Dolce è il sollievo: toglie peso alla vita e rende più lieve ogni cosa. Ma non è adatto a un funerale, tanto meno a quello della propria madre.
Per tutta la mattina Sergio aveva lottato silenziosamente contro un assurdo senso di sollievo e leggerezza che affiorava a tradimento e prendeva il posto, come un cuculo in un nido di passeri, dei più legittimi sensi di angoscia e di dolore.
La chiesa non riusciva a contenere la folla: molti erano rimasti fuori e si erano distribuiti sul sagrato in piccoli gruppi impegnati in sommesse conversazioni.
All’arrivo del corteo di auto, dopo un iniziale trambusto, tutti assunsero un atteggiamento compunto e fecero ala, per consentire il passaggio del feretro e dei parenti al seguito.
Sergio camminava piano, gli occhi bassi, il passo corto. Sulla soglia della chiesa fu preso dallo sgomento: quelle persone erano lì per lui; alcune per sincera partecipazione, altre per conformismo o per dovere. Ma erano davvero tante e provò un senso d’oppressione, come se ognuna di quelle presenze accrescesse le sue responsabilità.
«Altro che sollievo!» pensò, compiaciuto di ritrovare in sé sensazioni spiacevoli più adeguate all’occasione.
Gli era accaduto più volte, negli ultimi mesi, di immaginare i funerali della madre, ma aveva sempre riflettuto su ciò che avrebbe fatto o sofferto, non sulla presenza o sui comportamenti degli altri.
Giuliana, la sua segretaria storica, aveva pensato a tutto. I posti erano stati assegnati come a una conferenza stampa. Mancava solo che avesse sistemato i cartoncini con su scritto: «Riservato».
L’organo aveva cominciato a suonare nel preciso istante in cui la bara era entrata. Il brano prescelto – Šostakovič – era fra i preferiti dalla madre.
Sergio non si stupì: era abituato all’efficienza di quella sua segretaria onnisciente. Non si domandò nemmeno come facesse a conoscere le preferenze musicali di sua madre.
Gli bastò dare un’occhiata sommaria per capire che i posti a sedere erano stati distribuiti con un senso raffinato delle gerarchie: nessuno avrebbe avuto motivo di ritenersi offeso.
I fiori – tanti – erano rigorosamente gialli e azzurri; anche di questo si era ricordata l’impagabile Giuliana.
Per ogni data speciale – onomastico, compleanno, festa della mamma… – era lei che si occupava dei fiori per sua madre. Si limitava solo a ricordargli la ricorrenza e a informarlo che li aveva mandati.
«Gialli e azzurri, come al solito…»
Dio solo sa come facesse a trovare fiori di quei colori in qualsiasi stagione dell’anno.
***
«Ci sono il sindaco e l’assessore… saluta!» gli sussurrò Paola, sua moglie, che gli stava camminando accanto, nell’angusto corridoio formato da due ali di folla stipata.
Automaticamente alzò la testa e stirò le labbra in una specie di mesto sorriso, cercando di non incontrare lo sguardo dei possibili interlocutori.
Ricordò che un tempo anche sua madre gli aveva suggerito chi salutare. Ne riudì la voce: «Di’ buongiorno alla signora». E Sergio, che allora era piccolo, salutava con un bel buongiorno, composto e ubbidiente.
Una specie di scimmiotto ammaestrato.
***
Era stato, anche dopo, un burattino sapientemente manovrato dalla mamma?
Ecco uno dei pensieri molesti che lo avevano tormentato da quando aveva saputo che lei aveva poco da vivere.
Lo assalivano a tradimento e illuminavano, come lampi impietosi, sentimenti segreti, che non sapeva di avere. La mamma in realtà era stata una donna straordinaria: tenace, indomita, coraggiosa e al tempo stesso dolcissima. Solo grazie a lei era diventato l’uomo che era.
***
La segretaria gli venne incontro. Era tutta presa dalle sue funzioni. Nemmeno si preoccupava di mostrare dispiacere o cordoglio: ciò che contava, in quel momento, era che l’organizzazione fosse perfetta.
Gli indicò il banco in prima fila nel quale dovevano sedersi: lui, la moglie e la figlia. Gli passò il testo di qualche preghiera che doveva essere letta collettivamente. Gli sussurrò alcune norme di comportamento, come già si era preoccupata di fare sua moglie.
«Il funerale durerà circa cinquanta minuti, dottore. Dopo dovrà ringraziare e salutare un po’ di persone, solo le più importanti; ci vorrà, diciamo, un’altra mezz’ora…»
Invece di prendere posto accanto a lui, Paola si attardò da un lato, in un chiacchiericcio fitto e sommesso con Giuliana: stavano certo parlando di dettagli organizzativi. Quella scena lo irritò: anche se non era prostrata dal dolore, sua moglie avrebbe dovuto mantenere un contegno più consono alla circostanza, anziché misurarsi in una gara di efficienza con la segretaria.
«Di’ alla mamma che venga vicino a me…» sussurrò piano alla figlia.
Lei fraintese la sua richiesta e gli strinse forte la mano: «Sono qua io, papà. Non temere, ci sono io…».
«Grazie Lidia…» disse suo malgrado, intenerito dall’ingenuità della ragazza.
***
Finalmente Paola prese posto e la cerimonia cominciò. Sergio restò in piedi, cercando di decidere come avrebbe dovuto tenere le braccia.
Conserte no! La mamma avrebbe ritenuto quel gesto una insopportabile sciatteria; ma non poteva nemmeno restare sull’attenti… In fondo per tutta la vita lei lo aveva, sia pure amorosamente, tenuto sull’attenti.
Dei numerosi cattivi pensieri che lo tormentavano, quello di sentirsi sollevato era il più inaccettabile. È una forma di difesa, si ripeteva: sembra sollievo ma è disperazione camuffata.
«Perché non ti siedi?» gli domandò Paola. «Fai come fanno tutti… Così impalato, sembra che tu voglia attirare l’attenzione…»
Obbedì in silenzio.
Don Giacomo stava ricordando agli astanti le grandi virtù della defunta. Non c’era nulla di eccessivo in quel discorso, stava dicendo solo cose vere; e quando il prete parlò di lui come dell’«amatissimo figlio» sentì un groppo di commozione alla gola e si coprì il viso con le mani.
A dispetto dei pensieri che lo molestavano, era certo che la mamma gli sarebbe mancata moltissimo. Non riusciva nemmeno a immaginare che piega avrebbero preso le sue giornate senza le decine di telefonate quotidiane, le raccomandazioni, i rimproveri, i consigli, le suscettibilità di lei.
Paola era l’esatto contrario di sua madre: dura e severa quanto la mamma era accomodante e tenera. Eppure, per tanti versi, ne era un’erede perfetta: come sua madre, gli dava sicurezza e lo faceva sentire protetto.
Ma non lo abbandonava la sensazione che, a dispetto dei suoi cinquant’anni, la perdita della madre avrebbe fatto franare molte delle sue sicurezze.
***
La messa era finita. Don Giacomo venne ad abbracciarlo e altri fecero lo stesso. Il rito delle strette di mano, delle parole di conforto, dei saluti e dei commenti gli sembrò interminabile.
Poi salirono in macchina per proseguire verso il cimitero.
Alla fine di tutti quegli adempimenti, Sergio prese Giuliana in disparte.
«Non verrò in ufficio per qualche giorno…»
«Ma, dottore, mi aveva detto che solo oggi… domani dovrebbe essere a Roma per l’incontro con gli americani…»
«Si arrangi, cancelli tutto… Io… io non posso…» La voce gli si era rotta suo malgrado. Se ne stupì: non si riconosceva in quelle capacità da attore consumato.
La donna ne fu toccata; il suo lato materno prevalse, lo rassicurò commossa: «Non si preoccupi. Qualcosa mi invento. Ma lei deve farsi animo, dottore. La signora Margherita non vorrebbe vederla in questo stato…»
«Già» fece lui pensoso, «forse non sono mai stato come lei mi avrebbe voluto… Mi ascolti, Giuliana: ho bisogno di uno stacco. Non mi chiami né a casa né sul cellulare; per nessun motivo. Ce la farà? Me lo promette?»
«Ma se…»
«Se, niente. Lei ha risolto sempre tutti i problemi. So che può farcela. Chiamerò io, intesi?»
Giuliana era sconcertata, ma sapeva che il rapporto del suo capo con la madre era qualcosa di molto speciale. Pensò che fosse sconvolto dal dolore e provò una profonda pena per lui. Doveva assecondarlo, anche se il suo impulso era richiamarlo al dovere e impedirgli di fare errori. Andò a salutare gli altri e si allontanò insieme ai pochi colleghi che erano andati fino al cimitero.
Sergio si avviò verso l’auto con Paola e Lidia. L’autista aprì premuroso la portiera: «Ha visto che tripudio, dottore?». Poi, come parlando a se stesso, chiarì: «Che tripudio di gente…».
Paola guardò suo marito con un sorriso ammiccante, e lui pensò che era la prima cosa calda che corresse tra loro, in quella difficile giornata.
«Vengo a casa a prendere la valigia. Giuliana ha provato a disdire i miei incontri con gli americani. Ma è stato impossibile. Devo andare…»
«Non pensarci neanche» ribatté la moglie. Paola era irritata: «Ci sarà un viavai di gente, un tempestare di telefonate. Non posso rispondere per te…».
«Mi dispiace. Devo andare.»
«Lascialo andare, mamma: forse riprendere subito il lavoro può essergli di aiuto» commentò caritatevole la figlia.
Sergio continuava a tacere. Si sentiva invaso da un misterioso senso di pace. Gli sembrava di essere diventato di colpo invulnerabile e che nulla di quanto gli veniva dall’esterno potesse toccarlo. Semplicemente aveva deciso di non ascoltare le proteste di Paola, via via più vibranti e aggressive. Con Giuliana era stato più facile, e sì che lei aveva motivi più seri per protestare. Comunque, nessuna delle due donne sarebbe riuscita a fargli cambiare idea o a creargli un minimo turbamento.
«E il notaio?» esclamò Paola col tono di chi sta calando una carta vincente. «Non devi andare dal notaio?»
«Non c’è fretta. Sono l’erede unico…»
Disse all’autista di aspettarlo. Scese dopo meno di un’ora.
«Giuliana non mi ha dato alcun biglietto, dottore» disse l’autista. «Dobbiamo passare dall’ufficio prima di andare in aeroporto?»
«Non andiamo in aeroporto» rispose Sergio e con sorpresa avvertì nella sua voce un timbro che somigliava pericolosamente alla contentezza. «Andiamo in via Piave. Sa dove c’è quel grande negozio: Auto-Moto-Show?»
«Certo che lo so» disse l’uomo, e lanciò uno sguardo perplesso allo specchietto retrovisore: «Dobbiamo prendere su qualcuno?».
«No, devi lasciarmi lì… Dopo sei libero. Torna in ufficio e resta a disposizione di Giuliana. Ma non dovresti avere impegni per qualche giorno.»
***
Carlo alzò gli occhi dalla scrivania e vide Sergio, il suo amico di sempre. Ne fu sbalordito: lo aveva salutato un paio d’ore prima, davanti al cimitero.
«Che ci fai qui?» domandò andandogli incontro. Poi, temendo che il suo tono suonasse scortese, si affrettò ad aggiungere: «Sergio, tutto mi sarei aspettato…».
«Lo so, devo parlarti. Hai tempo?»
«Ma certo, che domande! Sono veramente addolorato per mamma Margherita. Sai che le volevo bene. Forse non dovrei dirlo proprio a te, ma mi sembra di aver perso un pezzo della mia giovinezza…»
«Fammi vedere che cos’hai in negozio… voglio una moto subito…» tagliò corto Sergio.
Carlo restò senza fiato. «Sta male» pensò, «è sconvolto e non sa cosa dice.»
«Non sono matto» spiegò Sergio. «È un mio mod...