Ancora un sonno all’aperto
Un’altra volta rischiai la salute per essermi addormentato all’aperto in pieno inverno a causa del vino. Quando ero giovane, prima degli anni Settanta, c’era meno rischio di farsi male o morire negli schianti del sabato sera; non avevamo le automobili.
Quelle vennero dopo, e con esse gli incidenti. Da allora, quelli del mio gruppo ed io se non siamo finiti in cimitero con certi capitomboli automobilistici è stato solo per quella fortuna divina che si chiama miracolo. Comunque pericoli ne correvamo lo stesso quando eravamo pieni di alcol. Uno era quello di addormentarsi per strada.
L’ennesimo sonno all’aperto mi prese ancora di vigilia, un Capodanno di parecchio tempo fa. Da un paio di giorni bazzicavo osterie assieme ai compari di baldorie. Da noi, ma ho scoperto che tale moda ha attecchito dappertutto, si usa anticipare le feste iniziando con le libagioni un paio di giorni prima, in modo da vivere e gustare di più il finale tanto atteso. È una specie di allenamento per entrare già rodati nel clima gioioso di una festa. Ma forse il motivo è un altro, più malinconico. È la consapevolezza che la festa, quando arriva, in pratica è già finita. Allora si cerca di allungarla incominciando a goderne prima. Per questo la gente addobba l’albero di Natale con un mese di anticipo. Lo spiega la famosa poesia, dove trapela chiaramente che il sabato è meglio della domenica perché questa inesorabilmente ci rammenta il lunedì, quando “al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno”. Per vincere queste tristezze, presenti nei paesi di montagna dove la solitudine arriva col primo sole e va a dormire con la luna, abbiamo inventato un paio di giorni pre-baldoria per attendere l’arrivo della festa. Sono il venerdì e il sabato.
Quella vigilia di fine anno, assieme al fidato Silvio, girai i paesi della Valcellina iniziando da Barcis, patria del grande poeta Giuseppe Malattia, per finire a Cimolais, ultimo luogo del sorriso prima del passo Sant’Osvaldo e il silenzio di Erto. Tra i due capisaldi che racchiudono la forra, Barcis e Cimolais, ci stanno altri avamposti che Silvio ed io visitammo. Andreis, dove vive in scontroso ritiro un altro grande poeta friulano, l’amico Federico Tavan. E poi Arcola, Contrón, Cellino e il grosso paese di Claut. Tutti centri dove, nonostante l’arrivo del progresso e dei cellulari, resiste un gruppo di artigiani del legno così abili da sconfinare nel virtuosismo.
Quella volta Silvio ed io avevamo ingaggiato un amico astemio che ci faceva da autista. Dopo una decina di incidenti e auto sfasciate (sette il solo Silvio), fu chiaro a tutti che a tirare troppo la corda prima o dopo qualcuno sarebbe finito in cimitero. Così già allora adottammo una soluzione efficace e sicura: chi guida non deve bere. A maggior ragione la cosa vale oggi che con i punti ti ritirano la patente. Ma è soprattutto per la vita che serve un autista fidato, non per la patente.
Non sempre il pilota manteneva la promessa e poteva accadere che alla fine fosse più ubriaco di noi. Allora decidemmo di ingaggiare solo autisti astemi, ma non era facile trovarne. Certo è che con un astemio, salvo una sfiga del diavolo, si è nella classica botte di ferro. Quella vigilia di fine anno Silvio ed io eravamo riusciti a pescare una di quelle mosche bianche che guidano l’automobile e non bevono alcolici. Ed era pure molto disponibile, giacché per fare l’autista a due come noi ci vuole una bella dose di pazienza, altruismo e spirito di sacrificio. Il nostro possedeva tutto questo ma, all’albergo Duranno di Cimolais dove avevamo aspettato l’anno nuovo, verso le due del mattino, quando si mise a nevicare fitto, il pilota all’acqua minerale perse le sue doti.
«Dobbiamo andare – disse perentorio – fra un poco il passo Sant’Osvaldo diventerà impraticabile e la macchina non ce la farà a salire.»
«Metteremo le catene» ribattei.
«Non le ho – rispose l’autista – ma anche se le avessi, io vado a casa subito. Se venite vi porto, altrimenti vi lascio qua.»
«Io resto – risposi seccato – se voi volete andare, quella è la strada.» E ripresi a bere e cercare l’equilibrio in un ballo instabile con una matrona felliniana di stazza tale che se mi fosse rovinata addosso m’avrebbe schiacciato come un moscerino.
L’autista si avvicinò e mi disse: «Io e Silvio ce ne andiamo, ci vediamo più tardi». E uscirono nel nevischio turbinante.
Continuai la baldoria brindando a spumante con i numerosi avventori. Quando m’accorsi che la festa impallidiva, decisi di avviarmi a piedi verso Erto. Nevicava, uno spettacolo affascinante. Era la prima neve dell’anno, e l’idea di affrontare il passo Sant’Osvaldo nel vorticare dei fiocchi mi stimolava. Il caro Icio, l’amico buono, allora ancora padrone dell’albergo, mi fornì una torcia elettrica e una candela che ficcai in tasca. Verso le quattro mi avviai barcollando con in una mano mezza bottiglia di cognac afferrata al volo da un tavolo e nell’altra la pila. Al bivio puntai deciso verso il passo. Lungo i tornanti stentai a trovare l’orientamento, finché imboccai la traccia giusta. Ma il piede, vuoi per la neve vuoi per l’alcol, non riusciva a tenere un ritmo dignitoso. Viaggiavo a zig-zag e avanti-indietro come la martora quando vuole confondere le peste.
Ogni tanto tiravo un sorso dalla bottiglia e su, lentamente, verso l’agognato passo. Che finalmente raggiunsi. Alla luce della torcia il paesaggio era fiabesco. Quaranta centimetri di neve fresca imbiancavano il promontorio e i boschi. Attorno alla chiesetta aveva girato una volpe pochi attimi prima. Ma la traccia scomparve presto perché la neve continuava a venir giù silenziosa e lieve a salutare l’anno nato da poche ore.
Al riparo sotto il portico della cappella, accesi la candela e la posai sulla finestrella a ricordo dei morti e per buon auspicio ai vivi. Poi mi sedetti a bordo del muretto che delimita la strada per godermi lo spettacolo della nevicata. Da Cimolais e da Porto Pinedo giungeva fin lassù l’eco attutito dei botti che qualche ritardatario faceva ancora esplodere. Da Erto invece giungevano i rintocchi della campana grande tirata a turno dai volontari, che avrebbe suonato fino al pomeriggio. La fedele bottiglia di cognac, che non era più mezza ma molto meno, mi tenne compagnia. Lo fece finché poté, poi si esaurì. E con lei terminò anche la mia resistenza.
Non so come né quando, ma successe. Mi accasciai sul muretto e mi addormentai anestetizzato da due giorni di strapazzi. Ad un certo punto sentii qualcuno scuotermi e una voce pronunciare il mio nome. Mi svegliai con la sensazione di stare dentro un blocco di ghiaccio. Era giorno fatto e stava ancora nevicando. Misi a fuoco il salvatore. Era l’amico Nando Martini, guardiacaccia e boscaiolo di Claut, che probabilmente passò di là perché tornava dai bagordi. Mi tirai su con difficoltà. Ero un vitello congelato. Aiutato da Nando mi infilai nella sua jeep.
«Sei stato fortunato – disse – mi sono accorto che c’era uno sotto la neve perché ho visto le scarpe spuntare a bordo del muro.» Quando mi scosse era convinto di maneggiare un morto e solo allora vide che ero io. Ancora vivo. Rattrappito ma vivo. «Ti porto a casa» disse.
«No, andiamo a Cimolais, da Icio Protti al Duranno.»
«Sei sicuro?»
«Sono sicuro.»
Così, a distanza di poche ore varcavo di nuovo la soglia dell’albergo Duranno. Il carissimo Icio mi fece ingurgitare mezzo litro di vino bollito con una dose di zucchero che il cucchiaio per mescolare rimaneva in piedi. Prima mi prestò abiti suoi per cambiarmi, scarpe comprese, i miei erano ghiaccio. Terminata la vestizione parevo un clown. Lui è uno e ottanta e di piedi fa quarantacinque. Dopo un’oretta di tremolii e brividi mi scongelai e, completamente ristabilito, assieme a Icio ripresi a festeggiare il Capodanno. Quella notte dormii da lui.
Il 2 gennaio mattina apparve l’autista astemio che mi riportò a casa. Non gli dissi nulla dell’avventura al passo Sant’Osvaldo. Alle ruote dell’auto aveva messo le catene.
Al G91
D’inverno, quando la cava chiudeva i battenti, mi arrangiavo in lavoretti occasionali, ma erano impieghi che duravano poco, al massimo fino al canto del cuculo. Era giusto un espediente per non dare fondo ai risparmi di sette mesi passati a spaccar pietre sul monte Buscada. Ma, soprattutto, cercavo un lavoro per non trascorrere l’inverno da un’osteria all’altra. Qualche ora, è vero, la dedicavo alla scultura in legno per imparare le tecniche, ma la tentazione di bighellonare con i sette compagnoni per i bar della valle era sempre in agguato.
A quei tempi vivevo solo, in una casetta in affitto. Le morose mi piantavano dopo nemmeno una settimana d’amore. Avevano ragione. Le donne intuiscono immediatamente quando hanno a che fare con un pessimo elemento. E se pur manifestano per lui qualche affetto, difficilmente reggono all’incubo di trascorrere anni infelici con lo sciagurato e fanno marcia indietro. Le frasi erano sempre quelle: «Così non può andare, bevi, fumi, come si fa a pensare al futuro con uno come te?».
«Il futuro non si pensa, viene da solo, come vuole lui» rispondevo per salvare la faccia. «Ma lavoro! Mica non faccio niente!» dicevo orgoglioso.
«Che c’entra se lavori, quando non sei mai a casa, non ti vedo mai, stai sempre con gli amici…»
Erano litanie che di solito si sentono da sposati. In quel momento capivo che la bella stava per lasciarmi e mentalmente preparavo appigli per sopravvivere. Ma forse una brace d’affetto si torce ancora sotto la cenere di quei lontani amori, altrimenti come spiegare che, dopo trenta e passa anni, un paio di quelle spasimanti, con capelli tinti e lifting nuovo, siano venute a rivelarmi che in fondo non mi hanno mai dimenticato? Bellezze, ormai è tardi, sono già postumo. Voglio dirvi una cosa però: nemmeno io vi ho dimenticate e quando mi siete apparse dinanzi il cuore ha avuto un sussulto.
Intorno agli anni Settanta le ragazze avevano già capito molte cose. Non si facevano più dominare, non ci stavano più a fare le schiavette, non davano più del lei al marito. Di questo bisogna rendere onore alle donne di montagna che, seppur lontane dai clangori della città e dalle condottiere del femminismo, furono le prime a reagire, a non concedere più certe pretese ai maschietti, a non subire più le loro imposizioni, a mandare a quel paese i mariti arroganti e misogini. Anche per questo alcuni di noi scapparono nell’alcol. Le donne ci avevano spiazzati, confusi. Quello che davamo per scontato come vittoria ce lo trovammo di colpo nella gerla delle sconfitte. Cogliendoci di sorpresa, la forza femminile si manifestò in tutta la sua potenza. Ci sentimmo piccini, e dovemmo rivedere tutto, dallo stile d’approccio alle richieste, dal gergo allora in uso al rispetto.
Ma, soprattutto, con il loro comportamento deciso, le ragazze ci insegnarono l’educazione. Se ricordo alcune coppie del passato che ho conosciuto, mi chiedo come abbiano fatto certe donne a resistere per trenta, quarant’anni, assieme ai loro mariti. Qualche volta anche il contrario. Ma sto divagando, meglio riprendere il filo interrotto.
L’inverno del ’69 lo trascorsi a Trento come manovale di terza categoria, nell’impresa dell’ertano Cice Corona Mela. C’era da tirare su un condominio di nove appartamenti. Il cantiere si trovava in via Bolognini, sulla sinistra orografica del torrente Felsina. La gente della zona ci battezzò i formichieri, perché si lavorava da buio a buio, a uso formiche. Eravamo una decina tra carpentieri, muratori e ferraioli, tutti ertani. Manovali solo tre: io, Pino e Pinotto. I vicini, mossi a pietà dal nostro lavorare al freddo, ogni tanto ci regalavano bottiglioni di vino e grappa. Mangiavamo e dormivamo in una baracca di legno adiacente il cantiere. Il vecchio Lilàn, padre di Cice, preparava i pasti. Era vita dura anche lì ma, rispetto alla cava, una vacanza.
Di sera, dopo cena, si andava a bere qualcosa e giocare a morra in un bar mitico che portava il nome, credo, di un aereo da caccia, il G91. Frequentato dai personaggi più disparati e pittoreschi, lo avevamo eletto a nostro punto di ritrovo. Bazzicavamo altri bar di Trento, soprattutto la Cantinotta, ma il G91 si distingueva per tolleranza all’ubriaco e tipo di avventori, perciò godeva della nostra preferenza.
C’era un avvocato sui quaranta, abbandonato dalla moglie, che si era dato al bere. Aveva una cultura vastissima e spesso si metteva a recitare l’Orlando furioso con piglio d’attore consumato. «Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori» esordiva, e beveva bianco. Se qualcuno gli diceva di smetterla perché aveva rotto i coglioni, rispondeva sempre al plurale: «Zitti voi, barbari, non toccatemi l’Ariosto».
Al G91 entravano tipi incredibili: politici, nobili decaduti, ciarlatani, artisti falliti (ma chi non lo è), bevitori inveterati, giovani sbandati, capelloni e quant’altro. Tutta gente con la disfatta seduta sulla spalla. Ma il clima del locale aveva un che di bello, familiare, accogliente, non privo di un certo mistero. Noi ertani eravamo stimati e benvoluti perché non ci impicciavamo nelle robe altrui, e se notavamo qualcosa di strano, tenevamo il becco chiuso. Non per vigliaccheria, omertà o complicità. No, volevamo badare ai fatti nostri e basta. Se tutti si facessero gli affari loro il mondo funzionerebbe meglio.
Ad esempio, sapevamo che il gestore del G91 teneva dietro al bancone un cassetto pieno d’armi, soprattutto revolver a tamburo e pistole. Ogni tanto me le faceva vedere. Le teneva coperte con un tovagliolo. Ma erano affari suoi, a noi non interessavano le sue faccende. Andavamo là per giocare a morra, bere vino e stop. Una volta gli domandai di comperare una pistola a tamburo, ma il prezzo che mi chiese non era a portata delle mie tasche. Allora disse di pazientare qualche tempo che me ne avrebbe procurata una a buon mercato.
In quel periodo, al G91 di sera si radunavano i giocatori di morra più famosi della zona perché era corsa voce che gli ertani erano imbattibili. Infatti vincevamo quasi tutte le partite. Ci davamo il cambio due per volta. Quando una coppia era stufa, subentrava l’altra a sfidare i trentini. La posta di ogni partita era un litro di vino da dividere con gli spettatori e colui che teneva i punti.
L’avvocato che declamava l’Ariosto era un morrista formidabile. L’unico a farci paura. Psicologo raffinato, intuitore, eccellente conoscitore di caratteri, dotato di una memoria inconcepibile in un bevitore, ci aveva schedato tutti. Di ognuno conosceva tendenze e ripetizioni. Sapeva che io, dopo tre battute, tendevo a uscire con l’uno. Ma anch’io sapevo che mi avrebbe fregato proprio lì, perciò alla quarta battuta cambiavo numero. Ma lui sapeva che sapevo, e che avrei cambiato numero. E sapeva pure i numeri che avrei cambiato e in che ordine li avrei messi giù. A morra si tende a ripetersi meccanicamente perché è così veloce che non vi è tempo per ripensamenti. La morra è gioco di scacchi gridato. Bisogna immaginare la mossa dell’avversario, rappresentata dal numero, fare mentalmente la somma con il tuo e battere tavolo chiamando il totale. Ma anche l’avversario fa lo stesso ragionamento, perciò cambia il numero che tu pensavi chiamasse. E così via per una sfilza infinita di mosse e contromosse, numeri e contronumeri. Chi ha più memoria, intelligenza, capacità di sintesi e colpo d’occhio diventa il morrista fuoriclasse.
Attualmente a Erto il migliore è l’amico Zoliàn, ma anche Bruno Ditta non lo si batte facilmente. La morra è gioco proibito in tutti i locali pubblici d’Italia. Non lo era al G91. È stato bandito perché, dicono, inviti alla rissa. Invece non è così. Il rissoso cerca rogne anche se va a messa, o a battezzare un figlio, a matrimoni o dove volete. È questione di carattere, non di gioco. Ho assistito a baruffe da Far West, con feriti e contusi, tra giocatori di carte. Eppure nessuno si è sognato di proibire le carte. Ho visto risse fra giocatori di biliardo con fior di steccate sulle teste. E così a dama, a scacchi, al calcio. In tutti i giochi vi sono stati scontri tra i contendenti. Si tratta di educazione, autocontrollo, rispetto reciproco, non di gioco. Ma, quasi a smentire ciò che ho appena affermato, una sera al G91, si sfiorò la battaglia. Quantomeno la si iniziò.
Io giocavo con Furìn, un ertano sui cinquanta, morrista più che abile, ma non ai livelli dell’avvocato. Che ci stava di fronte in toga da avversario, coadiuvato da un macellaio originario della Val di Non, largo quanto un camion, dal viso rosso cupo come un caco. Furìn aveva inventato un sistema per barare e rubare così qualche punto all’avvocato. Quando chiamava otto, invece di pronunciare il numero nitidamente, sbraitava: «Uottro» in modo che, a seconda del numero gridato dal legale, Furìn poteva affermare di aver detto otto oppure quattro. Perché uottro dà un suono che assomiglia a otto ma anche a quattro. Basta saperlo gridare con il gargarismo giusto e il trucco è fatto. Difficilmente l’avversario, nella concitazione delle voci, distingue se è l’uno o l’altro. Ma il principe del foro teneva orecchio fino, e anche se racchiuso in un corpo di dimensioni lillipuziane, il suo ...