L'Italia de noantri
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L'Italia de noantri

Come siamo diventati tutti meridionali

  1. 192 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'Italia de noantri

Come siamo diventati tutti meridionali

Informazioni su questo libro

Noantri è la parola chiave dell'Italia di oggi. L'Italia dei clan, delle famiglie, delle fazioni. Del dominio dei rapporti personali. Della politica divenuta prosecuzione degli affari con altri mezzi. Un paese mai così frammentato, eppure mai così uguale dal Piemonte alla Sicilia: unificato dall'egemonia di Roma e del Mezzogiorno.
"Forse al Nord si evade il fisco meno che al Sud? Forse il traffico è meno congestionato e non si suona il clacson per strada? Forse al Nord non si paga il pizzo, non si pratica l'usura, non si sfrutta la prostituzione, non si cede al racket, non si accolgono gli investimenti della camorra?"
Aldo Cazzullo parte dalla sua città, Alba, dove ancora trent'anni fa "i miei nonni non avrebbero mai mangiato una pizza", e dove ora si vive di turismo quasi come a Taormina. E dalla sua terra, le Langhe, cuore dello scandalo del Grinzane Cavour e di un Piemonte che ha rinunciato all'idea di diversità dal resto del paese. Il viaggio prosegue nella Roma del Palazzo e dei Vanzina, del Vaticano e dei Cesaroni, capitale de noantri - "perché escludere se puoi includere?" - di un'Italia sempre più romanocentrica. Conduce al Sud, che nel costume e nel linguaggio, dalla mafia a Padre Pio, ha ormai imposto il suo primato culturale al Nord. Racconta come i nuovi italiani, i figli degli immigrati, stiano scalzando gli italiani "veri", che hanno sempre meno voglia di lavorare. Analizza la meridionalizzazione di Pdl e Pd. Entra nella Chiesa, svelando storie di sacerdoti e cardinali, con i retroscena dell'elezione e del pontificato di Benedetto XVI. E trova, in fondo al vaso di Pandora dei nostri mali, i motivi della Speranza.

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Informazioni

VI

Il Cavaliere di Napoli

«Song’e Napoli» dice la maglietta. La indossa nella foto un uomo sorridente, accanto a Noemi Letizia che festeggia nella sala Miami di un locale di Casoria il suo diciottesimo compleanno, a sua madre, titolare della profumeria Tiffany a Secondigliano, a suo padre, e a Silvio Berlusconi.
«Quella maglietta “Song’e Napoli”, e tutta la vicenda che simboleggia, passerà alla storia come la canotta di Craxi» mi ha detto il giorno dopo un importante uomo politico, ricordando il leader socialista sudato e stanco al congresso di Bari (estate 1991): la prima crepa nel muro, l’inizio della fine. ’O trappolone, come ha titolato a tutta pagina «Libero», sopra un articolo di Gian Luigi Paragone, figlio di una famiglia napoletana divenuto direttore della «Padania», quotidiano della Lega Nord.
I risultati elettorali del 2009 indicano che per il momento la fine è lontana. Berlusconi ha perso due punti alle europee rispetto al voto del 2008, ma ha vinto le amministrative, al Nord come al Sud. Segno che il Cavaliere di Napoli agli italiani non dispiace. Ai napoletani, ovviamente, piace moltissimo: una provincia governata da quindici anni dal centrosinistra, che vi candidava l’ex ministro Nicolais, è passata al primo turno con il 56% a uno sconosciuto scelto dal Cavaliere.
La primavera del 2009 è stata dura. «La campagna elettorale me l’ha fatta mia moglie» ha detto Berlusconi stesso. Un colpo che avrebbe pregiudicato la carriera di qualsiasi leader politico in qualsiasi paese – un divorzio annunciato a un mese dal voto, con una motivazione infamante – è stato rubricato sotto la parola d’ordine «gossip» ed è passato senza fare troppi danni, almeno finora. Poi è subentrata un’altra storia meridionale, incentrata su un’altra donna del Sud, Patrizia D’Addario, e su un’inchiesta della procura di Bari. In ogni caso, la stagione di Berlusconi durerà ancora, ben oltre la notte di Casoria, le serate romane a Palazzo Grazioli e quelle sarde a Villa Certosa. La maglietta «Song’e Napoli» è sì diventata un simbolo, ma non necessariamente negativo.
In tre anni, dal 2006 in poi, Berlusconi a Napoli è diventato «il Maradona della politica», come l’ha definito un giornalista sveglio (e napoletano), Fabrizio d’Esposito del «Riformista». E il Pdl si è andato meridionalizzando. Superato dalla Lega in molte città del Nord, da Bergamo a Verona, dalle valli bresciane alla Marca trevigiana, da Cuneo a Reggio Emilia, il Popolo della Libertà supera il 50% in molte città del Sud. A Berlusconi viene rimproverato di concentrarsi sugli affari del Mezzogiorno – il G8 all’Aquila, il Ponte sullo Stretto, i buchi di bilancio del Comune di Catania – più che sui guai del Nord: Malpensa, l’Expo, le pedemontane venete e lombarde; per un premier nato all’Isola, uno dei quartieri più milanesi di Milano, e che ha chiamato al governo otto ministri lombardi su 23, non era scontato. In particolare è la fatale Napoli ad attrarre le sue energie. L’emergenza rifiuti, i consigli dei ministri spostati nel Palazzo Reale, i viaggi a cadenza settimanale, l’inaugurazione solenne del termovalorizzatore di Acerra. Ma anche Mariano Apicella, l’ex posteggiatore divenuto un simbolo del berlusconismo. Elena Russo, una delle attrici segnalate a Saccà nell’ormai celebre telefonata, protagonista dello spot – stile Sophia Loren giovane – per celebrare la vittoria sui rifiuti. Le gemelline De Vivo, quelle dell’edizione 2008 dell’«Isola dei famosi», che il Cavaliere conosce già nel luglio 2007, all’hotel Vesuvio: arriva Gigi D’Alessio con le gemelline, lui le imbarca a Capodichino sul suo aereo in partenza per Roma, offre a bordo la cena preparata da uno dei migliori ristoranti di Napoli, Mimì alla Ferrovia, e alla fine telefona a Emilio Fede segnalandogli le De Vivo come meteorine.
La hall dell’hotel Vesuvio, quando Berlusconi scende a Napoli, è uno spettacolo da non perdere. Io me lo sono goduto più volte, per esempio l’ultimo giorno della campagna elettorale 2006. Il più bell’albergo della città è presidiato sin dal mattino da trafelati politici locali e splendide ragazze, in agguato lungo il percorso del Cavaliere, nella speranza di rivolgergli una supplica o anche solo di fotografarlo. Quando arriva, c’è sempre qualcuno che dalla folla grida: «Viva Silvie! Viva Perluscone!». Schierato al completo, il comitato «Silvio ci manchi», animato dalle tre fanciulle – Virna Bello, Emanuela Romano, Francesca Pascale – celebri per aver portato a Villa Certosa un barattolo con «l’aria di Napoli», un regalo alla Duchamp che a Berlusconi piacque molto, e da matrone come la signora Vittoria di Sant’Antonio Abate, che ai comizi si presenta avvolta nella bandiera del Pdl: «Songo ’na donna fedele, ma se Silvie me lo chiede sono disposta a tradire ’o marito mio». Scene che ricordano i resoconti di Giorgio Bocca delle passeggiate di Achille Lauro nei bassi, accolto da grida tipo «Cummannà, si’ ricco!», «Cummannà, vuie nun avita murì maie!», «Cummannà, vuie tenite ’o piscione!», omaggio alla virilità del Comandante che oggi avrebbe valenza politica.
Fino alla festa di compleanno a Casoria, un posto dove non torna più nemmeno Nino d’Angelo, che pure qui è nato: «Ma tu a Casoria nun ce rieste maie / ce passe quacche vota e te ne fuie», tu a Casoria non ti fermi, ci passi e scappi. Magari.
Era una splendida mattina del febbraio 2001, ed eravamo scesi a Napoli in blocco. Solo della «Stampa» eravamo in tre, Filippo Ceccarelli, Augusto Minzolini e io. C’erano gli inviati di tutti i giornali italiani, la Rai a battaglioni affiancati, e pure Bruno Vespa. Il «Corriere» aveva mandato una pattuglia guidata da Francesco Merlo. L’avvenimento era di quelli da ricordare. Per la prima volta Bossi, fondatore della Lega Nord, andava in visita a Napoli. E non in una circostanza qualsiasi: alla conferenza di Alleanza nazionale che avrebbe sancito il patto con Berlusconi, sceso all’hotel Vesuvio con un berrettino blu da marinaio, e con quel Fini che ancora l’anno prima proclamava: «Con Bossi non prenderò neppure un caffè». Presero invece una pizza da Brandi.
La sera precedente avevo telefonato a Bossi. E mi ero fatto raccontare gli altri suoi viaggi a Napoli, da privato cittadino. Il Senatùr assicurò che non solo non aveva niente contro il Sud, non solo aveva sposato una siciliana, ma amava molto Napoli e «da quelle parti» aveva anche avuto una fidanzata. Gli chiesi quali locali conoscesse, quale fosse la sua pizza preferita, quale la canzone – Maruzzella –, quale la pièce di Eduardo. Lui mi rispondeva paziente, e ogni volta mi chiedeva, con l’esitazione del timido che in realtà è: «Sì, ma l’intervista quando comincia?». Non ebbi cuore di dirgli che quella era l’intervista, e improvvisai qualche domanda politica che mi guardai dal riportare nell’articolo.
Il Bossi filopartenopeo fu accolto dai delegati di An alla Fiera di Napoli con simpatia, a tratti con entusiasmo. Non c’era traccia delle tensioni e delle contestazioni previste. Lo feci notare a Merlo, e Francesco mi rispose: «Non ti devi stupire. Bossi è terrone nell’animo. Uno» aggiunse con un sorriso «che non ha mai lavorato in vita sua. Ai napoletani piace, perché in fondo lo considerano uno di loro».
«Scurnacchiate! Figlie ’n drocchia! Vattinne, tornatene al Nord!» Le grida e gli insulti con cui, un’ora dopo, il popolo di Napoli accolse la passeggiata di Bossi nei vicoli del centro sembrò dimostrare che l’analisi di Merlo era sbagliata. Invece era giusta. Bossi è davvero un «terrone del Nord», nel senso oleografico del termine. Pieno di estro e di fantasia. Inafferrabile, e inaffidabile. Uno che ha festeggiato tre volte una laurea che non ha mai preso. Uno che ha orari di vita più simili a quelli leggendari del pugliese Aldo Moro, solito lavorare di notte, che a quelli settentrionali: Bossi ama tirare mattina in pizzeria, e dormire sino all’ora di pranzo; rimase celebre la volta in cui il leghista Pagliarini, capogruppo alla Camera, si rifiutò di telefonare a casa Bossi per dirimere una questione, come gli chiedevano i colleghi del centrodestra: «Non posso. Ho paura di svegliarlo». E gli altri: «Ma è l’una!». «Sì, però se dorme ancora?»
Un capo meridiano, ma un vero capo. Da quando poi la malattia gli ha semiparalizzato il lato sinistro del corpo, il carisma di Bossi è cresciuto. Lo vedi passare zoppicando nel Transatlantico, e pare un generale ferito ma vittorioso. E i suoi eserciti non sono affatto relegati nel ridotto nordico. Anzi. Con le politiche del 2008, la Lega ha passato il Po. E con le europee 2009 è sbarcata al Sud.
La notte del 28 marzo 1994 l’Italia era sotto choc. Per metà incredula e sdegnata, per metà sollevata e felice. La metà felice si abbandonava a un’esultanza rivendicativa che non s’era mai vista nell’era democristiana. Giancarlo Vigorelli, giornalista destinato a una brillante carriera, percorreva i corridoi della Rai avvolto come Vittoria la matrona di Napoli nella bandiera di Forza Italia; e Giuliano Ferrara firmava un articolo intitolato E ora beccatevi il Berlusca.
Non è vero che la vittoria di Silvio Berlusconi fosse inattesa. Era anzi prevista, e nelle sue esatte dimensioni, da tutti i sondaggi delle ultime settimane. È che appariva impossibile alle segreterie dei partiti di sinistra, agli intellettuali democratici, a tutti coloro che si crogiolavano nella loro idea di superiorità ed erano convinti che il paese non potesse far altro che prenderne atto.
Per uno cresciuto nella Alba dove anche gli operai votavano Dc, la vittoria di Berlusconi sulla sinistra non poteva essere una sorpresa. Ricordo però che con i colleghi della «Stampa» ci scambiammo commenti sbigottiti. Il primo personaggio cui pensammo fu Bettino Craxi. Una vita dentro il più antico partito italiano, il glorioso Psi di Matteotti torturato a morte sull’auto nera e di Bruno Buozzi fucilato dai nazisti in fuga da Roma, quasi due decenni passati a contabilizzare l’onda lunga e a farsi un fegato così per guadagnare qualche punto, ed ecco il suo amico imprenditore che in tre mesi fonda dal niente un partito nuovo, lo chiama come un coro da stadio e ne fa il primo partito italiano. Quella notte noi non potevamo saperlo; ma le nostre erano esattamente le stesse parole che, dall’altra parte del Mediterraneo, a Hammamet, Bettino Craxi stava affidando a suo figlio Bobo nel salotto di casa, davanti alla tv.
La sera dopo, il 29 marzo, partecipai a un incontro pubblico con un politologo dell’università di Torino. Un professore esperto di numeri più che di teorie, che in campagna elettorale aveva dato qualche consiglio alla candidata della sinistra nel collegio di Torino centro, la nostra collega della «Stampa» Stefanella Campana. Stefanella aveva perso. Ma la sconfitta più clamorosa era stata quella del segretario torinese del Pds, un quarantenne di sicure capacità, Sergio Chiamparino, dolorosamente battuto nel sacro collegio di Mirafiori da un altro personaggio che alla «Stampa» conoscevamo bene: Alessandro Meluzzi, lo psicologo che intervistavamo a colpo sicuro quando si voleva mettere in pagina qualche bizzarria tipo il gorilla gay, l’inconscio dei cani e i brutti sogni dei gatti.
Quella sera il politologo tenne una sorta di lezione, con la cartina d’Italia sullo sfondo. Una lezione che pareva una profezia di sventura. All’epoca il suo nome non era molto noto fuori dagli ambienti accademici di Torino, ma quindici anni dopo sarebbe diventato uno dei più importanti editorialisti italiani e fustigatori della sinistra, Luca Ricolfi. Allora la sua tesi era che la sinistra si andasse meridionalizzando. Gli operai del Nord votavano Berlusconi o Bossi un po’ perché erano stanchi dei politici di professione, un po’ perché anche loro partecipavano al sogno consumista delle tv commerciali e al radicamento identitario della Lega. La sinistra invece si andava ritirando dai suoi insediamenti tradizionali e si sarebbe rifugiata al Sud, dove la politica è denaro pubblico e fonte di sostentamento; e i suoi nuovi elettori non sarebbero stati operai e impiegati, ma dipendenti pubblici, insegnanti di latino e greco, pensionati, disoccupati e vari clientes.
Meno di tre mesi dopo, la meridionalizzazione della sinistra sembrò essere smentita dal voto europeo, in cui Pds e Popolari arretrarono a vantaggio di Berlusconi e Fini. Altre volte è parsa invece confermata. In questi quindici anni, il voto politico del Sud (Sicilia esclusa) ha sempre fluttuato, nella direzione del vento: ora premiando la sinistra, che alle regionali del 2005 ha vinto in Abruzzo, Puglia, Calabria, Campania, Basilicata; ora punendola, come alle politiche del 2008 e alle successive europee, quando le stesse regioni sono andate a destra. Il voto del Nord, invece, è sempre stato costante, e in particolare in quel Nordest divenuto l’area più dinamica del paese: lassù la sinistra non la vogliono neppure dipinta. Resta un dato: su quattro tessere del Pd, una è a Napoli.
«Anticomunista ormai da qualche tempo, visitai nel 1989 la sede svuotata della Sed, il partito comunista della Germania orientale, e feci i dovuti raffronti tra l’elemento spettrale di una cattedrale atea in via di abbattimento e il bonario declino della nostra basilichetta incredula ma cattolicoromana. La sede berlinese di Honecker era il contenitore immenso delle vite degli altri, puro Orwell. La Direzione del Pci era una specie di vita di noialtri, più familiare, borghese, meno astrale, meno irrigidita gerarchicamente; ma non svaccata, intendiamoci, insomma qualcosa di comune c’era. Su quella stessa terrazza di via delle Botteghe Oscure che aveva ospitato una sessione fotografica in cui Antonello Trombadori ritraeva le bellezze da vacanze romane di Marcella e Giuliana, le sorelle De Francesco, compagne di vita di Maurizio Ferrara e di Franco Ferri, su quella stessa terrazza per un certo periodo, si favoleggiava, fu ricoverata per nasconderla alla vista di chiunque una mitragliatrice issata su un blindato, fatta pervenire ai compagni della Direzione da Stalin dopo l’attentato a Togliatti.»
L’autore di questo brano, Giuliano Ferrara, è il figlio di Maurizio e della «bellezza da vacanze romane» Marcella, già segretaria di quel Togliatti che sotto il terrazzo di Botteghe Oscure, al sesto piano, conduceva nel peccato la sua vita familiare con Nilde Iotti. E l’antitesi tra le vite degli altri – a Berlino – e la vita di noialtri – a Roma – è perfetta.
Il Partito comunista italiano era un partito di famiglie. Famiglie borghesi romane: oltre ai trombadori e ai Ferrara, i Bufalini, i Reichlin. Famiglie napoletane d’ascendenza liberale: gli Amendola, i Napolitano, i Ranieri. Famiglie romanizzate dal centralismo politico e nuziale: i comunisti si sposavano o comunque facevano famiglia tra loro, il torinese Gian Carlo Pajetta con Miriam Mafai figlia di grandi pittori, il lucano Giuseppe D’Alema con Fabiola Modesti militante romana. Hanno fatto politica (e giornalismo) a Roma i figli di Cossutta e di Rodano, di Chiaromonte e di Grieco, di Berlinguer e di Pajetta. Il Pci era davvero un «partito di noialtri», capace certo di esercitare un’egemonia sulle masse operaie e sulla cultura italiana, ma saldamente governato da un nucleo chiuso ed endogamico come un clan tribale: cementato da buone maniere e buone letture, ma anche da un senso di diversità e superiorità morale che la storia avrebbe finito per mettere in dubbio. Per quanto resista tuttora il mito del comunismo italiano, per cui un’idea sbagliata o criminale dalla Cambogia alle foibe carsiche, passata la frontiera iugoslava diveniva qui da noi giusta o quantomeno nobile.
All’inizio dell’aprile 2009 seguii una giornata elettorale in Campania con Massimo D’Alema, che mi invitò a fare un tratto sulla sua auto e mi parlò a lungo della sua storia politica: la vittoria del ’96, frutto non di uno sfondamento nel paese ma della tekné politiké (disse proprio così), dell’arte di scomporre lo schieramento avversario e allargare il proprio; la scelta di riscrivere nella Bicamerale le regole comuni con una destra tutt’altro che minoritaria; la necessità di rompere con la sinistra estrema. Ma fu nel discorso davanti agli amministratori napoletani che mi diede il titolo, cioè mi fornì lo spunto per il pezzo. D’Alema si guardò dall’attaccare Veltroni, ma criticò il suo slogan, o meglio la traduzione che Veltroni aveva dato allo slogan di Obama, «yes, we can». «Si può fare», sosteneva D’Alema, non funziona. Meglio sarebbe stato restituirlo letteralmente: «Sì, noi possiamo». Una punzecchiatura, nulla più. Ma non secondaria, visto che riguardava la parola-chiave della campagna elettorale. Una battuta che era anche un presagio di quanto attendeva il povero Veltroni dopo la sconfitta.
Il mattino dopo ripartii per passare una giornata con Giuliano Ferrara, leader della lista «Aborto? No grazie», destinata all’insuccesso. Nel pomeriggio era in programma un comizio in piazza Maggiore a Bologna, che fu sottovalutato dalla questura ma non dai centri sociali. Ferrara fu bersagliato da monetine, sputi, arance, bottiglie di plastica, sotto lo sguardo impotente di una manciata di poliziotti. Ma il momento peggiore non si vide in tv. Finito il comizio, Ferrara risalì sull’auto. Fui tentato dall’abbandonarlo al suo destino; poi mi dissi che non potevo mollarlo proprio allora. L’auto però non riusciva a lasciare piazza Maggiore. All’imbocco di ogni via di fuga trovava un muro di manifestanti. Che riuscirono a fermarla e la presero d’assalto a colpi di bottiglie, stavolta di vetro. L’agente alla guida e quello di scorta erano visibilmente impauriti, io più di loro, mentre Ferrara rimase impassibile, come in attesa del martirio. Per buona sorte i finestrini blindati ressero, e l’autista trovò un pertugio per portarci in salvo. (La giornata ebbe un seguito surreale: una delle ragazze che voleva farci la pelle querelò un poliziotto per una manganellata, forse l’unica data dalle forze dell’ordine che quel giorno le avevano semmai prese, e il direttore del «Foglio» investì quel che restava della sua sfortunata campagna per pagare le spese processuali del malcapitato.)
Fu parlando a ruota libera, per il sollievo dello scampato pericolo o per il rimpianto del mancato sacrificio di sé, che quel pomeriggio disse la sua sullo slogan di Obama e sulla traduzione veltroniana che non era piaciuta a D’Alema. Ferrara sosteneva di essere stato lui a mettere quel «si può fare» in testa al suo amico Walter, in un cinema di tanti anni prima, gridando un romanesco «se po ffà» per sdrammatizzare la scena cruenta di un horror. In ogni caso, la sua idea era che avesse ragione D’Alema. Che la parola-chiave dello «yes, we can» di Obama, persa nella traduzione, fosse proprio «we», noi. «Il problema» concluse Ferrara «è che quando D’Alema dice “noi” pensa a sé, alla sua famiglia e a Reichlin.»
Noialtri è la parola-chiave non solo dell’Italia di oggi, ma pure della nostra politica. E non indica solo il partitofamiglia, come Ferrara definisce la sinistra, o il partito personale, come la sinistra definisce il Pdl. La politica è roba «de noantri» perché è diventata un prolungamento degli affari. La grande azienda di Tangentopoli si è frammentata in tante piccole aziende familiari, più attive che mai. La politica è una corporazione d’affari in cui si entra non per merito o per appoggio popolare ma per la sottomissione al capo che ti sceglie. Abbiamo un Parlamento di nominati: l’unico al mondo in cui i deputati non hanno vinto un collegio uninominale o non hanno ricevuto una preferenza, ma hanno garantito al segretario una fedeltà canina. I nominati hanno anche un altro primato: sono i lavoratori dipendenti meglio pagati al mondo, i soli ad assegnarsi da sé lo stipendio; e siccome l’autostima non gli fa difetto, si elargiscono prebende con una certa generosità.
C’è stato un momento, al tempo del grande successo del libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sulla Casta, in cui i politici evitavano l’argomento o riconoscevano che era tempo di affrontarlo. Se la sono cavata limando le rapaci unghie alle comunità montane e a qualche altro ente. Ma poi, passata la tempesta, sono tornati a rivendicare il loro status. Se glielo fai notare, rispondono tutti allo stesso modo: «E tu, giornalista, quanto guadagni?» (anch’io ho imparato a rispondere: «Meno di un terzo dei vostri assistenti che avete fatto eleggere in Parlamento»). Oppure si aggrappano alle cifre ufficiali dell’indennità, che non tengono conto di diarie, rimborsi, contributi per lo stipendio degli assistenti (spesso pagati pochi euro in nero), viaggi aerei che fanno la felicità degli europarlamentari: già quelli italiani sono stati a lungo i meglio pagati di tutti; in più hanno diritto al rimborso della prima classe del volo di linea pure se viaggiano con i low cost, il che consente a un deputato di Strasburgo particolarmente accorto di mettersi in tasca anche più di 40 mila euro al mese. Ma il punto non sono tanto gli stipendi e i privilegi; anche se i simboli sono importanti, e in tempo di crisi sarebbe un segnale significativo se i politici che chiedono sacrifici ne facessero qualcuno anche loro. Il punto è che il distacco tra governati e governanti, tra sudditi e sovrani è ostentato e rivendicato. La carica politica è una sorta di biglietto di ingresso al mondo degli affari; come spiega pazientemente, in un’intercettazione definitiva, l’assessore calabrese della Margherita al braccio destro che ha fatto eleggere in consiglio regionale: «Che ti importa dei diecimila euro dello stipendio, quando con la sanità ogni mese ne tiri su centomila?». Il senso di appartenenza a una casta, la sensazione di impunità, il sentimento di essere al di sopra delle regole e delle convenzioni è alimentato anche dall’atteggiamento dei sudditi, da coloro che restano fuori ma premono per entrare o almeno spartirsi gli avanzi. «Pe’ mia cu c’è?» – a me cosa ne viene, qual è la mia parte, io cosa ci guadagno? – è il vero slogan di ogni campagna elettorale, non solo in Sicilia. E, se il passante avvicina il politico per strada, non è quasi mai per chiedergli conto del suo operato, ma quasi sempre per chiedergli un favore.
Questo è un guaio soprattutto per la sinistra. Che ha più difficoltà a imboccare la scorciatoia televisiva per parlare ai cittadini, e ha un elettorato più attento ai temi della partecipazione e anche allo stile dei leader. La base della sinistra percepisce i suoi capi come partecipi di un te...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. I - Il diavolo sulle Langhe
  3. II - La capitale de noantri
  4. III - La meridionalizzazione del paese
  5. IV - Gli italiani non hanno più voglia di lavorare
  6. V - L’italiano nuovo
  7. VI - Il Cavaliere di Napoli
  8. VII - I pazzi di dio
  9. Post Scriptum - La Speranza