa a far qualcosa di indecente con un altro uomo. Nella sua casa. Nei suoi pensieri.
Eppure, nonostante cercasse il sonno, e nel cercarlo si sforzasse di tornare all’antica abitudine di immaginarsi Fosco Bartoli e una vita che mai sarebbe stata accanto a lui, dentro quei sogni l’imponente figura del marito pian piano si mutava, e il suo volto finiva per prendere sempre i contorni giovani e gentili del Maestro e, addirittura, talvolta questi si stemperavano, si addolcivano ancor più e scivolavano assieme a lei dentro il conforto di un sonno caldo e ristoratore nel quale, non poche volte, il suo pensionante aveva osato rivolgerle lo stesso sguardo d’intesa con cui il defunto la sapeva tranquillizzare.
Vivere e sognare, confondersi in un’immagine avvicinandosi lentamente verso un volto. Alzare la mano in un saluto, che è una speranza fantasticata nel buio. Vivere e sognare a volte è tutt’uno, e così la vedova, senza quasi rendersene conto, sovrappose al ricordo dolce di un marito che più non aveva il viso ormai abituale del Maestro, le sue mani grandi, i suoi gesti garbati. Persino il suo odore, misto dell’afrore di toscano, dell’inchiostro e delle carte che ingombravano la piccola camera affittata. La goccia dei suoi pensieri aveva scavato una grotta e lei la colmò ben presto con l’amore, con una nuova gentilezza, una radiosità e una luce che la fecero fiorire.
I pigionanti stessi si resero conto di quella primavera, di una leggera elettricità che contagiò anche il piccolo Bartolo e lo rese per sempre quel bimbo agile e allegro che sarebbe stato. Persino il Maestro rimase confuso da quella manifestazione di amore vitale, e pur nell’imbarazzo di una situazione delicata, una domenica pomeriggio trovò il coraggio per invitare la vedova a unirsi alla sua consueta passeggiata lungo la ferrovia. Lui, un uomo ormai fatto, barba, panciotto e il suo bel fiocco nero sulla camicia immacolata, le porse l’invito quasi sottovoce mentre con le mani tormentava la tesa del cappello che si era levato in segno di rispetto.
La vedova accettò con un sorriso, con tanta naturalezza da far apparire al Maestro eccessivo il suo timore, e con altrettanta naturalezza gli porse il braccio appena fuori di casa, mentre con l’altra mano badava che Bartolo si mantenesse al suo fianco. Nel breve tratto di strada che dalle mura scendeva verso i campi e poi ancora più giù fino alla ferrovia, agli occhi pigri dei pochi abitanti del Colle che fuori dagli usci si godevano il tepore di una primavera precoce l’andare tranquillo di quelle tre persone parve davvero una cosa naturale.
Avvolta dall’alone magico di un amore temperato in tante notti di solitudine, la felicità che la vedova Bartoli sparse attorno a sé acquietò in un istante ogni possibile scandalo o pettegolezzo per quell’unione tra il giovane Maestro e una donna ben più vecchia e che ancora vestiva il lutto. Forse fu un incantesimo, forse un improvviso buon senso che precipitò sul Colle, ma dal momento in cui con quella passeggiata il nuovo amore si dimostrò palese, questo venne salutato senza alcuno stupore, come l’evidenza di un’unione naturale, persino antica. L’unico vezzo che il paese si concesse, senza mai perderlo, fu quello di continuare a chiamare la donna, anche se ormai ufficialmente unita alla vita del Maestro, come “vedova Bartoli”.
Se per il Maestro il viaggio dalle coste campane al Colle era stato lungo e pesante, più pesante ancora gli parve la lontananza dai luoghi in cui era nato, si era formato e aveva la famiglia.
E anche se considerava una missione l’andare lontano da casa verso un nuovo lavoro e verso un nuovo mondo, ogni volta che il tramonto sul Padule Lungo accendeva l’acqua di luce una mano l’afferrava stretto per la gola e quasi non lo lasciava respirare. Una presa dalla quale riusciva a liberarsi con lo strattone di un solo pensiero: la convin...