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Solitudo et plenitudo
Soli, cioè in compagnia del destino
La solitudine della vecchiaia. Che dire di un uomo di novantacinque anni trovato nella notte nel suo letto abbracciato a una ragazza di trent’anni, che lo assiste? Che non merita ironie e rimproveri, ma sguardi delicati e tenere carezze, perché salutava la vita e l’amore prima di offrirsi alla sorte. Parlo di un uomo che sente e vede la sua vita sempre meno e non solo per l’udito sordo e la cecità incipiente, ma perché l’avverte allontanarsi giorno dopo giorno e compie a senso alterno i suoi esorcismi e le sue rese. E una notte, la temuta notte, lo trovano avvinghiato alla più giovane, alla più avvenente delle sue badanti. Lei che spiega con disagio e meraviglia: non so cosa gli ha preso stanotte, non l’aveva mai fatto; lui scoperto dalla figlia che finge sorpresa e mostra torpore, o forse il contrario. Di solito la notte si lamenta, dà voce per avere voce, come una sentinella sull’orlo del nulla che vede ombre di tartari all’orizzonte; chiede più volte di orinare, sarà la prostata, sarà il terrore della solitudine notturna; si alza, sospira, chiama la figlia, poi la badante, infine chiama la morte. Vive la sua morte ogni giorno, la invoca e la teme, spavaldo per spavento. Vuol provare la sua presenza con la petulanza, vuole scacciare l’assenza, farsi vivo. Allestisce cerimonie notturne di egoismo per dimostrare che esiste, e vuol essere al centro del suo piccolo universo. Ma quella era una notte tiepida d’agosto, c’era la luna piena, l’aria era calda e leggera e la sua dolcezza non escludeva nessuno, neanche i vecchi. E così le ha chiesto di entrare nel suo letto matrimoniale, di mettersi al suo fianco, e l’ha cinta in un abbraccio, ha cercato pure la sua bocca. Il giorno dopo diceva di non voler più avere come badante quella ragazza, come se fosse stato molestato lui o si vergognasse per l’accaduto e volesse cancellare la prova vivente del misfatto; o forse no, quella richiesta è un capriccio e una vendetta, s’aspettava qualcosa in più da lei, un bacio, una carezza, un soffio di complicità .
Facile sorridere, facile deprecare. Si è bevuto il cervello, che figura. Invece io ti capisco, padre, ti capisco. Non oso spiegare con la demenza senile il tuo fittizio disperato amplesso, quel sussulto di giovinezza misto a carenza antica di maternità . In quell’abbraccio c’era il ragazzo di una volta, c’era l’uomo, ma c’era anche il bambino. Si cumulavano in quel gesto tante età . C’erano i vent’anni dei suoi primi amori, c’erano i settant’anni dei suoi ultimi amplessi, c’erano gli abbracci infantili dei tre anni. E c’era la somma esatta di quelle età , che tutte le abbracciava, insieme alle loro pulsioni e al loro ricordo sfatto. Quel bisogno di sentirsi ancora un corpo e non una malattia, di sentire la vita e non solo la sua evanescenza. Una vita che sbiadisce e cerca occasioni estreme e furtive, come ladri nella notte. Forse c’è la rivalsa involontaria contro la gioventù; tu nipote esci quando io vado a letto, per una volta torni a notte fonda e mi trovi sveglio che abbraccio una donna, perché la vita riguarda pure me, non vegeto soltanto. Nella vita ho ancora permesso di soggiorno e so che il letto non serve solo per il sonno e l’infermità .
Però fa male vedere la dignità di un uomo ridotta in vecchiaia a mendicare un bacio. Ti trattano come un ingombro, occasionali badanti ti danno del tu e ti riducono a pacco, bimbo demente; ti scansano i più giovani. Come finisce male una vita longeva, in quale imbuto. Una vita sobria e rispettata che termina nei gesti estremi del suo mangiare con la testa nel piatto, nel suo digerire senza riguardi, nel suo spogliarsi senza ritegno davanti a chiunque. Lo capisco quando se la prende col suo medico che col pacemaker gli ha prolungato una vita che reputa ormai di troppo. Vorrei finire anch’io prima della notte; capisco le sue invocazioni di congedi, la vita sarà un valore, ma se vissuta con dignità . Altrimenti è sopravvivenza animale che cancella in un’appendice vergognosa biografie operose e decorose.
E pure l’ho immaginato quella notte nella sua vecchia camera da letto, con i morti tutti a vegliare sul comò, madri, padri, moglie e santi, con un lumino acceso moltiplicato per tre volte da altrettanti specchi e un letto matrimoniale da tempo dimezzato, abitato da un ingombrante vuoto. L’ho immaginato lì, tra le sue lenzuola sfatte, i suoi orinali intorno, qualche feticcio estremo di vita, come la radio, la sveglia sul comodino e le caramelle d’orzo, e un Sacro Cuore che esplode sul suo letto, un Cristo che si sporge con la testa e con la mano benedicente, e si affaccia quasi a curiosare. L’ho immaginato lì, a far l’amore con la vita, a salutare il passato con l’ultimo sorso rimasto nel presente, a far capire alla badante che lui non è vecchio da sempre; ma fu ragazzo e anche bel ragazzo, amò e fu amato. Voleva lasciar traccia di sé e cercava trasfusioni estreme di vita da una ragazza florida. Trovo commovente quell’abbraccio di una persona che reclama dell’amore non il frutto ma almeno il torsolo, per arginare la solitudine. Tenera è la notte, tenerissima per un vecchio in cerca di resistere alla notte del destino.
La solitudine come destino. È una percezione diffusa, solitamente melanconica, che accompagna la cittadinanza globale e il suo pozzo nero della misantropia, l’abisso delle relazioni sociali e il deserto di orizzonti ulteriori. Si infittisce la rete dei collegamenti e si diradano i rapporti, i mezzi per comunicare crescono mentre decresce la conversazione. L’epoca della comunicazione globale è abitata da incomunicanti; c’è più relazione umana nel villaggio che nella megalopoli, si conoscono più persone nel giro ristretto di una piccola comunità che nei grandi centri, si partecipa di più alla vita e alla morte di ciascuno. Destinati a vivere e morire in solitudine, nonostante l’agiatezza; o forse a causa di questa.
Infierisce la solitudine nell’assenza di destino. Perché non concede prospettiva al dispatrio o anche solo al sentirsi in disparte. Se la famiglia, la comunità e le tradizioni decadono al rango di convenzioni provvisorie o consorzi occasionali, non offrono più tracce o consolazioni di immortalità terrena attraverso il loro perdurare oltre la vita del singolo. Ma anche l’aspettativa della gloria, tramite l’arte, l’opera, l’impresa storica o eroica, che dava alla solitudine una proiezione di divinità nel tempo e nello spazio, si accartoccia nell’indifferenza di una società di solitudini reciproche; scivola fuori da ogni tempo e da ogni spazio, limitandosi al più alla sua sincope precaria, la celebrità . Niente resterà e nessuno ti riconoscerà niente nell’universo labile e smemorato. La solitudine non ha scampo in vita né speranza di redenzione post mortem.
Eppure esiste una solitudine come virtù, come raccoglimento d’essere e resistenza al disvenire, una solitudine come Amor fati che fonda la comunità più di ogni socialità estroversa. Non è la kantiana socievole insocievolezza, che può giovare alla competizione del mercato e può fondare la legge e il contratto sociale ma oltre non può aspirare; è una solitudine che precorre la comunità perché ne scopre le radici e il senso. Delle due solitudini, l’una optima e l’altra perniciosa, ora trattiamo.
È possibile teorizzare la comunità e praticare la solitudine? Non solo è possibile ma forse è necessario, comunque è inevitabile. Si teorizza la comunità quando viene a mancare. Così accade per l’aria, di cui ci accorgiamo solo quando ci viene a mancare. Quando è presente, una comunità non ha bisogno di costituire un quadro teorico, allestire una rete di significati e perorazioni. Basta la sua esistenza. La solitudine è il punto di partenza per cercare la comunità . Si ama la comunità e se ne coglie appieno il senso solo nel distacco e nella distanza. La comunità , o la vivi insieme o la pensi in solitudine.
Nell’epoca spaesata, la comunità esiste come residuo possente che dà sostegno alla vita reale, è presente come lutto e orfanità ma anche come aspirazione comune. La famiglia, il gruppo, la città , l’associazione, la rete, la patria, l’ecclesia, benché in crisi, sono gli unici contesti in cui si esprime la vita, senza dei quali non avrebbe senso né sostegno la persona. Si è persona in relazione all’altro, perché persona – lo dice il suo stesso etimo – esige qualcuno che ci osservi. Siamo persone rispetto a qualcuno. Persona indica un carattere, una modalità specifica di presentarsi, perfino una maschera, che ha senso solo in rapporto col mondo; altrimenti non si è persone, ma solo individui. La persona esige relazione e la vita esige legame sociale. L’io prende corpo e misura rispetto a un tu, si qualifica e si definisce rispetto a un tu, e dentro un noi. E tuttavia, l’orizzonte comunitario sembra retrocedere al passato, sfumare nelle superstiti isole dell’ideologia, fino a diventare la proiezione onirica di solitudini a disagio. La famiglia è vissuta come luogo di evacuazione e tempo di smobilitazione, le associazioni sopravvivono se diventano occasionali e laterali luoghi di socializzazione o di rappresentanza degli interessi singoli; le città e le nazioni si riducono a sfondi paesaggistici, display o location; le religioni sono ricacciate nel privato come sette recintate, separate dal vivere civile e comune.
Una vera comunità non può essere sconfinata, universale, coincidente con l’umanità , perché la comunità delimita un noi e lo distingue dal resto; ma non può essere neanche il suo rovescio, una setta, una tribù, un circuito chiuso. Se è comunità esige sia una separazione sia un’apertura, è sempre un essere-con ma a viso scoperto, a cielo aperto. La comunità ha un territorio, delinea un confine e può avere anche un suo cuore segreto, ma non ha cinte murarie entro cui barricarsi. La comunità designa un’appartenenza, ma non preclude alla differenza. Altrimenti è una fortezza che si reputa assediata, non è un luogo di primaria esperienza del mondo ma una cittadella di reclusi, ostile al mondo. Comunità è comunicare. Si può essere congrega di asceti e ordine di cavalieri, ma non si può essere comunità civica chiusa all’esterno. La comunità è delimitata ma aperta. Se non subisce assedi, non può murarsi dentro.
La comunità non esclude al suo interno la solitudine, come l’essere in società non scongiura l’isolamento. Essenziale è la distinzione tra solitudine e isolamento, come ben distinse Hannah Arendt. La solitudine può essere un’indole, un’esigenza, una scelta, una conquista, perfino una beatitudine (Beata solitudo, sola beatitudo); l’isolamento è invece una perdita del mondo e una sconfitta, un impoverimento e un’emarginazione, un’inadeguatezza, una condanna e una sofferenza. L’isolamento non è la solitudine involontaria di cui scriveva Hume, perché non è sempre né solo inflitta dalla società . È una solitudine sgraziata, a volte subita a volte interiore, cioè covata nel proprio seno, irriducibile all’emarginazione e all’ingiustizia sociale.
In una comunità è possibile la solitudine ma non l’isolamento, perché isolarsi presuppone la fuoruscita, la perdita, l’esclusione dalla comunità . In una società si può essere soli ma anche isolati; in una comunità invece si può essere soli ma non isolati, perché se si è veramente isolati si è già fuori dalla comunità . In una società è possibile distinguere una sfera pubblica e una sfera privata, anzi la società sorge su quella distinzione; una società malata non distingue, non tutela o addirittura inverte i rispettivi spazi che attengono alla vita pubblica e privata. In una comunità , invece, l’orizzonte privato tende a collimare con l’orizzonte pubblico, o quantomeno ad armonizzarsi e a riconoscere uno spazio comune in cui confluiscono e interagiscono il pubblico e il privato.
Prodotto tipico e contagioso dell’isolamento è l’insicurezza, che tende a espandersi. Le società prive di destino e di comunità pullulano di singoli isolati, sono abitate da milioni di eremiti – diceva Montale – che vivono il loro isolamento in piena folla. L’isolamento produce paura, genera domanda di sicurezza. Si tratta di domande di origine metafisica e psicologica, prima che sociale e militare, che investono il senso e l’identità , l’incertezza dell’esistenza in un orizzonte labile e l’incedere del vuoto e del nulla; ma il gigantesco, capillare sradicamento di ogni domanda in rapporto al destino costringe a dirottare le domande d’insicurezze sul controllo delle risposte e a circoscriverle nell’ambito della pubblica sicurezza. Accade allora che l’insicurezza si riduca a incolumità , la metafisica a ordine pubblico e l’incertezza della vita in rapporto al destino si trasfiguri, fingendo di assumere concretezza, in paura sociale dello straniero, del criminale, del pedofilo, in generale del disordine e dell’anomia. In un percorso inverso e paradossale rispetto alla critica alla religione degli illuministi e poi di Feuerbach, accade che si proietti in terra un bisogno di cielo, e si invochi il vigilante in luogo dell’angelo custode, si installi una ronda o una postazione di pubblica sicurezza laddove manca un’edicola sacra e protettiva; si risponda con l’ordine poliziesco a una domanda di ordine esistenziale e si prometta tutela dei singoli da ogni prossimità inquietante mentre la domanda da cui sorgeva l’insicurezza era incentrata sul bisogno di comunità . Non è l’estraneo che spaventa, ma è il venir meno di quel che è nostrano a disorientare.
Le comunità soffrono meno di queste paure rispetto alle società spaesate perché sono rassicuranti, familiari e calde; l’insicurezza si accompagna all’isolamento. L’assenza degli dei, del fato e della comunità viene compensata con il raddoppio della vigilanza. La perdita d’identità è risarcita con l’aumento dei controlli.
L’estensione della società al pianeta, lo sconfinamento del locale nel mondiale e la rete globale di relazioni telematiche rendono sempre più evanescente l’appartenenza stessa a una società . Più la società si estende e più perde ogni traccia di contorno, fino a realizzare l’idea popperiana che la società sia solo un’astrazione platonica e che esistano soltanto gli individui con le loro dirette e occasionali relazioni. Se la società è un concetto astratto, il mondo non è fondato sui legami ma è regolato da leggi e contratti, le consonanze si fanno solo sincronie, perché sono fondate soltanto sul temporaneo convergere di interessi e apprensioni; le relazioni non prevedono comunanza ma tecnologia. È la tecnica a rapportarci al mondo; le comunanze al più consentono di stabilire rapporti sentimentali nell’ambito dell’affettività privata.
page_no="204" A uno sguardo più attento, potrebbe perfino modificarsi la considerazione da cui siamo partiti circa il tramonto della comunità ; a tramontare sembra essere piuttosto la società che cede il passo a una frammentazione di meteoriti individuali o tribù microsociali e di solitudini globali, mentre la comunità resiste almeno in tre ambiti: come nostalgia del passato, come prospettiva del futuro e come sentimento intenso nel presente. La comunità abita in interiore homine, come vuoto e come attesa, ma anche come percezione di legami elettivi e naturali che sentiamo come fondativi della nostra vita e del suo senso. Per questo, la comunità oggi acquista vigore proprio nella solitudine, come invocazione, memoria e pre-sentimento. Viceversa diventano pericolose, quanto artificiose, le pseudocomunità che sorgono dall’isolamento perché sono agglomerati ringhiosi di risentimenti ed emarginazioni che armano le frustrazioni fino a renderle militanti. Tanto sono aggressive le pseudocomunità di clan, di club o di quartiere quanto sono fittizie e interiormente vuote. Possono attenere tanto a un villaggio quanto a un branco o a un collettivo. Reti effimere, occasionali, hobbystiche, orgiastiche, emozionali, virali… La comunità sorge da un’esigenza naturale che si costituisce in orizzonte culturale. Entrambi la radicano nel tempo e nello spazio. Il nesso tra natura e cultura è l’orlo del destino.
Intimista. Autistico. Solipsista. Sono i tratti salienti del pensiero che cede al narcisismo della mente. Il pensiero è spinto alla solitudine, perché la sfera pubblica, ideale, civile e perfino funzionale si è ritirata. Cresce nel pensiero la propensione intimista e solipsista. Ogni autore tende a scoprirsi autistico, perde il mondo e ripiega su sé, narra di sé e interrompe il dialogo. Ma chiudendosi in sé, istiga anche il suo lettore e interlocutore a fare altrettanto, a chiudersi in sé, a farsi idiota e dunque a rinunciare alla stessa lettura e interlocuzione. Perché seguire la parabola di un altro io che si espone? Seguo direttamente il mio io, per mio conto. La solitudine dell’autore è ricambiata dalla solitudine del lettore, nel reciproco ripiegare in se stesso. La soggettività raggiunge il suo punto estremo di rottura: la letteratura, il dialogo e il pensiero rischiano di morire di autoreferenzialità .
Certo, è impossibile pensare senza gli altri, ogni pensiero è un noi, un dia...