KAREN
Guardo Max nello specchietto retrovisore. È rincantucciato contro la portiera con le mani sul viso. Non credo che stia piangendo, però. Se ne sta lì, senza dire una parola. Non l’ho mai visto tanto silenzioso, come svuotato.
Abbassa le mani e il suo sguardo d’incredulità rispecchia i miei pensieri.
«Non ci posso credere» mormoro fissando la strada, le mie mani che stringono con forza il volante. «È pura follia.»
«Karen» sussurra Steve, sul sedile accanto a me. «Rallenta, stai facendo i settanta e c’è il limite dei cinquanta.»
A un semaforo rosso freno e mi volto a guardarlo. «Com’è successo? Cos’è che avevi nella testa?» esplodo, quasi gridando.
Gli occhi di Max vagano nell’abitacolo, evitando il mio sguardo. Si stringe nelle spalle.
«Come, fai spallucce?» strillo come un’aquila.
«Karen!» mi rimprovera Steve.
Riporto lo sguardo alla strada, cercando di calmarmi e non cedere all’isteria. «Credevo… pensavo che ti piacessero le ragazze.»
Steve mi fa cenno di smetterla e si gira verso Max. «Vuoi tenerlo?»
«Steve!»
«Che c’è?»
Accigliata, spingo sull’acceleratore. «Non far domande cretine, cazzo.»
«Dobbiamo chiederglielo» sussurra Steve.
«Io… no» risponde Max da dietro, la voce è sommessa, ma chiara.
«Grazie a dio» ribatto tagliente.
Ogni volta che nella vita dei nostri figli c’è un problema da affrontare, l’istinto mi spinge a correre da Steve. So che faccio così e so anche che non è sano, ma mi viene da fare così pensando a mia madre: era sempre troppo severa nel punirci ed era incapace di giudicare le nostre azioni in maniera distaccata. Qualsiasi sbaglio facessimo, lei lo prendeva come un affronto personale, e io non voglio che Max e Danny vedano fare lo stesso a me. So però di non riuscire a trovare la giusta distanza. Ripenso a quando è nato Max e alla prima cosa che ho pensato di me, come madre, che non ero all’altezza. E mi prende il panico.
Tanto per non smentirmi, appena Max me l’ha detto, sono andata da Steve. Mi sono scrollata di dosso Max ma allo stesso tempo l’ho afferrato per un braccio, sono praticamente corsa fuori dal salotto in cerca di suo padre, e mi sono precipitata di sopra, incurante di Debbie, in corridoio, che ci guardava sconcertata. Passando davanti alla camera di Danny, ho sentito che stava giocando a World of War.
«Max» ha gridato Danny. «Vieni?»
«Non adesso. Prima deve fare una cosa con la mamma» ho risposto sbrigativa, infilando la testa in camera sua un momento.
Mi sono girata e Max era lì, dietro di me, che mi guardava esitante.
«Vieni.» L’ho sospinto verso camera nostra.
«Non voglio che papà lo sappia!» ha esclamato terrorizzato.
Ho fatto di no con la testa, come per dire “Non è proprio il momento”, ho aperto la porta e ce l’ho praticamente spinto dentro, tale era il mio desiderio di togliermi quel peso dallo stomaco, di non essere più l’unico adulto responsabile di mio figlio.
Steve si stava facendo la barba.
«Che c’è?» ha detto, vedendo la mia faccia.
Gli ho fatto cenno di seguirmi e lui si è ripulito il mento preoccupato. Ho preso il telefono dal comodino e ci siamo spostati tutti e tre nella stanza di Max, per non farci sentire da Danny.
Max si è seduto sul letto.
L’ho guardato. Mi fissava con un’espressione d’orrore sul viso. Ha scosso il capo.
«Max, che c’è?» gli ha chiesto Steve.
Si è grattato la testa e ha sussurrato con una vocetta acuta: «Aspetto un bambino».
Steve ha trattenuto il respiro, ha stretto le labbra e ha spinto fuori il fiato. L’ho ammirato per la sua capacità di mantenere la calma, ma l’ho anche invidiato. Io mi sentivo sul punto di crollare a terra, pronta a scoppiare in lacrime, perdendo ogni controllo, andando letteralmente in pezzi.
E dire che avevo dovuto sopportare quel fardello da sola per non più di tre minuti. Ho sentito le braccia e le gambe rilassarsi, ho spostato i vestiti di Max e mi sono seduta su una sedia.
«Sei sicuro?» ha chiesto Steve.
Max ha annuito.
«Okay. Ti sei fatto vedere da un medico?»
«Sì, qualche mese fa, dalla dottoressa Verma. Mi ha dato la pillola del giorno dopo.»
“Perché non ci ha avvisato, questa dottoressa?” penso subito, prima di rendermi conto che è una questione di privacy, in virtù della quale non posso aiutare mio figlio a non commettere errori che potrebbero rovinargli la vita.
«E la pillola non ha funzionato?» domanda Steve a bassa voce, aggrottando la fronte.
«Devo averla vomitata. Lì per lì non me ne sono accorto. Nel lavello di cucina, ti ricordi?» mormora rivolgendosi a me. Scrollo la testa e guardo per terra.
«Non sta succedendo veramente» sussurro.
Steve mi guarda. Mi prende il telefono dalle mani, me le stringe un istante e si volta verso Max. «Ti sei trovato bene con la dottoressa Verma?»
Max annuisce.
«Allora la chiamo e andiamo da lei.»
«Oggi» dico io, sollevando la testa. «Non tiriamola per le lunghe.»
Per fortuna l’ambulatorio adesso è aperto anche il fine settimana. Prendiamo un appuntamento per le tre.
Mentre Steve parlava al telefono, ho osservato Max: se ne stava raggomitolato in un angolo, sul letto, a gambe incrociate, la divisa scolastica tutta spiegazzata. Ha sbattuto le palpebre e ha sollevato la testa piano, guardandomi. Ci siamo fissati senza dire una parola, il volto inespressivo.
«Sì» ha detto Steve alla fine. «Grazie, molto gentile. Sì.»
Le labbra di Max hanno accennato un sorriso.
Ho cercato di ricambiare, per rassicurarlo, ma non ci sono riuscita. Rischiavo di scoppiare in lacrime se solo ci provavo. Con la coda dell’occhio l’ho visto riabbassare la testa. Si è portato una mano sul viso, se l’è passata su una guancia, l’ha lasciata ricadere.
«Apprezzeremmo molto la sua discrezione» ha aggiunto Steve. «Sì, abbiamo gli occhi puntati addosso a causa della campagna elettorale.»
Sia Max che io lo abbiamo guardato. Ho visto Max alzare gli occhi al cielo esattamente come faccio io, e mi sono sentita male.
È mio figlio. Il mio bambino, ho pensato. Per un brevissimo, orribile istante, l’ho immaginato mentre faceva sesso con qualcuno. «Oh mio dio» ho sussurrato.
Max ha appoggiato la testa alla parete e si è messo a rosicchiarsi le unghie. Steve ha chiuso la telefonata.
«È stato un incidente» ha detto Max con un filo di voce.
Steve si è seduto ai piedi del letto. «È tutto ok, Max. Sono cose che capitano.»
«Che cosa?» Mi sono voltata a fissare Steve incredula.
«Capitano, quando si è giovani.»
«No» ho replicato, gelida. «Niente affatto.» Mi sono girata verso Max. «Con chi hai fatto sesso?»
Steve gli ha lanciato un’occhiata.
«Non voglio parlarne» ha mormorato Max.
Prima che potessi aggiungere qualcosa, Steve ha annuito. «Abbiamo appuntamento con la dottoressa Verma alle tre. Cambiati, che mangiamo qualcosa prima.»
Mi sono alzata e sono andata verso la porta. Avrei voluto fargli un sacco di altre domande, ma dovevo assolutamente uscire da quella stanza. Il prima possibile.
«Max?» ho sentito Steve. «Vuoi scendere a mangiare qualcosa…? Ti porto su un toast?»
Mi sono chiusa la porta alle spalle. Steve ha mandato Lawrence e Debbie a casa e ci siamo seduti in soggiorno, io e lui, a parlare con calma della campagna elettorale, della necessità di privacy, di come reagire se questa storia finisse sui giornali, se la situazione dovesse in qualche modo precipitare.
«Credi che dovrei dirlo a Lawrence?» ha esclamato Steve a un certo punto.
«No!» ho sussurrato. «Perché?»
«Per essere in grado di affrontare l’emergenza e arginarla, nel caso in cui la storia dovesse venir fuori, ad esempio.»
Siamo rimasti un paio di minuti in silenzio.
«Come cazzo fai a pensare in questi termini?»
Steve ha sollevato la testa dal suo tè, totalmente sorpreso. Io tremavo letteralmente dalla rabbia.
«Quali?»
«È il nostro bambino. Dobbiamo difenderlo a ogni costo» ho detto sottovoce.
«Karen, è un adulto. Non sarà sempre sotto la nostra protezione. Dovrà affrontare il mondo e imparare non soltanto a convivere con la sua condizione e a essere felice, ma anche a non esserne schiacciato se la cosa diventasse di pubblico dominio. Evitare di parlarne con lui non può che rendere tutto più difficile. Io ci tengo alla campagna elettorale, ci tengo a migliorare la società nella quale viviamo entrando in politica. Non possiamo essere delle persone diverse da quello che siamo a causa di Max. Servirebbe soltanto a fargli pesare la sua diversità.»
«Allora lasciamo che faccia tutti gli errori che vuole e finisca sotto la lente d’ingrandimento di una campagna politica come questa? Gli abbiamo comprato noi la bicicletta e ora è lui che deve pedalare?»
«Non è colpa nostra. Sono cose che succedono.»
«No, non è vero.»
«Non è colpa tua.»
Me ne sto seduta, in preda alla disperazione, stringendo tra le dita la tazza di tè che diventa sempre più fredda.
«È troppo giovane perché sappia cosa è meglio per lui. Ce lo ha dimostrato oggi. Dobbiamo proteggerlo meglio.»
«Non possiamo proteggerlo da tutto. La campagna elettorale potrebbe non…»
«Vaffanculo la tua campagna elettorale!» ho sibilato. «Smettila di parlare della tua benedetta campagna elettorale. Non voglio neanche più sentirla nominare. L’avevo detto che non era una buona idea. Te l’avevo detto.»
Sono scoppiata a piangere, pensando a com’era Max appena nato, così piccolo e innocente. E adesso se ne va in giro per il mondo da solo e io non posso fare nulla. Non sa com’è la vita, non sa quanto pesano le scelte che si fanno, quanto possono cambiare le cose se si sapesse di lui, se la gente lo scoprisse.
Cos’ho fatto? mi domando. Cos’ha fatto Max?
Mi chiudo in soggiorno: non ce la faccio a vedere Steve e la sua forza calma e distaccata, che mi fa solo venire voglia di mettergli le mani addosso.
Qualche ora più tardi io, Steve e Max usciamo. Max era ancora seduto nell’angolo del suo letto quando sono andata di sopra a chiamarlo. Era pronto. Si era messo i jeans, una felpa verde, un giubbotto verde e le scarpe da ginnastica.
«Andiamo?» ha chiesto con lo stesso tono con cui avrebbe chiesto che cosa stavo preparando per cena.
«Sì, andiamo» ho risposto severa e lui mi ha seguita fuori dalla stanza.
Lungo il tragitto verso l’ambulatorio abbiamo lasciato Daniel a casa di Leah e Edward.
«Karen!» dice sottovoce Steve. «Non superare i cinquanta, tesoro.»
Annuisco distrattamente. Lancio un’o...