Gorilla blues
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Gorilla blues

  1. 294 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Gorilla blues

Informazioni su questo libro

È la notte più calda degli ultimi cento anni. Sandrone, detto il Gorilla, decide di partire da Milano, lasciandosi dietro le spalle i lavori pericolosi e mal pagati, i debiti, la casa distrutta, la fidanzata che non vuole più saperne di lui. Trascorrerà una sorta di vacanza in una graziosa quanto deprimente località sul Lago Maggiore. Tutto quello che deve fare è sorvegliare un misero luna park di provincia, fingendo di tenere alla larga borsaioli e inesistenti molestatori di bambini. Purtroppo, il suo arrivo nel paesino coincide con una serie di avvenimenti non troppo gradevoli. Prima una banda di motociclisti dà l'assalto al luna park, poi qualcuno incendia il baraccone adiacente, provocando una strage. Assunto dal padre di una ragazza scampata per miracolo alle fiamme, Sandrone dovrà dire addio al riposo e mettersi in caccia di un pericoloso maniaco, apparentemente il responsabile dell'attentato, ritrovandosi, tra naziskin violenti, fascisti da operetta e poliziotti buddisti troppo invadenti, a fare i conti anche con l'anniversario della manifestazione di Genova contro il G8.
Per fortuna, il Gorilla può confidare nel suo Socio, l'energico alleato che lo affianca nelle indagini emergendo, di tanto in tanto, dalle pieghe della sua schizofrenia.
Tra motociclisti e piromani, ragazze molestate e ricconi di turno, la nuova impresa dell'inimitabile detective no global.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804523826
eBook ISBN
9788852011184
Parte terza

IL BLUES DEL GORILLA

1

La mia ultima azione cosciente era stata quella di inginocchiarmi sull’Elefante e tamponargli le ferite con la camicia. Poi, la parte di me che pensa era andata a farsi un giro in un posto tranquillo, dove gli amici non sanguinano in mezzo all’erba e nessuno soffre. Solo il mio corpo era rimasto lì a far compagnia a quello dell’Elefante.
Gli infermieri dell’ambulanza mi avevano spostato di forza, i carabinieri mi avevano sollevato da terra e fatto sedere su una panchina del giardino, Alex mi aveva caricato in macchina e poi sbarcato all’ospedale. Rimanevo dove mi mettevano, senza riuscire a decifrare quello che mi accadeva intorno. Il tempo correva troppo veloce. Se qualcuno mi parlava, prima che alzassi gli occhi verso di lui era già dall’altra parte del corridoio. Tutti saltellavano su e giù per la stanza, apparivano e sparivano, le lancette dell’orologio a muro giravano velocissime. Sembrava un vecchio film pieno di tagli e giunte.
Poi torno a sincro.
Alex è il primo ad accorgersene. Mi picchietta sulla spalla. «Ci sei?»
«Sì. Quanto sono stato via?»
«Tre ore. Sei lontano dal tuo record.» Mi fa bere da una bottiglietta d’acqua e intanto mi aggiorna dal mondo reale, bisbigliando per non farsi accorgere dai guardiani. L’Elefante è ancora sotto i ferri, e nessun medico si azzarda a fare una prognosi. Si è preso tre proiettili calibro .22, uno in un fianco e due nell’addome, e ancora non si riesce a capire se dentro il suo corpo sia rimasto qualcosa di sano.
Noi superstiti siamo guardati a vista, nell’attesa che Bernardi finisca di interrogarci. Non è dell’umore migliore, e solo la testimonianza del Piraña, difficile da ignorare, ha impedito la nostra traduzione in carcere. Sono il terzo a farmi torchiare e mento quasi su tutto per una buona mezz’ora. Alla fine Bernardi mi fa firmare il solito foglio, con una nube nera che gli volteggia sopra il berretto della divisa. «Non la passa liscia, questa volta, signor Dazieri.»
Sai che novità. Bernardi toglie la sorveglianza alla saletta, siamo liberi di muoverci e di raccontarci quanto siamo stati imbecilli. Io ne approfitto per andare a darmi una sistemata. C’è un ambulatorio vuoto sul piano, ginecologia, uno di quei posti dove difficilmente metterò ancora piede. Mi lavo nel lavandino dietro il paravento cercando di non scappare inorridito alla mia stessa vista.
Sono a torso nudo, con strisce di sangue secco e macchie di fango che mi mimetizzano dalla testa ai piedi. Mi spoglio completamente e mi sfrego con una palla di carta asciugamani. Do anche una passata ai pantaloni, poi sottraggo un camice bianco corto e lo indosso, infilando bene l’orlo nei pantaloni. L’effetto finale è un po’ dottor Kildare in vacanza, ma meglio che sembrare l’uomo selvaggio del Borneo, come prima.
All’una del mattino arriva Stefania, la fidanzata dell’Elefante, faccia distrutta e sguardo di odio riservato a me. Sono pronto a farmi prendere a sberle, e mi farebbe anche bene, invece vengo solo fustigato a parole. Perché continuo a coinvolgere Marco in un lavoro che non è più il suo? Perché faccio rischiare i miei amici per giocare alla guerra? Poi Stefania si rivolge ad Alex e Kik che fissano il pavimento solo perché non possono attraversarlo e sparire.
«Ma pensate di essere ancora dei ragazzi? Credete di essere immortali? Volete tutti diventare come lui?»
Lui sono io e non ho bisogno di chiederle che cosa intenda. Mi sposto nell’angolo più lontano e smetto di disturbare.
Ce lo fanno vedere alle tre del mattino dalla porta della terapia intensiva. Vedere per modo di dire, perché è talmente ricoperto di tubi e cavi che dell’Elefante si riconosce solo un ciuffo di capelli e la forma di un piede sotto il lenzuolo. C’è quasi tutto. Gli hanno tolto la milza e qualche centimetro di intestino tenue. Gli manca anche un pezzetto di rene, ma i chirurghi sono riusciti a chiudere il buco durante la parte più lunga e difficile dell’operazione. Ed è vivo, meravigliosamente e miracolosamente vivo, anche se non ha ancora ripreso conoscenza.
C’è una macchina metallica che fa ping e traccia il grafico delle sue pulsazioni, filiformi ma regolari. Stefania è l’unica a poter entrare, con camice e mascherina, e quando esce nessuno di noi ha il cuore di chiederle nulla. Ci basta guardarla in faccia.
Siamo tutti abbastanza stravolti, ma non ce la sentiamo di lasciare l’Elefante da solo in mezzo agli estranei. Mi offro per il primo turno in ospedale, Stefania accetta lasciandosi abbracciare da me per la prima volta da quando è arrivata.
Le voglio bene, anche se il mio modo di dimostrarglielo è sempre stato quello di farle subire i miei guai. Poi guardo il gruppo allontanarsi sentendomi colpevole come non mai.
Mi siedo nella nicchia di un termosifone in faccia al carabiniere di guardia al mio amico, ripensando a tutte le volte che sono andato in ospedale a trovare qualcuno, di solito ferito da omaccioni grossi e cattivi, e a quelle in cui ero io il degente da consolare. Il mio primo ricovero professionale risale all’89, una rissa del cavolo in una discoteca del piffero, quando ancora dovevo imparare a usare il mio carisma. Qualche pugno, qualche calcio nelle costole e una presa cattiva alla testa, usata per sbattermi la faccia contro il cofano di un’automobile.
Ne ero uscito malconcio soprattutto nello spirito, perché per la prima volta avevo annusato l’odore della morte possibile. Bastava un calcio alla tempia dato bene e sarei stato uno dei tanti cadaveri nelle pagine locali dei quotidiani. Ucciso buttafuori. Sono uscito con la forma del naso cambiata, una mano che faticava a chiudersi e un modo diverso di vedere il mondo.
Adesso, seduto in attesa di non so cosa nel corridoio dell’ospedale, capisco che nella vita le linee d’ombra da passare sono più d’una.

2

Alle cinque del mattino mi scuote dal torpore un suono di passi che non è il solito dell’infermiere notturno o quello del vecchietto svanito che riappare a intervalli regolari. Sorpresa: è Gipi, che appare in fondo al corridoio in maglietta e jeans, oltre al marsupio pieno di ferraglia appeso sulla pancia. Una sorpresa, ma non totale. Erano due giorni che non si faceva sentire, c’era qualcosa che covava. Il carabiniere di guardia annusa sospettoso alla vista di questo pezzo di marcantonio, lo precedo e vado incontro a Gipi salutandolo con la mano. Lui non sorride, ha un’espressione stanca, professionale e dura.
«Amunì» dice, indicando l’uscita con il capo.
Controllo oltre la porta della terapia intensiva. L’Elefante non si muove da quando ha spostato una gamba mezz’ora fa. Però prosegue regolare il suono dell’ossigeno che passa dai tubi ai suoi polmoni, ho imparato a distinguerlo da quello più strozzato che emette l’altro occupante della stanza, un ragazzo che si è impastato con il motorino. In confronto, l’Elefante è messo bene.
Precedo Gipi verso l’uscita e ci fermiamo a lato dell’ingresso principale, vicino alla rampa che porta al garage delle ambulanze. Mi siedo sul muretto in cemento, Gipi si appoggia al palo di un lampione che emette una luce acida, attirando nubi di moscerini e zanzare.
«Che è ’sta camurria?»
Gipi stringe gli occhi, sono iniettati di sangue. «Non sfottermi. Non dormo una minchia da tre giorni.»
«Allora vai a letto. Buonanotte.»
«Ti ho già detto di non sfottermi. Il nome Giuseppe Strazzi ti dice niente?»
Oh, oh, ci siamo. «Mi dice quello che dice a te. Si diverte a tirare i sassi agli zingari.»
«E poi?»
«E poi cosa?»
Ha uno scatto d’ira contro se stesso, si afferra le guance con rabbia. «Mi prenderei a sberle per averti chiesto di aiutarmi. Sono un imbecille.» Infila le mani in tasca, poi le estrae e le infila di nuovo. «È stato ricoverato in ospedale, qualcuno l’ha caricato di mazzate.»
«Non sono stato io.»
«Lo so. Ci ho parlato.»
«E perché?»
«Perché, mi chiedi. Ti ho dato io il suo nome, se avevi combinato qualche minchiata dovevo saperlo, magari prima del giudice.» Sbuffa. «Sono stati i suoi amici a mandarlo all’ospedale, quelli con cui va in giro di solito. Lo hanno pestato perché lui aveva fatto i loro nomi con un grandissimo cornuto. Vuoi sapere chi è il grandissimo cornuto?»
«No, e neanche tu dovresti volerlo.»
«Davvero?» Apre i pugni mostrandomi i palmi callosi. «Sandrone, io sono un agente di polizia, non un giustiziere della notte. Se qualcuno viene massacrato di botte non posso far finta di niente. Però, se fosse solo questo il problema, a te che te ne fotterebbe? Niente, tutto tra di loro si sono fatti.»
«Mi hai rubato le parole di bocca.»
«E potrei anche chiudere un occhio su come ti procuri gli informatori, anche se questi informatori poi si rompono le ossa a vicenda. Potrei, se non si trattasse di omicidio, mondo infame!» La sua voce è esplosa in un tuono. Sullo sfondo, l’antifurto di un’auto si spaventa e mette in azione il clacson. Un infermiere corre fuori a spegnerlo con il telecomando.
Gipi mi fissa con gli occhi da basilisco aspettando che io replichi.
Mi gratto il naso. «Non capisco di cosa stai parlando.» I bicipiti di Gipi fremono per un secondo, mi preparo a tuffarmi nella botola della cantina. Ma è un falso allarme. Prende un chewing-gum dalla tasca e lo mastica rumorosamente. Mi arriva una zaffata di menta piperita. «Hai la faccia come il culo» dice.
«Me l’hanno data con il tesserino di investigatore privato.»
«Tu non ce l’hai il tesserino di investigatore privato.»
«Non sottilizziamo.»
Gipi scuote la testa. «Sandrone, parliamoci chiaro. Io so che stai cercando Leandro Maugeri. E so che lo stai cercando perché sei convinto che sia stato lui a dar fuoco a quella minchia di capannone.»
E bravo Strazzi. Più furbo del previsto, e anche più chiacchierone del necessario. «Te lo concedo, sto cercando Maugeri, ma è una questione di famiglia. Suo padre vuole fare la pace. Se Strazzi si è fatto strane idee, non è un buon motivo perché tu ci...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Gorilla Blues
  4. Parte prima. IL BLUES DEI PIATTI SPORCHI
  5. Parte seconda. IL BLUES DELLA CATTIVA FORTUNA
  6. Parte terza. IL BLUES DEL GORILLA
  7. Epilogo
  8. Ringraziamenti
  9. Note
  10. Copyright