Sua Eminenza Reverendissima finge di non aver inteso quello che sta per capitarle, recita d’astuzia, come se servisse, finge di non sapere di essere tentata e aspetta: braccia conserte. Dimenticata l’improvvisa avvisaglia del malanno – una botta di collasso lasciata già tra le scale della casa episcopale –, restituito alla vigilanza di tutti i sensi e alla serenità della salute, perché è l’apparenza la medicina meno amara, il cardinale gusta adesso la scena del teatrino dove conta di giocare il ruolo di Pullicinella assai saputo.
Se la racconta sottosopra il cardinale, e non mette in conto che quello, l’ospite suo, gli legge la vita senza il bisogno di dimostrarglielo, senza giochi di prestigio. Ed è una gara tra i due a far mostra, nella schermaglia – e che sferragliar d’armature e mestiere! – di chi ha le corna più lunghe. Tanto per ciò che si nasconde quanto per quel che è reso manifesto, secondo il galateo della scenetta allestita tra gran signori accomodati alla stessa tavola. Ma Sua Eminenza Reverendissima si fa fesso per non pagare dazio al ben dell’intelligenza e la prende alla lontana: contempla i residui di vino, studia la mappatura delle macchie sulla tovaglia, manovra l’accendino con la réclame di una rivendita di ferramenta e infine ingolla un altro pezzo di pane intinto tra i rimasugli dei vermicelli all’olio, vanto d’aglio e del suo fiato contadino.
A questo punto la recita è in sosta tecnica e il prelato digerisce ciò che ha ascoltato con orecchie attente, il racconto del committente che, ancora a bocca asciutta, ha parlato tutto il tempo e solo ora, con fare elegante e circospetto, fabbricante di ellissi qual è, sta rigirando la forchetta nella pasta. E non per metafora.
«Mi spiace, saranno freddi e incollati» si rammarica il padrone di casa.
«Squisiti» risponde definitivo Mac Pharpharel.
Il cardinale lascia mangiare Mac Pharpharel senza piantargli gli occhi appresso. Fa per alzarsi, guarda dietro di sé, verso la finestra spalancata dove alitano i drappeggi delle tende, fa noncuranza e cortesia nell’aggirarsi attorno al tavolo e, preso permesso, s’accende una sigaretta Sax per sprofondare nuovamente seduto, ma in poltrona, assorto nel chiuso delle palpebre.
L’ospite inghiotte con soddisfatto appetito e Sua Eminenza Reverendissima, ormai stravaccato in attesa di affrontare la conversazione, convoca la compagnia di fondamentali e sparuti pensieri. Macchinazioni della mente, l’ebbrezza d’aver finalmente guadagnato la compagnia di un simile ospite, così chic e così malintenzionato, tremendamente indispensabile: il Diavolo.
Il cardinale non avrebbe mai sperato di godere una così stravagante apocalisse senza invischiarsi nel labirinto delle teologie e la parte più difficile dell’argomento, il pretesto di Bā
irā, se la risolve con occhio lucido e compiaciuto effetto: «Sono commosso, caro Mac Pharpharel. Mi avete raccontato la storia di un grandissimo santo e, se mi chiedete di approntare pietosi sotterfugi e togliere dunque dagli altari un tanto mirifico testimone di grazia e carità, io che nulla posso, io che niente sono, io che sono una schifia, mi adopererò in quest’azione meritoria affinché Bā
irā non debba soffrire offesa con l’oblio o, peggio ancora, con la compagnia dei dimenticati, degli scansati. È questa l’unica strada concessa non potendo io – neppure volendo, io che nulla ho in potere – scaraventare giù dalla santa messa tutti gli altri santi, pena la fine terrena di Santa Romana Chiesa».
Mac Pharpharel è aggrappato a un calice di vino e beve un sorso che sembra non esaurirsi. Con l’occhio azzurro – “l’occhio ceruleo trasparente, il colore della risciacquatura dei piatti” sentenzia Taddeo scansando quel radar – l’ospite mette a nudo l’ombra di Sua Eminenza Reverendissima che tenta la schermaglia e ancora una volta finge di non capire il vero significato della richiesta di Mac Pharpharel e però davvero non comprende il motivo di questo inutile sforzo e di tanto cospicua spesa.
«Nessuno ha memoria di Bā
irā, perché mai cancellarlo? Non si trova pia donna che gli accenda un cero, non trova una giornata libera in tutto il calendario…
Omnia fert aetas, animum quoque.»
«Se è per questo, Vostra Eminenza non troverà documento in Vaticano che riporti l’esatta traslitterazione: né dall’aramaico, né dall’arabo e neppure dal greco e dal latino. Uno sterminato elenco di santità proveniente dal fazzoletto siriano è servito ad alimentare l’apostolato nel Mediterraneo, in tutte le regioni più assolate d’Europa e nella distesa asiatica degli slavi. Bā
irā venne sminuzzato in tanti nomi, ma la testimonianza della sua vita perdura tra i papiri e le compilazioni delle vite dei santi nonostante le demolizioni del mondo antico. San Filippo d’Agira, che è lo stesso san Filippo nero di Malta e di Aidone, per esempio, è Bā
irā. È stato campione di esorcismo e fiero guerriero, le cui gesta ancora oggi costringono una legione di demoni alla prigionia dentro gli anfratti di una grotta siciliana.
Le cronache raccontano la comparsa di questo siriaco in età molto più tarda del soggiorno a Bosra, perfino due generazioni dopo, ma, come Sua Eminenza Reverendissima insegna, ai santi è data la forza dei miracoli e di fatto anche il Siriaco, il santo del deserto venerato nelle icone delle chiese ortodosse, è Bā
irā. Appare ai suoi devoti due secoli dopo l’assolata alba del caravanserraglio ma anche questo – e voi, Eminenza Reverendissima, di una simile dottrina mi siete maestro – anche questo è un dettaglio dove nostra ragione trascorre tutta l’infinita via, ma è un capriccio facile ai santi, ancora meglio: una stazione della Misericordia.»
Nella fiera mostra di chi porta le corna più lunghe, Mac Pharpharel finge di non sapere di essere stato riconosciuto quale tentatore; istruisce Sua Eminenza Reverendissima ricompensandola con la stessa moneta e, in un gioioso bugiardar di ruoli, fa di se stesso un teorico mentre nel cardinale evoca l’adepto di una trama prossima a diventare tenebrosa. Gli racconta come sia perfino troppo tardi per mettere calce e malta in questa fabbrica: un pope di nome Pavel, incaricato da Mosca, è già avanti nel lavoro di collazione per la celebrazione di un processo, è a Damasco per raccogliere prove affinché il patriarcato ortodosso elevi alla santità e al culto il monaco siriaco.
«Una santità già riconosciuta nelle sacrissime icone» dice Sua Eminenza Reverendissima, ormai in un viluppo di sensi.
«Sì, ma non con il suo nome. Non come pretende di fare il pope Pavel, non dunque con il passaporto di santo cristiano che, a margine, risulta anche il talent scout di Maometto, il suo primo precettore…»
Mac Pharpharel, l’ospite d’impeccabile nomea, garbato e impertinente però, finge ancora di non sapere di avere a che fare con la finezza politica di SER; sa di dover spiegare ciò che è chiaro a un campione della diplomazia internazionale qual è il cardinale e questo affaccendarsi a carte scoperte lo diverte al punto da rinunciare all’aureola di compitezza per elucubrare dettagli e polverose teorie al pari di un venditore, uno di genere burbero, uno di quelli assai sicuri della mercanzia tenuta in magazzino. Il Tentatore, infatti, prodigo di comfort occidentali, accende un Henri Wintermans per dilungarsi volentieri sui misteri e i gineprai del Cremlino. Mac Pharpharel, detrattore dell’Orso slavo, racconta, ormai tra le nubi odorose del sigaro, della doppiezza dei capi russi. Incapaci questi di trovare la pace religiosa nelle repubbliche della Confederazione con le buone, ossia con una svelta repressione, si attardano con guaste gnosi e geopolitica da straccioni: «… non ho mai visto» commenta il cardinal Taddeo «uno di questi bravi monaci di Mosca che non abbia le unghie listate di nero, la barba di tre giorni, la puzza di vodka ruttata addosso…».
«… a seconda della persona una cosa la troviamo difetto o pregio» dice Mac Pharpharel nettandosi con la punta di una forchetta un lungo baffo di sozzura dall’indice. E riprende il discorso: «Guardiamoci dentro la coscienza» dice, «dobbiamo consentire loro di fare di Bā
irā il Giovanni Battista di Maometto, il testimone di verità, colui che per primo, nella storia dell’umanità, riconosce sulla schiena di un bambino il sigillo dei profeti? Tutto ciò è inaccettabile: la bestialità della faciloneria asiatica può portare al punto di mettere sullo stesso piano Islam e Ortodossia. I due polmoni dello spirito russo, come dicono loro…».
«La faccenda dei due polmoni l’ho già sentita. Era una sciocca metafora usata dal Polacco, ma riferita a Roma e a Mosca, Vaticano e patriarcato…»
«Eminenza Reverendissima, tutte le parole possono diventar fumo, ma sono proprio gli strateghi delle dacie più remote quelli che dei due polmoni fanno poi l’apologo del miraggio eurasiatico. Lo stesso Bonaparte, arrivando alle porte di Mosca, fu impressionato dalla somiglianza tra le chiese e le moschee. L’imperatore ebbe disgusto dello spirito russo e provò sconcerto di fronte all’istinto ferino di popolazioni digiune di vera civiltà e per questo pronte a precipitare in nuovi fanatismi con il loro alfabeto, le loro superstizioni e le Madonne tutte nere, puntellate da candele. Io avrò modo di godere di altri incontri con voi, ebbene: vi racconterò anche dell’erigenda statua di Shamil il santo, l’imam dei ceceni, all’interno del Cremlino. Si tratta di una maligna ruffianata messa in opera dagli sgherri di Mosca, così da accogliere i caucasici quali figli attesi dell’aquila bicefala. Ma, ripeto, avremo modo. Non crediate che io abbia da disfare vecchie stoffe e far filacce…»
Sua Eminenza Reverendissima si sente a suo agio, grommosa è l’eccitazione in così avviata sciarada. Fuma un’altra Sax, Mac Pharpharel non ha certo esaurito tutti i suoi fandangos e, di fatto, mette ancora bocca: «In ogni caso l’urgenza è quella di fare muro all’irresistibile fregola di portare il cuore a oriente, non concedere legittimità canonica al monaco e lasciare che resti nella plaga degli apocrifi insieme alle carabattole della storia. Faccia conto, padre…».
«… mi chiamate padre?»
«Consideratelo un lapsus, la lingua batte dove il dente duole. Alle corte dunque: fate conto, Eminenza Reverendissima, che sarebbe fin troppo facile rimuovere dagli altari cattolici e romani il santo. Vogliamo considerarla già adesso cosa fatta? È cosa fatta. Quello che piuttosto vi chiedo con urgenza è l’eliminazione dei papiri, intendo quelli della profezia, le pagine studiate e meditate dal santo. Sono giusto le carte d’appoggio cercate dal bravo pope e la loro traduzione non solo andrebbe ad affollare le mura delle cattedrali ortodosse, ma racconterebbe la storia del mondo secondo un apologo che non farebbe bene al Bene né darebbe male al Male…»
«Mi meraviglio di voi e di così stupidi giochi di parole» dice spazientito al suo ospite il cardinal Taddeo.
«Vostra Eminenza» mastica malmostoso Mac Pharpharel «ha ben inteso almeno una delle qualità che mi identificano – non diciamo in quale scala di giudizio, riferiamoci alla necessità teologica. Mi sembra un motivo più che valido per ospitarmi stasera. Non posso pescare dagli acquitrini del rancore i lai dell’invidia perché il manico del coltello è in mano mia, ciò che mi muove è la necessità di mettere a posto tutto e non secondo capriccio, ma per tenere la storia del mondo il più alla larga possibile da ogni happy end. E tenere belli distanti tra loro i mussulmani e i cristiani. Chiaro?»
«Non siete in grado di mettere ai miei piedi tutti i regni della Terra? Datemi questi papiri in mano che ve li brucio seduta stante.»
«Facciamo a regola d’arte, Eminenza Reverendissima. La forma è tutto, non pensa?»
Niente male il Mac Pharpharel per essere solo uno svelto contrabbandiere di armi e di favori, il cardinal Taddeo lo osserva mentre dalla tasca della giacca scura – una cappa perfino pesante con questi caldi – cava via una busta bianca, ampia, dall’aspetto sobrio e senza cifre. Infagottato bene, nel cartiglio, c’è un contratto bello che compilato.
È una carta privata, vi sono convenuti i pat...