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II
LA GRANDE ILLUSIONE
Gli italiani in Russia
Il 21 giugno 1941, dopo un anno di relativa tranquillità , si aprì in Europa un nuovo fronte di guerra rispetto al quale quello africano diventava secondario e trascurabile. Tre quarti dell’esercito tedesco (118 divisioni motorizzate e 20 corazzate, per un totale di 3.050.000 uomini) attaccarono l’ignara Unione Sovietica dal Baltico ai Carpazi. Era l’inizio dell’operazione «Barbarossa» che colse di sorpresa sia la Russia che il mondo intero, salvo naturalmente Winston Churchill che era stato precedentemente informato da Ultra e che ora poteva finalmente allearsi col «diavolo» contro il comune nemico. Anche Mussolini era stato colto di sorpresa: Hitler lo aveva informato appena poche ore prima dell’inizio delle operazioni. Ma lo «sgarbo» dell’alleato, invece di offenderlo, lo aveva spinto ad affrettare i tempi per correre, come si usa dire, in soccorso al vincitore. Quel giorno stesso infatti aveva dichiarato guerra all’URSS e quindi implorato (sì, implorato, perché è questo che accadde) Hitler di concedergli l’onore di partecipare con le sue truppe alla memorabile impresa.
Gli ultimi disastrosi avvenimenti avevano evidentemente appannato la sua lucidità mentale. Mussolini era ormai ridotto all’ombra di quello scaltro uomo politico che fino al 1939 aveva primeggiato sulla scena politica mondiale. Altro non si può pensare per spiegare i suoi comportamenti presenti e futuri. Fallito il suo bluff (quando era entrato in guerra convinto che mancassero poche settimane all’armistizio con l’Inghilterra), una serie di disastrosi errori e di tragiche avventatezze lo aveva privato di ogni autonomia. Egli era ora legato mani e piedi al carro tedesco e dalla sua umiliante posizione subalterna si adeguava a ogni decisione del più potente alleato nella speranza di guadagnarsi un poco della sua gloria riflessa.
In quei giorni convulsi, fra il Duce e il Führer si era svolto uno sconcertante scambio di messaggi. Con il primo che continuava a offrire il suo indesiderato «aiuto» all’eroico esercito tedesco in marcia verso Mosca. E con il secondo che cercava di dissuaderlo tergiversando e suggerendogli con franchezza che «l’aiuto decisivo, Duce, lo potrete meglio fornire rafforzando le vostre truppe nell’Africa settentrionale».
Ma alla fine Mussolini era stato accontentato e Hitler, sicuramente di malavoglia, ma ufficialmente «col cuore colmo di gratitudine», aveva finito per accettare l’apporto italiano. Col risultato che le nostre migliori divisioni sarebbero state mandate a dissanguarsi nelle steppe sovietiche, in una guerra non sentita, invece che in Africa settentrionale dove si combatteva l’unica sola guerra in cui era impegnata la nostra bandiera.
Gli echi della strepitosa avanzata dei panzer di Heinz Guderian in Unione Sovietica colsero Erwin Rommel mentre dall’altopiano che dominava il Mediterraneo studiava il terreno alla ricerca della tattica più efficace per espugnare Tobruk. Le gambe ben piantate per reggerne la figura tozza, il volto abbronzato, osservava la città col binocolo chiedendosi di quale entità fossero le sue difese. Il sole si rifletteva sui suoi occhiali di perspex, che sarebbero diventati un tratto caratteristico della sua immagine. Li aveva trovati fra il ricco bottino catturato a Mechili e se li era tenuti.
Rommel non disponeva di una sede stabile. Di notte dormiva in una piccola roulotte di fabbricazione italiana che lo seguiva dovunque, di giorno scorrazzava lungo le linee a bordo del suo veicolo-comando da lui ribattezzato Mammut. Si trattava di un mezzo catturato agli inglesi: uno scatolone grande quanto un autobus, coi fianchi blindati e privi di finestrini. Soltanto sul davanti il conducente disponeva di piccole aperture a protezione delle quali si potevano abbassare degli schermi corazzati. Una croce bianca e nera, simbolo della Wehrmacht, che sovrastava la palma con la svastica dell’Afrika Korps, segnalava il cambiamento di proprietà del grosso automezzo britannico.
Rommel e gli italiani
Rommel ambiva alla conquista di Tobruk sia per ambizione personale che per validi motivi strategici. Lontano 1900 chilometri da Tripoli, quanto Roma da Amburgo, quel porto era il migliore della Cirenaica e il suo utilizzo avrebbe enormemente accorciato le vie dei rifornimenti. Inoltre, se non se ne fosse impadronito, le sue truppe dirette verso la frontiera egiziana sarebbero dovute uscire dalla comoda via Balbia e proseguire per un centinaio di chilometri lungo una rudimentale pista desertica in condizioni deplorevoli e, per giunta, esposte agli attacchi offensivi che sarebbero potuti provenire dalla città assediata.
In un primo tempo, Rommel era anche caduto in un grave errore di valutazione che gli costerà molte perdite. Ignaro dell’ordine impartito da Churchill di difendere Tobruk fino all’ultimo sangue, pensava che il nemico si fosse concentrato nella piazzaforte per tentare un’evacuazione via mare identica a quella cui aveva assistito a Dunkerque. Perderà molti mezzi e sacrificherà molti uomini prima di rendersene conto. Per alcuni mesi, infatti, egli si accanì contro la città assediata mandando alla morte migliaia di soldati, in particolare italiani.
In quei giorni, era giunta in Libia la divisione corazzata Ariete e, prima ancora che i nostri carristi si fossero acclimatati all’ambiente, Rommel non aveva esitato a mandarli allo sbaraglio. Si comporterà così anche in altre occasioni per risparmiare i propri uomini. Un comportamento che i critici a lui favorevoli giustificano col fatto che le esigenze della guerra lo obbligavano a impiegare le forze italiane perché assai più numerose rispetto alla modesta entità del contingente germanico. Comunque sia, Rommel non nutriva particolare considerazione per le nostre truppe, che spesso usò come «carne da cannone» così come facevano gli inglesi con le loro truppe coloniali.
Anche se i suoi giudizi risulteranno spesso contraddittori, la sua opinione sui nostri soldati è forse riassunta in questa frase che emerge dalle sue lettere alla moglie: «Sono ottimi, pazienti, resistenti e coraggiosi, ma male armati e peggio comandati». Mentre l’espressione ammirata che gli viene attribuita, «Il soldato tedesco ha stupito il mondo, il bersagliere italiano ha stupito il soldato tedesco», forse la pensò, perché i nostri bersaglieri meritarono in più occasioni questo elogio, ma pare che non l’abbia mai pronunciata. Egli esprimeva sempre con parsimonia commenti positivi sui nostri combattenti e solo quando era costretto ad arrendersi di fronte all’evidenza. Non nascondeva invece il disprezzo che nutriva verso i nostri comandanti e lo manifestava anche quando non era il caso. D’altra parte, ironizzare sugli Italiener (parola che già con la piega della bocca di chi la pronunciava esprimeva un significato negativo) era lo sport più diffuso nel suo entourage. Lui stesso non esitava a scrivere alla moglie: «Non ho mai avuto una buona opinione di questi distinti gentiluomini. Merde sono e merde resteranno».
In realtà , anche se alcuni dei nostri ufficiali superiori meritavano effettivamente aspre critiche per la loro condotta, gli altri, e non soltanto quelli di complemento, accettarono spesso il sacrificio e adempirono onorevolmente ai loro doveri malgrado il gap tecnologico che li divideva dai più efficienti camerati tedeschi. C’è da aggiungere infine che, col passare del tempo, molti nostri ufficiali si conquistarono la sua stima. In particolare quelli che, sotto la guida del generale Giuseppe Mancinelli, operarono al suo fianco come addetti al collegamento fra i due comandi.
Critico con tutti, Rommel non amava riconoscere i propri errori. Cercava sempre di scaricarli sugli altri e, soprattutto, sugli italiani. Per esempio, quando Gariboldi cercò di frenare la sua avanzata facendogli osservare che l’allungamento spropositato delle linee di comunicazione senza adeguate precauzioni avrebbe reso difficile provvedere ai rifornimenti delle truppe, aveva replicato con un’alzata di spalle: «Questa non è cosa che mi riguardi. Questi sono affari vostri». Poi però, a mano a mano che la crisi dei rifornimenti si aggravava, invece di riconoscere che quel problema se lo era creato da solo, scaricava la propria rabbia contro gli italiani che, a suo dire, non difendevano sufficientemente i convogli.
In effetti il traffico marittimo si era fatto più difficile perché Malta non era stata del tutto neutralizzata e adesso era irta di basi navali e aeree. Tuttavia, pur sottacendo che molti dei nostri convogli venivano facilmente individuati dal nemico grazie alle informazioni diffuse da Enigma, è innegabile che la nostra marina assolse bene i suoi compiti. Le aride statistiche non sono di facile lettura, ma vale la pena di citarne alcune. Da esse risulta che in media ogni trasporto disponeva sempre di più di un’unità di scorta: un rapporto mai raggiunto dagli Alleati. Su 206.402 soldati italiani e tedeschi inviati in Africa settentrionale, ne approdarono sani e salvi 189.162, pari al 91%. Su 600 mila tonnellate di carburante spedito, ne arrivarono 476 mila (80%). Su 275 mila tonnellate di carri armati e veicoli vari, ne furono sbarcate 244 mila (88%). Su 172 mila tonnellate di armi e munizioni, ne giunsero 150 mila (87%). Questi sono dati che non giustificano la dura espressione cui Rommel spesso ricorse per spiegare la crisi dei rifornimenti: «tradimento italiano». Le percentuali dei danni subiti dai convogli alleati affondati dagli U-Boot in Atlantico furono assai più pesanti.
L’assedio di Tobruk
Per tutta l’estate del 1941, per le truppe che assediavano Tobruk si trascinò una logorante guerra di posizione. Conseguentemente agli ordini di Churchill, la piazzaforte era stata rinforzata. I difensori, che avevano a disposizione comode caserme, ospedali, ghiacciaie e persino preziose zanzariere, utilizzavano fruttuosamente anche le opere di fortificazione costruite dagli italiani (128 ridotte collegate fra loro, camminamenti abilmente mimetizzati, fosse anticarro, bunker e così via). La guarnigione britannica che difendeva la piazzaforte assediata era composta di 34 mila uomini scelti fra i più formidabili soldati dell’Impero. In gran parte erano australiani, che Rommel definiva «i soldati più alti, più grossi, più muscolosi e più combattivi che abbia mai visto».
Le condizioni delle truppe assedianti erano assai più precarie di quelle degli assediati. Niente depositi, niente caserme o alloggi coperti, ma solo sabbia e rocce, sole feroce e mosche. Erano tutti malandati, i disturbi gastrici non risparmiavano nessuno ed era un continuo via vai fra le dune. I tedeschi, che erano tutti muniti di una vanghetta per occultare i propri scarichi, chiamavano scherzosamente questa operazione Spatengang (corsa con le palette). I rischi di infezione erano molteplici: il minimo graffio si trasformava subito in una piaga. L’acqua era scarsa, il cibo inadeguato e sempre lo stesso: gallette, marmellata, olio d’oliva (il burro tanto amato dai tedeschi irrancidiva subito), formaggio fuso e scatolette italiane di carne che recavano la sigla AM stampigliata. Significava Amministrazione Militare, ma i tedeschi scherzando vi leggevano Alter Man, «uomo vecchio». Gli assediati ricevevano invece regolarmente via mare acqua minerale, frutta, verdura, cioccolato, tè, caffè e altri sostanziosi alimenti, cosicché spesso gli italiani organizzavano puntate offensive soprattutto per procurarsi quelle preziose leccornie.
L’estate africana era ormai nel suo pieno. La temperatura raggiungeva i 45 °C. Impossibile appoggiare le mani sulle corazze dei carri, meglio usarle per friggervi le uova. Frattanto, mentre davanti a Tobruk le forze dell’Asse segnavano il passo, i reparti che avevano aggirato la piazzaforte per raggiungere il confine egiziano attendevano con una certa impazienza l’ordine di avanzare verso il Canale. Rommel, da parte sua, si spostava continuamente con il suo Storch o con il suo Mammut dall’uno all’altro fronte. Il suo arrivo improvviso preoccupava i comandanti, ma sollevava l’entusiasmo della truppa. Anche i soldati italiani che combattevano ai suoi ordini avevano finito per adorarlo: ben di rado era loro accaduto di vedere un proprio generale sul campo di battaglia e godevano quando «radio-gavetta» riferiva gli «scazzi» di Rommel contro quegli ufficiali superiori italiani, grassi e indifferenti, che gli capitavano fra le grinfie.
A metà estate, gli inglesi tentarono una controffensiva davanti a Sollum. Pochi giorni prima un convoglio britannico, che era riuscito ad attraversare indenne il Mediterraneo, aveva scaricato ad Alessandria 238 carri armati, in gran parte del tipo Matilda, che erano stati subito impiegati nell’operazione. Rommel era consapevole della loro invulnerabilità rispetto ai modesti pezzi da 47 degli italiani e agli ancora più modesti «37» in dotazione dei tedeschi. Ma anche in questa occasione la sua inventiva giocò un brutto scherzo agli attaccanti. Ordinò infatti che gli uomini della Flak, la contraerea tedesca, intervenissero nel combattimento terrestre utilizzando i loro potenti «88». Un «uovo di Colombo» si dirà , ma nessuno ci aveva pensato prima.
Nella corso della battaglia, i carri italiani e tedeschi, appoggiati dalla contraerea «appiedata» ebbero infatti la meglio sui temibili Matilda. Gli «88» ne fecero strage e la vittoria delle forze corazzate dell’Asse fu clamorosa: 180 carri nemici distrutti contro 12 perduti da parte nostra. Più tardi, un maggiore britannico fatto prigioniero chiese di poter vedere il cannone che aveva distrutto il suo carro. Quando gli fu mostrato il pezzo da 88 commentò malinconicamente: «Non mi sembra leale servirsi di un cannone antiaereo contro un carro!». Da parte loro, gli inglesi rimasero all’oscuro del segreto e supposero che i colpi che avevano distrutto i loro mezzi fossero stati sparati dai carri nemici. Così accadde che i panzer acquistassero maggior rispetto.
La fabbrica del mito
Forse perché geloso dei grandi successi che andavano raccogliendo in Russia i suoi colleghi, Rommel aveva intensificato gli sforzi per alimentare la sua leggenda che già era molto diffusa in Germania. Gli era infatti molto caro mantenere viva quell’immagine di «generale del popolo» che il ministro della propaganda Goebbels gli aveva attribuito in polemica con gli altri generali «prussiani» piuttosto restii a farsi strumentalizzare. Rommel, al contrario, si prestava volentieri alle esigenze della propaganda e non si faceva pregare per pronunciare esaltanti dichiarazioni di fedeltà al Führer e al regime nazista.
Questo suo comportamento gli aveva già procurato notevoli vantaggi. Nel 1939, per esempio, era ancora tenente colonnello, ma in meno di due anni aveva raggiunto, per meriti forse più politici che militari, quello di tenente generale. Goebbels aveva anche disposto che una folla di giornalisti e di cineoperatori fosse sempre aggregata al suo Stato Maggiore con l’incarico di illustrare le gesta del «generale del popolo». Eccezionalmente, gli era stato affiancato come press-agent personale (ruolo inesistente presso tutti gli altri comandi) il tenente Alfred Berndt, che era un giornalista nazista amico di Goebbels e ben introdotto nella corte del Führer. Rommel lo utilizzerà per mantenere rapporti diretti con Hitler, mentre gli articoli entusiastici che Berndt pubblicava sul «Das Reich», l’organo ufficiale del partito nazionalsocialista, costruiranno le fondamenta del suo mito.
Dopo la clamorosa vittoria di Sollum, Hitler convocò Rommel a Berlino per conferirgli, nel corso di una grande manifestazione in suo onore, una decorazione creata apposta per lui: la croce di ferro con spade e fronde di quercia. Poi manifestò l’intenzione di promuovere il festeggiato da tenente generale a generale. La proposta indignò il suo capo di Stato Maggiore, Franz Halder, e anche molti altri ufficiali si ribellarono all’idea che un tenente colonnello potesse passare in meno di due anni al grado di generale. Ma Hitler non cambiò idea: Rommel era il suo condottiero prediletto. «È davvero magnifico salire così in alto per uno ancora così giovane» scrisse felice il neopromosso alla moglie, «ma intendo fare ancora incetta di altre stellette.»
Poco amato dai suoi diretti subalterni, che lo accusavano di «guida erratica», di «grottesche decisioni» e anche di avere trasformato Tobruk in una «piccola Verdun», Rommel però continuava a vincere e chi vince ha sempre ragione. La stima che Hitler nutriva nei suoi confronti cresceva di giorno in giorno e tale posizione privilegiata, oltre a porlo al riparo dalle critiche dei colleghi, paralizzava anche gli sforzi dei comandanti italiani desiderosi di liberarsi dell’ingombrante personaggio.
Dopo le dimissioni di Graziani e il breve interinato affidato a Bergonzoli, il comando in capo delle forze dell’Asse in Libia era stato affidato, com’è noto, a Italo Gariboldi. Personaggio accomodante, dopo i primi scontri non aveva faticato a stabilire un sopportabile modus vivendi con l’intrattabile «subalterno» tedesco. Ma Gariboldi rimase in Africa pochi mesi, poi venne richiamato in patria per essere trasferito sul fronte russo. Al suo posto, arrivò il generale Ettore Bastico, amico personale di Mussolini e considerato dai tedeschi «uomo difficile, pignolo, autocratico e aggressivo». Insieme a Bastico era giunto anche il generale Gastone Gambara, con il compito di assolvere a un doppio incarico: quello di capo di Stato Maggiore e quello di comandante del corpo motocorazzato italiano. Gambara era un generale efficiente dotato di forte carattere. Fin dalle prime mostrò chiaramente di non accettare di essere considerato da Rommel un subalterno. Gli scontri fra i due furono subito aspri e violenti. Qualche volta rischiarono anche di venire alle mani. Ma alla fine, come avremo modo di vedere, vincerà Rommel. Nel dicembre del 1941, Gambara fu infatti rimpatriato senza che ne fosse specificato il motivo, il quale, però, emerge da una lettera in cui Rommel comunicava alla moglie di essersi finalmente liberato del rivale. «Si dice» scriveva gongolante «che Gambara sia stato sostituito perché si è lasciato sfuggire al circolo ufficiali che egli intendeva rimanere in Africa fino a quando non avesse avuto l’occasione di comandare una divisione contro di me, contro i tedeschi.»
Anche con Bastico, che Rommel aveva sarcasticamente ribattezzato «Bombastico», i rapporti non furono facili: il primo intendeva comandare mentre l’altro non aveva alcuna intenzione di obbedire. In seguito, il tedesco assunse nei confronti del suo «superiore» anche un atteggiamento villano e sprezzante, giungendo persino a snobbarlo pubblicamente. Rifiutava di eseguire i suoi ordini, continuava a fare di testa propria senza neppure informarlo e disertava le riunioni con la scusa che era troppo occupato in prima linea. Poi, con maligna soddisfazione, scriveva alla moglie Lucie: «Il comandante italiano in Libia è seccato per il fatto di avere con me così poca voce in capitolo. Non manca di farmi dispetti meschini, ma non ho intenzione di sopportarlo a lungo. Certamente trama nell’ombra per sbarazzarsi di me. Ma sarà lui a rimetterci».
In verità Bastico continuava a considerare l’interesse di Rommel per Tobruk al pari di una morbosa ossessione e insisteva affinché si proseguisse l’avanzata verso Suez senza preoccuparsi della piazzaforte assediata. Questo dissidio durerà lunghi mesi, fino a quando non ci penseranno gli inglesi a richiamare i due contendenti alla realtà .
Il sogno di una notte di mezza estate
Rommel si annoiava. Il fronte era immobile e lui passava il tempo andando a caccia di gazzelle («i loro fegati sono una squisitezza» scriveva alla moglie). Invece del fucile di precisione, usava la machine pistole, sparando a raffica sulle povere bestiole in fuga. Ogni battuta era un massacro. Verso la fine di settembre del 1941, sempre «per combattere la noia», come confidò alla moglie, ma anche per rianimare le truppe dopo mesi di ozio, organizzò una puntata offensiva in territorio egiziano che fu denominata in codice «Sogno di una notte di mezza estate». L’obbiettivo era un enorme deposito britannico situato una quindicina di chilometri oltre il confine.
I carri si misero in movimento trascinandosi dietro fascine legate con corde per sollevare minacciose nuvole di polvere. L’attacco colse gli inglesi di sorpresa e consentì a italiani e tedeschi di impadronirsi di un favoloso bottino. Al rientro alla base, i soldati viaggiavano festosi a bordo di decine di camion Dodge, Ford e Rover carichi di ogni bendiddio: carne in scatola argentina, salmone in scatola canadese, latte in polvere americano, pancetta affumicata inglese, whisky scozzese, sigarette e ciocc...