«Sono indistruttibile, indistruttibile!» gridava l’uomo con l’impermeabile grigio troppo lungo saltando giù dal marciapiede in mezzo alle macchine che avanzavano incolonnate nel traffico del mattino. Inchiodate brusche, stridio di freni, finestrini che si abbassavano, imprecazioni, bestemmie. Qualche volta ci scappava un tamponamento leggero con cocci di fanaleria sparsi sull’asfalto e guidatori inferociti che si scaraventavano fuori dall’abitacolo. Ma lui, mentre si scatenava il concerto rabbioso dei clacson, aveva già scantonato a destra o a sinistra ed era ormai impossibile raggiungerlo. Sempre la stessa scena, un paio di volte la settimana, sempre alla stessa ora, tra le sette e le otto, in via della Consolata o nelle strade vicine. Quella mattina però le regole erano saltate: era più tardi del solito e il teatro dell’azione non era quello abituale.
«Indistruttibile!» gli gridò dietro lei, «ti va un cappuccino al bar?»
Lui si voltò, strizzò gli occhi, la riconobbe e si fermò. Non c’era stato nessun tamponamento e nessuno lo inseguiva.
«Cappuccino e croissant con la Nutella. Offri tu.»
«Si capisce che offro io. Come mai da queste parti?»
«Così, per cambiare. Anche tu sei fuori zona. Non lavori, oggi?»
«Comincio più tardi.»
«E non mi fai la predica?»
«No. Sono stufa di fartela. Le ossa sono tue.»
«Senza predica non vale.»
«Che fai? Mi pigli per il culo?»
«Bella professoressa che sei! Parli come un carrettiere.»
«I carrettieri non esistono più. Parlo come una che si è presa il solito s-ciopón di spavento.»
«Eccola, la predica. Brava, è così che si fa. Lo sai che vendono la tua casa?»
«Cos’hai detto?»
«Che vendono la tua casa, quella che ti piace tanto. C’è un cartello: “Vendesi”.»
«Da quando?»
«Da oggi. Ieri non c’era.»
Certe case innamorano al primo sguardo: un interesse e una passione che si accendono imprevisti e improvvisi. Lei di quella casa si era innamorata dieci anni prima, passandoci davanti per caso. Continuava a passarci spesso, non più per caso, quasi in pellegrinaggio, e ogni volta si fermava a guardarla. Sempre disabitata. Sempre uguale a se stessa ma ogni anno un poco più sbiadita. Il giallo prima acceso dell’intonaco ora sfumato nell’ocra, il verde delle imposte senza più lucentezza, il giardino inselvatichito, il cancello slabbrato dalla ruggine. Comincia a mostrare le sue rughe, aveva pensato, ma le rughe delle cose non ne appannano la bellezza, anzi.
«“Vendesi”, e poi?»
«Poi basta. “Vendesi” e un numero di telefono.»
«Che non ricordi.»
«Invece sì.»
«Dimmelo.»
«Se te lo dico, cosa fai?»
«Telefono.»
«E poi?»
«Che ne so. Sento cosa dicono, quanto vogliono... Lo cacci sto numero sì o no?»
«Al bar, dopo croissant e cappuccino.»
Davvero non sapeva cosa avrebbe fatto dopo. Sulla casa gialla aveva costruito castelli in aria e fantasie consolatorie per addormentarsi la sera. Sarebbero rimaste fantasie, perché una casa così lei e il marito non potevano comprarla. Una villa con giardino in una zona centralissima, una costruzione della metà dell’Ottocento senza smanie di appariscenza, ma solida e insieme aggraziata, con una piccola loggia al primo piano festonata da un glicine centenario. Quando ci passava davanti nella primavera avanzata, Camilla restava incantata a guardare la cortina di grappoli viola e, se solo spirava una bava di vento, a respirarne il profumo. Per tanti anni disabitata e adesso in vendita. Non avrebbe più potuto immaginarsela sua: anche le fantasie più assurde hanno bisogno di un sottile aggancio col reale. Le finestre sarebbero state aperte, le stanze arieggiate e ridipinte, qualcuno avrebbe messo mano nel giardino tra alberi arbusti e rovi, un cane ci avrebbe scavato buche e teso agguati alle lucertole. Non il suo cane. E un gatto, un bel gattone placido e pasciuto, si sarebbe stiracchiato al sole su un davanzale.
L’Indistruttibile intingeva il croissant con la Nutella nel cappuccino e la guardava divertito e insieme preoccupato. Aspettava che lei glielo chiedesse di nuovo, quel benedetto numero, ma aveva anche paura di non ricordarlo giusto. In mezzo c’è un 89 – pensava – che però forse è un 98, non me lo sono segnato perché non avevo carta e matita e poi come facevo a sapere che avrei incontrato la profia? Che non si capisce perché ci tenga tanto a quella casa, visto che ne ha già una. Una casa vale l’altra, l’importante è avere un tetto sulla testa. Io ce l’ho, diciotto metri quadri precisi precisi, una volta ho misurato due pareti e dopo ho fatto la moltiplicazione, area del rettangolo uguale base per altezza, quella del triangolo base per altezza diviso due, l’ho imparato alle elementari. Il cesso sta fuori in cortile ma chissenefrega, basta non bere troppo la sera e poi di notte tenersi vicino la latta dell’olio Erg col manico. La latta me l’ha data il benzinaio di corso Regina ma il manico di fil di ferro gliel’ho fatto io, il manico è importante perché se no mette male a svuotarla. E tenersi puliti non è un problema: ci sono i bagni pubblici, quelli non li hanno ancora smantellati come gli Ubaldo Renzi,* che se ti prende voglia per la strada non sai come fare. Anche per il mangiare mi arrangio: ho la mia pensione di invalidità e sono capace di farmela bastare, poi, se proprio va male perché ho avuto delle spese extra vado a far la fila per il pasto alla mensa del Cottolengo, solo che lì è sempre pieno di barboni che puzzano dal fiato, dai piedi e da altre parti, e ci sono anche i marocchi e i negri che hanno un odore diverso da noi e che secondo me qui non stanno tanto meglio di dove stavano prima.
«Allora, sto numero?»
«Ho paura che non me lo ricordo. C’è un otto e un nove in mezzo, e anche prima, il prefisso, tre tre nove o quattro nove... Sei arrabbiata?»
«No, non importa, va bene lo stesso.»
«Se mi dai un foglio e una matita io ci torno e lo copio.»
«E poi?»
«Poi ti aspetto davanti a scuola.»
«Esco all’una e un quarto, devi aspettare troppo.»
«Ma no. Mi siedo sulle panchine della piazza con la colonna.»
«E ti butti di nuovo sotto qualche macchina.»
«Io non mi butto sotto, mi butto in mezzo.»
«Perché, Indistruttibile?»
«Perché mi piace. Come a te piace la casa.»
All’una e un quarto lui era fermo davanti alla scuola ad aspettarla.
«Profia!» gridò.
I ragazzi e i professori che stavano uscendo dal portone si guardarono intorno per scoprire a chi si rivolgeva quel menteco dall’aria stralunata. Lei attraversò la strada.
«Ti ho portato il numero. E sai una cosa? C’erano le finestre aperte.»
«Hai visto qualcuno?»
«No.»
«C’era dentro qualcuno?»
«Come faccio a saperlo? Il cancello era chiuso.»
«Col lucchetto?»
«Fammi pensare. Che furba che sei. Sì, col lucchetto e allora dentro non c’era nessuno. Non mi hai neppure detto grazie.»
«Scusa. Ti va di mangiare un panino?»
«Ho già mangiato. Quand’è che mi dici grazie?»
«Grazie grazie grazie. Basta o continuo? No, davvero, grazie. Sicuro che non lo vuoi, il panino?»
«Sicuro. Dove vai adesso?»
«A casa.»
«Ti accompagno un pezzo. Poi ho da fare, devo vedere i lavori della metropolitana.»
«Ma è lontano.»
«Prendo il tram.»
«Ce l’hai, il biglietto?»
«Ho l’abbonamento. Me l’ha dato l’assistente sociale, a gratis. Prendo sempre il 16 perché è arancione. E anche perché è di quelli vecchi, che ti siedi da solo, guardi fuori e viaggi come un papa. In quelli nuovi la gente ti siede di fianco e in faccia. Oggi il 16 non mi porta giusto, ma io li frego.»
«Chi freghi?»
«I tram nuovi. Io ne prendo tre o quattro di quelli vecchi e ci arrivo lo stesso, agli scavi della metropolitana. Anch’io sono furbo, mica solo tu.»
Dopo, a casa, Camilla si rigirava in mano il foglio con il numero di telefono e non sapeva decidersi. Aveva portato giù il cane e gli aveva riempito la ciotola, il pensiero fisso a quelle finestre aperte che preludevano a un cambiamento definitivo. Chissà perché proprio adesso, si chiedeva, proprio adesso dopo tanti anni. Il cane, Potti, la guardava preoccupato dal silenzio, dalla mancanza di coccole, dai gesti distratti. Ma la padrona aveva il solito odore, non di paura, non di rabbia, non di malattia, perciò non doveva essere una cosa grave: e lui si rintanò sotto la madia con le zampe in avanti, il muso poggiato a terra, restando immobile, solo gli occhi che ruotavano lenti a seguire gli spostamenti di lei. Cosa telefono a fare, si chiedeva lei, telefonare è una pura perdita di tempo e anche un frugare nella propria scontentezza. E chissà in che condizioni è la casa all’interno: umidità, muffe, intonaci che cadono a pezzi, pavimenti probabilmente da rifare, impianto elettrico non a norma, bagni in sfacelo... Potremmo chiedere un mutuo, però. Un lavoro fisso ce l’abbiamo tutti e due, non siamo ottuagenari, mai fatti assegni a vuoto o cambiali non onorate. E poi? Con che soldi la rimettiamo a posto, come campiamo dopo aver pagato ogni mese la rata del mutuo? Campiamo a pane e cipolle, peccato che né la bimba né il cane mangino le cipolle. A loro pane e basta. No, non si può.
E siccome non si poteva, si mise in poltrona e sollevò la cornetta del telefono. Il cane le saltò subito in grembo.
Fu solo verso le tre che si accorse di non aver mangiato. Glielo fece venire in mente un languore misto a un crampetto alla bocca dello stomaco e glielo confermò l’assenza di piatto posate bicchiere e stoviglie nella vasca del lavandino. Stordita, pensò, sono stordita. Le spie di Fleming Follett e Le Carré restano lucide e vigili anche davanti ai killer che si stanno avvicinando, i piloti di aereo mantengono i nervi saldi di fronte all’avaria dei motori e io mi dimentico di mangiare dopo una banale telefonata. Beh, non proprio banale, non era il solito “Come va, quando ci vediamo?”, in quella telefonata c’erano imbarazzo insicurezza apprensione curiosità, c’erano le fantasie di dieci anni di vita. Forse le spie sono glaciali solo nei romanzi e di sicuro qualche volta i piloti smarronano e si fracassano giù. Autoassolta. Bisogna volersi un po’ di bene e compatire le proprie debolezze.
Stava davanti alla porta spalancata del frigo a inventariarne il contenuto, ancora distratta, ancora svagata, ancora incapace di gesti ordinati – una confezione di prosciutto cotto sottovuoto (ha un colore malaticcio, un’aria da tisi, perché l’ho comprato?), un assortimento di formaggi ad alto contenuto di colesterolo, una vaschetta di frutta in pieno processo di devitaminizzazione, burro uova olive eccetera –, quando arrivò la solita scampanellata di sua madre. Drin drin drin driiin driiiiiin... E abbi un po’ di pazienza, sbuffò tra sé, dammi tempo...