Il mito degli autistici prodigiosi rappresenta un genere letterario. La traccia dominante di questo genere è l’impresa eccezionale di un autistico o, in un sottogenere che forse pure io alimento, di un genitore d’autistico che a lui dedica la vita. Leggo ora del nascere di una di queste storie nella vicenda di un padre che lascia il lavoro, si prende una seconda laurea in scienze dell’educazione e diventa lui il tutor scolastico del figlio Asperger. L’alternativa era che il suo ragazzo non frequentasse più la scuola e rimanesse a casa per tutta la giornata. Nessuno di quelli che ne hanno scritto è riuscito ad andare oltre all’aspetto esemplare di questa storia. Naturalmente viene d’istinto pensare con ammirazione a un uomo che si rimette a studiare a quasi sessant’anni e dedica la sua giornata a sostituire a scuola l’insegnante per il figlio che altrimenti non si sarebbe mai materializzato. Purtroppo invece io non riesco a non vederne la tragedia nascosta, tanto per il padre quanto per il ragazzo. È madornale che un uomo sia costretto a fare un gesto così disperato quale quello di sdoppiarsi nel duplice ruolo di genitore e insegnante. Solo in quei film di sopravvissuti dai naufragi si vedono cose simili. In una puntata dei Simpson si racconta di Marge, la madre di Bart, che improvvisa nel garage un’aula scolastica per continuare a fare lei da maestra al figlio discolo cacciato dalla scuola.
In una situazione civile, la scuola è la palestra perché ci si renda autonomi proprio dall’egemonia dei genitori; se non è in grado di fornire questa opportunità a un ragazzo solo perché ha dei problemi in più rispetto ai suoi coetanei, è una scuola fallita. Alla fine, però, la storia del padre accolto dal preside per occuparsi del figlio diventerà un altro di quei racconti edificanti in cui ci saranno soltanto virtù eroiche individuali e le scelleratezze pubbliche se ne avvantaggeranno perché si sa che lacrime e cuore sono gli antidoti all’inefficienza più abusati nel nostro paese.
Gli autistici allo stato naturale sono difficilmente raccontabili senza ricorrere alla mitizzazione del quotidiano; una persona che non comunica sembra pietrificata nel suo simulacro, e questo pare non riesca a scalfire l’indifferenza generale. Bisogna sempre rappresentare una lotta, una dolorosa e faticosa battaglia per essere il più possibile «normali». Il fine non dovrebbe essere la conversione degli autistici in persone come le altre, ma piuttosto riuscire a garantire possibilità di esistenza a chi è diversamente strutturato a comunicare.
Di autismo di genere fiabesco si è parlato ne Il motivo per cui salto, del giapponese «con tendenze autistiche» Naoki Higashida, da poco pubblicato nella traduzione italiana. Un libro definito come «il caso editoriale che ha commosso il mondo». Infatti, per commuovere il mondo, serve un’altra storia di fanta-autismo in cui il protagonista, con l’uso di ideogrammi, riesce a comunicare. Un altro che ancora una volta dimostra che si possa uscire dalla «fortezza» per mostrarci che anche lui ha un’anima. Siamo alle solite: l’autismo letterario è la deriva fantastica del nostro quotidiano tra autistici, il picco fantasioso che compensa, tranquillizza, conforta tutti del fatto che «un miracolo possa accadere».
La passione per il fanta-autismo genera successi letterari, è chiaro: anche la fanta-storia attribuisce gloria al Codice da Vinci e il fanta-erotismo trova una sorgente d’attizzamento nelle Cinquanta sfumature di grigio. Non riesco però a immaginare una storia commovente e d’altrettanto successo che magari riguardi un cieco che scrive di quello che lui vede, una persona sulla carrozzina che racconta della sua passione per la corsa, o un muto che pubblica un cd con le sue canzoni. Sono paradossi evidenti, eppure s’immagini se mai ci fosse una possibilità di lanciarli nel mercato dell’editoria. In quale genere sarebbero incasellabili? Quello della fanta-scienza? I racconti di miracoli che si vendono nelle librerie dei preti? Sicuramente qualcuno alla fine direbbe che sono costruzioni artificiose di marketing librario, i cui protagonisti sono dei simulatori, non hanno la patologia che millantano perché si sa che un cieco non vede, un muto non parla, una persona in carrozzina non corre.
Per tutto quello che riguarda gli autistici, però, nessuno si pone queste domande, perché dell’autismo non si è ancora stati in grado di comunicare la dimensione reale, quindi è possibile farne passare per probabile qualsiasi alterazione. Per questa ragione, io che conosco l’autismo nella sua concreta dimensione di vita quotidiana, non sono proprio riuscito a commuovermi, come il resto del mondo, per la storiella fasulla e affettata del giapponesino Naoki. Potrei solo crudelmente pensare che non l’abbia scritta lui se è autistico del genere tosto. Posso intuire il pompaggio artificiale del caso quando leggo sul risvolto di copertina che Naoki Higashida è un «tendente all’autismo», termine che non significa nulla ma che ammette, comunque, che chi lo sia possa riuscire in qualunque impresa richieda d’essere neurotipico, compreso raccontare storielle.
Nell’edizione italiana, poi, viene persino fatto intendere che l’uso degli ideogrammi per comunicare altro non sia che una forma di «scrittura facilitata», la tecnica di cui sopra ho ampiamente parlato e che millanta di trasformare in saggisti e poeti autistici drasticamente non verbali. Ecco, questo è proprio quello che noi genitori non amiamo vedere scritto perché ci dà la certezza di essere presi per il culo.
Non posso fingere che ci accarezzi l’anima un libriccino che ancora una volta ripropone il concetto che i ragazzi autistici siano una stirpe di angeli caduti, creature aliene, o insondabili testimoni di verità sepolte dentro di loro.
Esiste un universo di operatori che con simili misticismi abbaglia tante famiglie d’autistici: «Per anni mi sono rivolta a una onlus nota e accreditata che si occupava di autismo e disabilità » mi ha confessato una madre attraverso mille titubanze. «Poi sono venuta a sapere che sia gli psicologi che gli educatori facevano parte di una specie di cerchio magico. Erano convinti che i nostri figli avessero scelto di essere autistici per favorire la nostra evoluzione spirituale.»
Purtroppo questo accade a forza di accreditare ogni superstizione riguardo l’autismo, tanto che il mondo si commuove per le frasi a effetto con cui il piccolo oracolo di Kimitsu, o chi per lui, confeziona tutti i luoghi comuni del fanta-autismo: «Essendo autistico non sono libero … nato con sensi primordiali»; oppure: «A volte provo davvero pena per voi, che non potete vedere la bellezza che mi circonda così come la vedo io».
Basta con queste cazzate! Dateci scuole che funzionino, operatori che abbiano studiato, strutture dove i nostri ragazzi cresciutelli possano passare il loro tempo in attività che non li facciano sentire conigli all’ingrasso. Non sappiamo che farcene di edificanti parabole con sante mamme, eroici papà e i loro angeli silenziosi.
Io sono molto soddisfatto quando vedo Tommy sradicato dalla sua fisiologica staticità di piccolo Buddha. Cerco sempre qualcuno che lo sappia addestrare a svolgere attività pratiche, oltre al lavoro che fa ogni giorno con il suo educatore Marco. Almeno, nella mia città iniziative di questo tipo sono quasi sempre promosse da volenterosi genitori che si sono messi a disposizione per riempire le lunghe giornate vuote dei loro autistici che si avviano all’età adulta.
A proposito dell’incolmabile tempo dell’autistico, un paio di settimane dopo la mia campagna stampa mi è arrivata una mail della mamma-autista:
Ciao Gianluca, sono la mamma-autista del figlio autistico: la disperata, la mamma della mailbomb (per capirci e farti ricordare chi sono).
Finalmente ce l’ho fatta: Asl e comune mi hanno ufficialmente autorizzato a portare mio figlio niente di meno che... alla Fornino-Valmori di Forlì!!!!!! Sono felicissima. Spero che vada tutto nel migliore dei modi. Spero che il mio gigante torni a essere il gigante buono che era!!!! E se tutto questo sarà ... lo devo anche a TE!!!!! Grazie di tutto!!!! Un abbraccio a te e a Tommy!!!
Una volta tanto una storia a buon fine, ho pensato. Quel ragazzo non poteva capitare meglio. Il comune di Roma, nella vergognosa e totale assenza di strutture adeguate a occuparsi di lui, è stato costretto a delegare la soluzione concreta del problema a dei privati. In questo caso sapevo benissimo chi fossero i Fornino-Valmori: i più folli ed eclettici inseguitori di utopie per autistici che abbia mai conosciuto.
Ero stato a trovarli circa un anno prima, in uno di quei miei viaggi (quasi sempre a vuoto) in cui passo in rassegna i luoghi dove mi arriva notizia che esista qualcosa di davvero avvicinabile alla mia idea di città felice per autistici e disabili psichici di ogni tipo.
Quella che mi è sembrata la sintesi più riuscita di ogni mio fantasticare è stata edificata dove prima c’era un pollaio. L’ho scoperta leggendo un trafiletto di giornale che parlava di due padri che avevano deciso di costruire una città per i loro figli disabili. Ci sono arrivato in macchina con tutta la mia tribù al seguito un tardo pomeriggio. L’Insettopia-pollaio è infilata nelle colline tra Bertinoro e Forlimpopoli. In una bella piana dove cresce l’erba medica, i due folli padri hanno investito tutti i risparmi di una vita guadagnati spennando galline nella loro città dell’utopia.
Vincenzo Fornino e Edo Valmori erano soci da sempre. Il primo, per più di quarant’anni, è stato a testa bassa ad allevare polli, l’altro produceva mangimi. Erano uniti da un’amicizia consolidatasi sulla fatica quotidiana, ma ancora di più da un problema in comune: Fornino ha un figlio quarantaduenne con gravi problemi psichici, Valmori invece ne ha uno autistico, ventunenne. Un giorno hanno capito che tutto quello per cui avevano lavorato sarebbe stato vano se non avessero fatto qualcosa per garantire un futuro ai loro ragazzi, quando loro non sarebbero più stati capaci di accudirli di persona. Avevano sempre amministrato con saggezza le vite dei figlioli e, tutto sommato, erano stati anche fortunati a trovare buoni insegnanti. Però a un certo punto anche per loro, come per tutti noi, è arrivato il periodo in cui ci si pongono domande troppo angosciose, quando i capelli bianchi cominciano a farsi spazio sulla testa.
Fornino, in realtà , ha i capelli color nero corvo, come giustamente ancora impongono i barbieri di paese fermi sul concetto che il maschio debba combattere ogni segno di decadenza. Come siamo arrivati, verso sera, ci ha accolti nella sua bella casa eclettica costruita a pianta circolare. Il suo ragazzo se ne stava taciturno in una poltrona alle nostre spalle e la moglie ha subito riempito Tommy di biscottini, che penso avesse fatto lei. «Eravamo giunti a un’età in cui bisognava cominciare a pensare di far la valigia» mi ha raccontato Fornino, e il pensiero del futuro estremo è bastato per decidere di investire ogni avere nella città felice per i loro figli, ma anche per i figli di tanti altri genitori con la stessa disperazione per un futuro angoscioso.
Sono così riusciti a far nascere al posto dei loro pollai una struttura che oggi vale più di quattordici milioni di euro. Per farla non hanno chiesto un soldo a nessuno, hanno tirato su un fabbricato di seimila metri quadrati, con ventidue ettari di terra attorno. Quel luogo, come scrivono nel programma della loro Fondazione, è aperto a tutti, non soltanto riservato a chi ci vivrà per un periodo o per sempre. È un centro in cui, per qualche ora al giorno o per soggiorni più lunghi, gli ospiti possono frequentare laboratori e servizi per acquisire abilità e competenze utili nella vita quotidiana o per potenziare le loro capacità relazionali, anche attraverso il lavoro o l’equitazione ricreativa. Per chi viene da fuori ci sono due palazzine destinate a ospitare ragazzi e familiari per dei soggiorni mirati a dare autonomia a chi ha bisogno di essere aiutato.
Il giorno dopo il nostro arrivo, si è svolta l’inaugurazione di questa loro «Insettopia». C’erano i due sindaci di Bertinoro e Forlimpopoli, venuti con la fascia a tagliare i nastri. Autorità a bizzeffe, divise gallonate, inviati del vescovo e centinaia di concittadini. Tutti battevano le mani, felici che il territorio avesse partorito la città dei sogni, ma i Fornino-Valmori ne hanno mandati giù di bocconi amari, quando nessuno credeva nel progetto e, anzi, tutti sembravano fare a gara per metter loro i bastoni tra le ruote. Per realizzare il loro sogno hanno combattuto per ben cinque anni con la burocrazia, poi, una volta che avevano tutte le carte a posto, per costruire l’intera struttura ne hanno impiegati solo due.
Alla fine lavoreranno lì cinquanta operatori specializzati, con la supervisione di cinque docenti dell’università di Bologna che si sono prestati per garantire la correttezza scientifica dell’attività . Preoccupazione non da poco, in un paese dove spesso persino l’ente pubblico è ignorante sulla realtà dell’autismo e sovvenziona terapie non efficaci, un po’ perché non è informato, un po’ per non fermare gli antichi carrozzoni dell’assistenzialismo professionale.
Al centro della «città », la coppia Fornino-Valmori ha voluto una struttura residenziale e semiresidenziale per progetti di abilitazione individuali: due edifici con stanze da letto perfettamente a norma secondo i regolamenti vigenti. Altro che un ghetto per disabili: sembra un luogo immaginato per la serenità di chiunque. C’è un ristorante biologico aperto al pubblico, rifornito con prodotti a chilometro zero, una lavanderia industriale ipermoderna con fornitura, ritiro e lavaggio di pannolini rigenerabili per gli asili nido. Palestre, campi sportivi, aule di abilitazione. E un centro di equitazione ricreativa per disabili che garantisce attività sia al coperto che all’aperto; un’ippovia interna di ben quattro chilometri; oltre a venti stalle modernissime per tenere a dimora cavalli altrui e fare così reddito. Il principio è quello di un’azienda e l’ottanta per cento delle strutture sportive e di quelle destinate a riunioni e convegni è a disposizione di chi voglia affittarlo.
Dopo la mail della madre-autista ho aspettato altre due settimane, poi ho chiamato l’amico Fornino per sapere come se la passasse con quel «soggettone».
«Non ci crederai, è qui davanti a me e sta portando da mangiare alle capre!» mi ha risposto.
In breve, vengo a sapere che l’abilitazione sta andando bene: ora il ragazzo è meno manesco, ha un’occupazione costante che lo impegna e che gli piace; occuparsi delle capre è il suo nuovo compito che sembra via via portarlo a un comportamento socialmente più accettabile e la notte dorme. Fornino è molto soddisfatto: «Pensa che non era più abituato a camminare, i primi giorni gli erano venute le vesciche ai piedi! Ti rendi conto?».
Apprendo che il comune di Roma ha stabilito con una delibera il sostentamento del ragazzo in quella struttura per sei mesi, anche se Fornino mi ha confessato che servono quattro operatori fissi per occuparsene e parte del costo se la accolla lui, ma va bene così. «L’importante è che ora stia bene. Ogni giorno gli facciamo delle foto e le mandiamo alla madre, così vede che migliora. Quando è arrivato aveva sempre la faccia arrabbiata, adesso sembra già un’altra persona.»
Ho allora richiamato la madre, per capire come stesse prendendo la cosa. L’ho sentita rasserenata, anche se, a questo punto, il suo problema era il proprio mantenimento. Anni prima aveva lasciato il lavoro per occuparsi del figlio ed entrambi, più un altro figlio studente universitario, vivevano con l’indennità d’accompagnamento dell’Inps, che ora è stata, giustamente, convogliata sul progetto di Forlimpopoli.
Mi rendo conto che in questa, come in troppe altre vicende simili, tutto è sbagliato, impostato male, approssimativo. Quel ragazzo ora necessita di un trattamento molto costoso perché per anni soltanto la madre si è occupata di lui: nessun progetto era stato fatto in passato prevedendo che sarebbe stato impensabile per lui, autistico adulto, restare solo con una madre che lo scarrozzava vita natural durante, lasciandolo dormire fino alle tre del pomeriggio. Ora, per dare a lui una possibilità di esistenza dignitosa, sono necessarie le risorse che aiuterebbero a essere più autonomi altri tre ragazzi. Invece devono occuparsi di un solo individuo, e chissà per quanto tempo ancora, solamente perché siamo un paese ignorante.
Da una parte le famiglie pensano di potercela fare con le proprie forze, senza rendersi conto che i figli, crescendo, diventano altra cosa rispetto ai batuffolosi orsacchiotti che mamma e papà conservano nei loro ricordi più teneri. L’autistico permette infatti di coltivare l’illusione dell’eternità genitoriale, che forse è un palliativo ad affrontare la fase di decadenza della vita di ciascuno di noi. Dall’altra parte, ovvero quella delle istituzioni e delle amministrazioni locali, non esiste alcuna attenzione al problema. Dove si può, si erogano sussidi, si alimentano cooperative e organizzazioni religiose: le quali, da parte loro, vivacchiano il più possibile con tutto quello che gravita attorno al disabile, ma non si pensa.
Non si capisce che quello che serve è un «format», per dirla con un termine oramai in voga. La vita delle famiglie d’autistici andrebbe impostata secondo una griglia, fatta di passaggi già risolti, che preveda ogni miglior passo possibile, dalla diagnosi precoce all’organizzazione del «dopo di noi». Non stupisce che quando un caso, che rappresenta una dolorosissima prassi, esce dalla condanna all’oblio, grazie a campagne mediatiche, nelle istituzioni subentri il panico perché non c’è soluzione: le lacune non sono colmabili con la solita manciata di soldi per salvare la faccia.
La storia della mamma-autista ha avuto ascolto quando il clamore che ho fomentato è diventato pericoloso per un’amministrazione comunale, ma se non ci fossero stati Fornino e Valmori e la loro follia sarebbe stato impossibile salvare la faccia. In tutt’Italia non c’è una struttura pubblica avanzata in grado di «accollarsi» un caso così degenerato nei «comportamenti problema», se non mediante i classici trattamenti postmanicomiali fatti di sedativi e contenzione.
Lo sa bene una mamma mia amica che ebbe la disavventura di portare la sua ragazzona, compagna di rugby di Tommy, in un rinomato ospedale perché era un po’ «sbroccata», come spesso le succedeva durante il ciclo mestruale. Fu ricoverata in un reparto di psichiatria infantile, dove c’erano pazienti di ogni tipo ma purtroppo in quel momento nessuno che sapesse qualcosa di autismo, e quindi la dottoressa di turno le prescrisse un trattamento orribile: la ragazza fu afferrata da infermieri, legata di forza al letto mentre urlava e sedata con iniezioni alle gambe, una scena indescrivibile. La madre passò un paio di giorni sulle scale del reparto ad aspettare le ore di visita, finché riuscì a ottenere che le facessero un’ecografia. Sua figlia era piena di cisti ovariche: era quella l’origine del disturbo che aveva generato le crisi oppositive. Così la ragazzona se ne tornò a casa, inutilmente intontita e con le gambe piene di buchi.
Non si arriverebbe a questi eccessi incivili se l’autismo avesse cittadinanza nella cultura, anche clinica, di questo paese. L’autistico dovrebbe rientrare in un progetto che coinvolgesse attivamente la famiglia dal primo istante. Non a caso, l’unica soluzione possibile al problema della mamma-autista è stata quella che nasce dall’idea di due padri che conoscevano bene il tema della disabilità psichica da gestire in famiglia e si sono organizzati per risolverlo, quando hanno capito che mai nessuno l’avrebbe fatto per loro.
Quei due padri innanzitutto non si sono dimenticati di essere degli imprenditori. L’intera struttura è stata pensata per potersi sostenere con le proprie risorse, cosa che a molti farà storcere il naso, ma è indiscutibilmente un progetto sociale molto interessante. È chiaro che non tutti i genitori hanno risorse così cospicue da investire, ma sarebbe interessante calcolare quanto il pubblico investe nella grande macchina dell’assistenza agli autistici. Non per pura polemica, ma è per qualche utile riflessione sul reale rapporto...