Parvero esplosioni. Invece erano solo i giganti che, scaturiti dalla notte, come ogni notte, cercavano di abbattere a pugni le quattro enormi colonne erette dagli americani.
Phil Rodríguez corse tra i corridoi in salita della piramide centrale, illuminati solo da quadranti e minuscoli punti luce. Si imbatté nel sergente Whitney Harris, curva su uno dei tanti schermi, e intenta a trascrivere dati. Le ordinò, secco: «Vieni con me».
La ragazza si distaccò di malavoglia dal suo computer. «È proprio necessario, colonnello? Sto calcolando…»
«Calcolerai i peli del mio cazzo.» La brutalità di Rodríguez non era voluta. Lui parlava sempre così. «Temo che i maledetti, questa volta, riescano a rompere un pannello. Hanno tralasciato le altre tre colonne e si sono concentrati sulla nostra. Qualcosa vorrà dire. Sferrano attacchi sempre più mirati.»
I due presero un ascensore. Indossavano divise leggermente diverse. Rodríguez era dell'Unione degli Stati Americani (UAS), con capitale New York, mentre Whitney apparteneva alla Nuova Federazione (NFAS), con capitale Los Angeles. La terza entità in cui si erano divisi gli Stati Uniti dopo l'epidemia quasi dimenticata di anemia falciforme, la Confederazione della Nuova America (CNA), con capitale Atlanta, era poco presente in Iraq.
I tre segmenti degli estinti Stati Uniti avevano cercato di conservare l'antica potenza dotandosi di un esercito comune. Di recente avevano anche iniziato colloqui per istituire un'unica Banca centrale, sul modello dell'Eurobank, che fungeva da governo di fatto per la parte d'Europa non ancora caduta sotto i colpi della RACHE. Ma i contrasti non mancavano, e le trattative si diluivano nel tempo.
Le porte dell'ascensore si aprirono sull'ultimo piano. «Vieni» disse Rodríguez. «Questa volta l'attacco è serio, temo.»
«Chi c'è in sala operativa?»
«Ross, e alcuni fighetti dell'Euroforce. Lo so, ho commesso un'imprudenza. Il fatto è che non mi aspettavo un assalto tanto violento.»
Whitney non rivolse al superiore alcun rimprovero. Si conoscevano bene ed erano in piena sintonia, malgrado le nazionalità diverse. Avevano partecipato alla presa della Repubblica Libertaria di Catalogna, nucleo di folli che per un secolo e mezzo si erano illusi di mantenere una certa neutralità, sul modello dell'America Latina. Erano entrati assieme a Barcellona al seguito dell'Euroforce, avevano preso parte al massacro dei ribelli, partecipato alle fucilazioni dei prigionieri, condiviso la cupa visione della capitale catalana che bruciava nella notte come uno zolfanello. In seguito si erano persi di vista – lui in Africa, lei sul fronte balcanico – fino a ritrovarsi nella più maledetta delle situazioni. L'Iraq.
Nella sala operativa scintillavano le lucette degli indicatori di pericolo. In assenza di finestre, grandi pannelli mostravano ciò che accadeva fuori delle torri. Giganti smisurati, dai lineamenti inguardabili, uscivano dal buio e si dirigevano meccanicamente verso le colonne. Dietro di essi avanzavano guardinghe le schiere della RACHE mediorientale, dall'uniforme nera e dalla kefiah stretta attorno al capo. Ogni tanto sparavano raffiche, forse più per intimorire che per fare danni effettivi. Nel cielo senza luna guizzavano le luci di un'astronave psitronica.
Il tenente Ross imprecava, fumava e batteva le dita d'acciaio sulle tastiere. Era fatto per metà di metallo. Di carne gli restavano solo gli organi vitali e parte della faccia, dalla scatola cranica in giù, fino al petto. Sopravvissuto a un numero incalcolabile di epidemie, aveva dovuto combattere col virus Marburg, che divorava il corpo. Meglio così, usava dire, molto metallo addosso fa buoni soldati. Ce n'erano tanti come lui, sui due fronti: metà uomini e metà sculture d'acciaio.
Rodríguez si portò di fianco al tenente e guardò il display. «Non è un attacco come quelli di tutte le altre notti.»
«No di sicuro» rispose Ross. «Ogni volta che ci colpiscono, rischiano di scardinarci. Guarda tu stesso.»
Ingrandì l'immagine. Si vide un pugno enorme sollevato in alto da una creatura immensa, indifferente ai missili che le saettavano attorno. Dieci secondi più tardi le dita giunte del mostro si abbatterono sulla loro colonna e la fecero vibrare. La sala operativa oscillò, le luci si spensero per un attimo. Per fortuna il sistema centrale le ripristinò in pochi secondi. Whitney, sbattuta a terra, scivolò all'angolo opposto del pavimento liscio. Urtò contro una poltrona vuota e si rialzò dolorante.
Uno dell'Euroforce, un francese, slacciò la cintura di sicurezza e si alzò di scatto dalla poltroncina che occupava. «J'en ai assez! Cette histoire de l'Iraq est une grande connerie! Une trappe pour nous tuer peu à peu!» Mosse dignitoso verso il portello d'uscita dalla sala di comando.
«Serve a qualcosa?» chiese Rodríguez, curvo su Ross.
«Intendi il ranocchio? No, non serve a nulla, se non a darci problemi. È tranquillamente sacrificabile.»
«Dove va colpito?»
«Alla nuca o lungo la colonna vertebrale. Lì non ha metallo.»
«Bene.» Rodríguez sfoderò la sua Beretta calibro nove e fece fuoco. Il francese si abbatté come una marionetta a cui avessero reciso i fili.
Gli altri dell'Euroforce seduti alle console guardarono appena la scena. Forse sussultarono, ma non si capì.
«Veniamo a cose più serie» disse Rodríguez. «Quanti Mosaici abbiamo?»
«Trenta, trentacinque, credo. Non c'è stato il tempo di fabbricarne di più.»
«È ora di mandarli fuori. Dai l'ordine.»
Il viso di un gigante occupò per intero gli schermi. Aveva l'espressione di un bambino cattivo, bizzarramente feroce. Inferse un secondo colpo alla torre. La sala oscillò nuovamente, le luci si spensero per un intervallo più lungo. Questa volta nessuno cadde.
«Fuori i Mosaici! Fuori i Mosaici!» urlò Ross in un microfono.
«D'accordo, tenente!» rispose da un altoparlante una voce chioccia.
Rodríguez approfittò del momento di calma per dire a Whitney: «Con chi scopi stanotte?».
Lei sorrise. «È già notte.»
«Allora domattina.»
«Con te, se vuoi.» La donna fece una smorfia. «Se ci sarà, un mattino.»
«Sei prenotata. Credo che un mattino ci sarà, uno degli ultimi. Bisogna sfruttare al meglio i giorni che ci restano.»
Ross esclamò: «Ecco, i Mosaici sono all'aperto! Andate, bimbi, e fate il vostro dovere!».
Gli occhi di tutti fissarono ansiosi gli schermi.
Marcus Frullifer fu molto seccato di dovere abbandonare il suo lavoro a maglia, proprio mentre elaborava un punto complicatissimo. Eppure gli toccò posare uncinetto e gomitolo, perché gli infermieri che erano venuti a prelevarlo sostavano sulla soglia della sua stanza, l'aria niente affatto amichevole.
Nei cinque anni che aveva trascorso allo Harbour Psychiatric Hospital, nei dintorni di Boston, Frullifer si era trovato piuttosto bene. L'istituto in cui la Federazione lo aveva fatto internare, subito dopo la Secessione, era confortevole e circondato dagli alberi. Il governo pagava tutte le spese, e lui era libero di ricevere i pacchi, pieni di alimenti e di libri, che l'ex collega Cynthia Goldstein gli mandava.
Qualche momento difficile lo aveva avuto all'inizio, allorché lo avevano assegnato alla sezione Triangolo Rosa e si era trovato in compagnia di strana gente. La sua remissività lo aveva fatto scambiare per omosessuale. In seguito l'equivoco era stato chiarito, e lui era stato trasferito in un reparto normale. Si era specializzato nei lavori all'uncinetto e tesseva mutande e maglie di lana per tutti i pazienti. Era molto rispettato. Nel tempo libero, quando non leggeva testi di fisica, conversava con un autistico di nome Freddy. O, meglio, era il solo Frullifer a conversare. L'altro non diceva nulla, però pareva comprendere le astruse formule matematiche che gli venivano esposte.
«Dove mi portate?» chiese Frullifer a uno dei due infermieri. «Sono stato visitato appena ieri.»
«Dal direttore» rispose l'uomo, un asiatico corpulento ma non scortese. «O, piuttosto, nel suo ufficio.»
L'Harbour Hospital era una grande clinica psichiatrica privata – come tutte quelle della Unione degli Stati Americani, dove lo statalismo della Nuova Federazione non era ancora penetrato – di antiche tradizioni. Garantiva ai pazienti ricchi un trattamento eccellente, molte attenzioni e visite mediche frequenti. Quelli poveri, cercava di smistarli altrove, o li restituiva alle famiglie dopo pochi giorni di degenza. Preferiva altresì occuparsi di disturbi mentali leggeri, tipo fobie, manie e tare congenite innocue. La schizofrenia la lasciava a ospedali meglio specializzati. Per questo i ricoverati godevano di una certa libertà, entro i recinti, e ricevevano visite di familiari, dietro pagamento di una quota. Cynthia veniva una volta ogni sei mesi, dato che non guadagnava abbastanza per andare lì più spesso.
Frullifer era emozionato all'idea di vedere il direttore. In cinque anni lo aveva incontrato tre volte in tutto. Lo ricordava come un uomo elegante, brizzolato, vestito di un completo nero come un manager. E un po' lo era: gestiva, per conto della Mental Health Corporation, altri sei manicomi, nonché due prigioni, una in America e l'altra in Iraq. Era anche nel consiglio di amministrazione di Lazzaretto, un penitenziario all'aperto nei pressi delle coste italiane.
Frullifer restò un po' deluso nello scoprire che, entro il lussuoso ufficio al terzo piano dell'ospedale, il direttore non c'era. C'erano invece, dietro la larga scrivania dalla superficie di cristallo, tre uomini in divisa, con il petto coperto di mostrine e di ricami argentati. Le loro uniformi differivano per qualche dettaglio. Appartenevano, era evidente, a ciascuno dei tre conglomerati politici in cui gli USA si erano divisi, pur mantenendo una stretta alleanza militare.
Il più anziano dei tre, all'ingresso di Frullifer, si alzò in piedi. «Benvenuto, professore. Sono il generale Kessinger, dell'Unione. I miei colleghi sono i generali Sadler, della Confederazione, e Macrì, della New Federation of the American States. Si metta comodo.»
Frullifer si sentiva molto a disagio. Dato che l'altro non accennava a porgere la mano, fece solo un cenno col capo. Scelse la poltrona più lontana dalla scrivania e vi affondò le natiche. La plastica scricchiolò.
Kessinger rimase in piedi, con un finestrone alle spalle che dava dell'Harbour Hospital un quadro bucolico: alberi sempreverdi, prati, margheritine e pazienti dediti a un ozio beato, salvo quelli che giocavano a scacchi o erano impegnati sui campi di golf. Eccezione fastidiosa al quadretto, una ventina di subnormali seduti su panche allineate. Giravano simultaneamente la testa da una parte all'altra, come seguissero una partita di tennis o di ping-pong. Solo che non c'era nulla di simile davanti a loro: di fronte avevano un muro.
Kessinger si rischiarò l'ugola con un colpo di tosse e sputò un grumo di catarro in un fazzolettino, che mise in tasca. «Professor Frullifer, conosciamo ogni dettaglio della sua vicenda. Gli esordi brillanti al MIT, le prime teorie eterodosse, l'ostilità inspiegabile verso il reverendo Mallory, l'infelice esperienza nelle Canarie. Temo che lei abbia subito molte ingiustizie.»
Era da tempo che Frullifer si era rassegnato alla sua situazione. Gli parve, tuttavia, di cogliere, nelle parole del generale, una promessa di riscatto, e ciò ravvivò in lui speranze che credeva morte.
«È vero» disse. «Qui mi trovo benino, posso scrivere. Mi manca però un ...