Cold killing
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Cold killing

  1. 384 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Cold killing

Informazioni su questo libro

Sean Corrigan è diverso da tutti gli altri detective. Nonostante sia riuscito a costruirsi un'esistenza serena e viva con la moglie e le figlie nella periferia residenziale di Londra, un'infanzia difficile ha lasciato nel suo cuore una duplice eredità. Da un lato una determinazione incrollabile nel fare giustizia, dall'altro un'oscurità dell'animo, un buco nero che Corrigan, giorno dopo giorno, lotta per tenere a bada ma che gli permette di immergersi nei meandri più tortuosi e bui della psiche umana, di sentire il lato oscuro delle persone. Così quando un ragazzo viene trovato nel suo appartamento, ucciso dalle molteplici ferite provocate da un'arma da taglio, Corrigan capisce subito che non si trova di fronte a un normale delitto. Sebbene il modus operandi sia inedito e dalla Scientifica non arrivi nessuna conferma, Corrigan è certo che quello che ha di fronte sia solo l'ultimo di una serie di omicidi, realizzati da un'unica mano. Da un solo serial killer. Forse il più pericoloso che abbia mai dovuto affrontare. A Corrigan, adesso, non resta che trovare le prove che quanto afferma è vero, convincere i suoi capi a lasciarlo indagare per fermare il serial killer, prima che la minaccia arrivi al centro della sua vita e da cacciatore diventi lui la preda.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804643579
eBook ISBN
9788852054228

1

Sabato. Ho accettato di venire al parco con moglie e figli. Si trovano sulla collinetta erbosa poco lontano dallo stagno. Hanno mangiato, hanno dato da mangiare alle anatre e ora alimentano la loro convinzione che siamo una famiglia felice e normale. E a essere giusti, per quanto li riguarda, lo siamo. Non permetterò che la loro vista mi rovini la giornata. Il sole splende e io mi sto abbronzando. Il ricordo dell’ultima visita è ancora fresco e soddisfacente. Mantiene il sorriso sul mio volto.
Ma guarda questa gente. Tutti felici e rilassati. Non sanno che li sto osservando. Come quei due bambini piccoli che si allontanano dalle loro madri, troppo occupate a chiacchierare tra loro per accorgersene. Poi all’improvviso si rendono conto che il loro tesoruccio si è spostato un po’ troppo in là ed ecco lo strillo petulante da genitore iperprotettivo, seguito da una pacca sul sederino e da altre urla.
Per adesso mi sento appagato. Il divertimento della settimana scorsa mi terrà buono per un po’, quindi oggi sono tutti al sicuro.
Me la sono spassata un mondo con il frocetto. Ho fatto in modo che sembrasse un omicidio domestico. Ho sentito dire che le liti tra quelli come lui possono diventare violente e mi sono divertito con quell’idea.
È stato abbastanza facile da uccidere. Questa gente vive pericolosamente. Sono le vittime perfette. Per questo ho cercato qualcuno tra di loro, e ho trovato lui.
Avevo già deciso di passare la serata a caccia tra i clienti di un club di Vauxhall, l’Utopia. Che nome ridicolo. Inferno, semmai, se volete la mia opinione. Avevo detto a mia moglie che sarei stato fuori città per lavoro, avevo infilato qualche indumento di ricambio in una borsa, il necessario per la toelette, le solite cose che servono per star fuori una serata, insomma, e prenotato una camera in un albergo a Victoria. Non potevo rientrare a casa nel cuore della notte. Avrebbe destato sospetti e questo io non potevo permettermelo. A casa deve sembrare tutto... normale.
Avevo preparato anche una tuta di carta da imbianchino comprata da Homebase, qualche paio di guanti da chirurgo – facilmente reperibili in qualunque negozio –, una cuffia da doccia e alcuni sacchetti di plastica per coprire i piedi. Un po’ rumorosi, ma efficaci. E, ultimo particolare ma non meno importante, una siringa. Il tutto ordinatamente riposto in uno zainetto.
Tenendomi lontano dalle telecamere a circuito chiuso che pullulano in quell’area, mi ero fermato a osservare l’ingresso del nightclub nascosto sotto il ponte ferroviario, mentre sopra i treni sfrecciavano rombando attraverso le arcate.
Avevo già individuato il mio obiettivo entrare nel club all’inizio della serata. L’eccitazione mi faceva tendere i testicoli. Sì, era davvero degno delle mie attenzioni speciali. Non era la prima volta che lo vedevo. Lo avevo osservato un paio di settimane prima, mentre si prostituiva dentro il nightclub con chiunque potesse permettersi di pagare il suo prezzo. Ero in cerca della vittima perfetta, sapendo che la polizia avrebbe controllato solo le registrazioni video della sera della morte o, se fossero stati particolarmente scrupolosi, della settimana precedente.
Ero rimasto lì in mezzo alla massa oscillante di umanità sporca e puzzolente, corpi che sfioravano il mio, lo contaminavano con la loro malata imperfezione e al tempo stesso infiammavano i miei sensi già eccitati. Desideravo tanto allungare una mano e afferrarli per la gola, uno dopo l’altro, e stritolare una trachea dopo l’altra fino ad avere una montagna di corpi ai miei piedi. Mi ero sforzato di controllare quell’impulso che premeva da dentro, poi ero stato preso dal terrore, un terrore mai provato in tutta la mia vita. Il terrore che il mio vero io stesse per manifestarsi, che tutte le persone intorno a me potessero vedermi cambiare davanti ai loro occhi, la pelle farsi di un rosso scintillante e quella luce bianca e splendente uscirmi dagli occhi e dalle orecchie, fuoriuscire dalla bocca come vomito. Grosse gocce di sudore mi erano scivolate lungo la schiena, seguendo le linee dei muscoli gonfi e contratti. In qualche modo ero riuscito a muovere le gambe, ad aprirmi un varco tra la folla di accoliti vocianti fino ad arrivare al bancone del bar per guardare nell’enorme specchio appeso. Avevo provato un’ondata di sollievo che mi aveva rallentato il battito del cuore e asciugato il sudore: non ero cambiato, non mi ero tradito.
La fase dell’osservazione era conclusa. Era giunto il momento del mio premio, del sollievo, della liberazione. Tutto era a posto, tutto era come doveva essere. Alla fine lo vidi uscire dal night. Salutava a gran voce questo e quello, ma sembrava solo. Si infilò sotto il ponte della ferrovia, andando verso il Vauxhall Bridge. Mi spostai in fretta e senza far rumore all’altro capo del ponte ferroviario e lo aspettai. Quando si avvicinò, uscii dall’ombra. Lui mi vide, ma non parve spaventato. Anzi, ricambiò il mio sorriso quando gli rivolsi la parola.
“Mi scusi.”
“Sì?” rispose, sempre sorridendo, avvicinandosi al lampione per osservarmi meglio. “C’è qualcosa che posso fare per... te” concluse, riconoscendomi. “Dobbiamo smetterla di incontrarci così.” Sì, ero già stato con lui, in precedenza. Un rischio, ma calcolato. Poco più di una settimana prima, dentro il nightclub, mi ero fatto notare, senza parlargli, accertandomi che vedesse il mio volto sorridente così da riconoscerlo, in seguito. Più tardi lo avevo incontrato fuori, gli avevo dato quello che chiedeva, tutto in anticipo, ed eravamo andati nel suo appartamento, dove io mi ero lordato dentro di lui e avevo persino permesso che lui lordasse me. Il sesso non era importante, e neppure piacevole... ma non era quello lo scopo di stare con lui. Io volevo sentirlo quando ancora era vivo, volevo capire che non era una cosa inanimata ma una persona, reale, viva. Non potevo stare con lui in quel modo la sera in cui lo avrei ucciso, casomai avessi lasciato una minima traccia di sperma o di saliva sul suo corpo. Stare con lui una settimana prima avrebbe dato il tempo a quelle eventuali tracce di degradarsi. E poi, ovviamente, avevamo fatto sesso sicuro. Lui per proteggersi dalla Peste dei Gay, io per non essere scoperto. Mi ero rasato i peli pubici e avevo indossato una maschera di gomma che mi copriva viso e testa, in modo da non lasciare capelli sulla scena, e guanti di gomma per eliminare il rischio di impronte digitali... tutte cose che il frocetto pensava facessero parte del divertimento. Ma il divertimento, quello vero, doveva ancora venire, e io avevo più di una settimana per fantasticare su quanto sarebbe accaduto.
I giorni erano passati con intollerabile lentezza, mettendo a dura prova la mia pazienza e il mio autocontrollo, ma i ricordi della sera che ero stato con lui e il pensiero di quello che avrei fatto mi avevano aiutato a superare l’attesa e, prima ancora di accorgermene, me lo trovai davanti: i denti piccoli e bianchissimi che brillavano alla luce dei lampioni, la testa dalla forma ovale troppo grande per il collo scheletrico arroccato sulle spalle strette. I capelli erano biondi e diritti, lunghi fino alle spalle, pettinati come li portano i surfisti, ma la carnagione era pallida e il fisico esile. La cosa più atletica che aveva mai fatto era mettersi in ginocchio. La T-shirt, troppo stretta e troppo corta, lasciava scoperto il ventre piatto che scendeva nei jeans firmati a vita bassa, indossati allo scopo di provocare pulsioni sessuali in quelli come lui.
Gli dissi che volevo stare di nuovo con lui. Mentii e aggiunsi che ero andato al nightclub e lo avevo visto ballare, che mi ero sentito troppo timido per avvicinarlo, ma che ora lo desideravo davvero. Parlammo ancora un po’ e poi lui disse: “Tu sai che io non sono a buon mercato. Se vuoi stare di nuovo con me, ti costerà”.
Propose di andare a casa mia e io risposi che c’era il mio amico, ma lui cominciò a dire che non gli andava di portare gente nel suo appartamento, e che l’ultima volta era stata un’eccezione: io tirai fuori altre due banconote da cinquanta dal portafoglio e gliele ficcai in mano. Sorrise.
Andammo alla mia auto, cui avevo applicato targhe false, e partimmo alla volta del suo appartamento, un cesso di posto nella zona sudorientale di Londra. Stetti ben attento a non parcheggiare vicino al suo isolato. Gli dissi che non volevo correre il rischio di essere visto andare verso casa sua con lui, e gli suggerii di andare avanti e lasciare la porta aperta.
Aspettai un paio di minuti e poi, quando fui certo che la strada fosse deserta e nessuno guardasse dalle finestre, mi avviai verso il suo appartamento. L’edificio era vecchio, freddo e puzzava di piscio, ma lui era stato di parola e aveva lasciato la porta socchiusa. Entrai senza fare rumore e chiusi a chiave. Lui sbucò da dietro l’angolo in fondo al corridoio, da quello che – sapevo – era il soggiorno.
“Hai chiuso?” chiese.
“Sì” risposi. “Oggigiorno non si è mai troppo prudenti.”
“Hai paura che qualcuno ci sorprenda e ci rovini la festa?”
“Qualcosa del genere.”
L’eccitazione era insostenibile. Avevo lo stomaco così stretto che quasi non riuscivo a respirare. Dentro di me, la mia mente urlava, ma io continuai a sfoggiare un sorriso nervoso mentre entravo nel soggiorno.
La puttana era accucciata accanto al lettore CD. Gli dissi che volevo darmi una rinfrescata e mi diressi verso il bagno, in fondo al corridoio.
Portai con me la borsa e in fretta, anche se con una certa difficoltà, indossai la tuta di carta, la cuffia per la doccia, i guanti di gomma e infine i sacchetti di plastica sopra le scarpe. Mi guardai allo specchio e inspirai a fondo col naso. Ero pronto.
Tornai in soggiorno. Lui si voltò e mi vide, splendente nella mia bardatura. Cominciò a ridacchiare, coprendosi la bocca come per fermarsi. Si era già tolto la maglietta.
“È così che ci divertiremo, stasera?” disse.
“In un certo senso” risposi.
Furono le sue ultime parole, anche se forse, poco dopo, disse un “per favore”, ma il sangue che gli gorgogliava in gola lo rese un semplice brontolio indistinto.
Con gesto fluido e veloce afferrai una statuetta di ferro raffigurante un indiano nudo che teneva sul tavolino e gli sfondai il cranio, colpendolo con violenza sufficiente a fargli perdere conoscenza e a paralizzarlo, senza ucciderlo subito. Era già in ginocchio, un bene, perché minore distanza da terra significava meno rumore quando fosse caduto sul pavimento.
Rimasi a guardarlo per un po’, in piedi sopra di lui come il vincitore di un incontro di pugilato, osservando il suo petto alzarsi e abbassarsi a ogni faticoso respiro. Inizialmente il sangue sgorgò con violenza dalla ferita, poi rallentò fino a diventare un flusso costante a mano a mano che il cuore diventava troppo debole per pomparlo alla pressione di cui il corpo aveva bisogno per restare vivo. A intervalli di pochi secondi la gamba destra faceva uno scatto come quella di un uccello morente.
Non sarebbe stato come lo avevo sognato se lui non fosse rimasto cosciente almeno in parte quando mi fossi gettato su di lui con il punteruolo da ghiaccio che avevo trovato nel mobile bar. Avevo bisogno che fosse vivo quando lo colpivo. Avevo bisogno di vederlo mentre cercava di fermarmi ogni volta che affondavo il punteruolo nel suo corpo morente: non pugnalate frenetiche, ma affondi deliberati nella sua carne pallida che producevano quel delizioso, soddisfacente schiocco. Di quando in quando alzava una mano nel patetico tentativo di difendersi da quella tortura. Gli dissi di fare il bravo e proseguii nella mia opera. Fu un peccato che l’emorragia al cervello gli avesse fatto diventare gli occhi rossi, perché avrei voluto che il suo sguardo azzurro formasse un bel contrasto con il volto pallido insanguinato. La volta seguente avrei fatto meglio.
Il suo corpo trafitto cominciò quasi a disgustarmi, a farmi desiderare di fuggire da lì, ma non potevo ancora fermarmi. Non finché tutto non fosse stato il più possibile fedele a come lo avevo immaginato nella mia testa la prima volta in cui avevo capito che sarei andato a fargli visita. Avrei proseguito, nonostante il fetore nauseabondo che fuoriusciva dalle lacerazioni allo stomaco e all’intestino, l’urina e gli escrementi che si liberavano dal suo corpo trasformato.
Tenne duro per quaranta minuti. Ogni tanto sbatteva gli occhi e li apriva leggermente, per qualche istante. Quando erano aperti io continuavo nella mia opera, interrompendomi ogniqualvolta perdeva conoscenza, incapace di sopportare il dolore o afferrare la situazione. Ogni tanto ero costretto a dargli un pugno in faccia per farlo smettere di urlare. Non che realisticamente potesse emettere più di un gemito, ma tant’è, dovevo essere sicuro.
Quando finalmente morì, il sibilo debole e lento che sfuggì dalle sue labbra e dalle lacerazioni nel suo petto mi fece capire che il mio divertimento era giunto al termine. Infilai un paio di guanti puliti e presi dalla tasca dei suoi pantaloni le trecento sterline in contanti che gli avevo dato prima. Non volevo lasciarle lì. Ruppi qualche mobile senza far rumore e sistemai la stanza come se fosse avvenuta una colluttazione. Poi, con la siringa che avevo portato con me, prelevai del sangue dalla sua bocca e lo spruzzai per la stanza: sulle pareti, sui mobili, sulla moquette, riproducendo degli schizzi come a suggerire una lite violenta. Quindi mi spostai nell’angolo della stanza che avevo lasciato pulito, mi tolsi gli abiti e li misi dentro un sacchetto di plastica che infilai in un altro sacchetto, ripetendo quella procedura per altre due volte. Mi accertai che ogni sacchetto fosse ben chiuso e alla fine riposi tutto nello zaino. Mi infilai altri sacchetti ai piedi, non volendo correre il rischio di calpestare una macchia di sangue... è un genere di prova difficile da giustificare. Indossai un paio di guanti chirurgici puliti e uscii dal soggiorno. Avrei bruciato tutto in giardino la sera dopo, il modo più sicuro per disfarsi di oggetti tanto incriminanti. Bruciarli in un luogo pubblico rischiava di attirare l’attenzione di qualcuno, seppellirli li avrebbe lasciati alla mercé di animali curiosi.
Andai alla porta d’ingresso senza far rumore. Mi tolsi i sacchetti di plastica dai piedi e guardai attraverso lo spioncino. Rimasi in ascolto dietro la porta, facendo attenzione a non appoggiare l’orecchio, col rischio di lasciare un’impronta in qualche modo riconoscibile.
Quando fui assolutamente tranquillo, uscii dall’appartamento, lasciando la porta aperta in modo da non fare più rumore del necessario. La statuetta e il punteruolo li gettai nel Tamigi, mentre andavo verso il mio albergo. L’idea che la polizia avrebbe sprecato ore a cercare armi che non l’avrebbero minimamente aiutata nelle indagini mi divertì.
Arrivato all’hotel, entrai dalla porta laterale accanto al bar, usata di solito come uscita di sicurezza. Sapevo che si poteva aprire dall’esterno e che non era sorvegliata da telecamere. Avevo già la chiave magnetica per la mia stanza, che mi era stata consegnata quando mi ero registrato, qualche ora prima. Feci una lunga doccia, regolando l’acqua sulla temperatura più calda che riuscii a sopportare, sfregandomi vigorosamente pelle, unghie e capelli con uno spazzolino finché mi sentii il corpo in fiamme. Avevo tolto il tappo dallo scarico per permettere a ogni particella lavata via dal mio corpo di fluire liberamente nel sistema fognario di Londra. Dopo la doccia feci un lungo bagno fumante e mi fregai per bene un’altra volta. Dopo essermi asciugato, mi sdraiai nudo sul letto e bevvi due bottiglie d’acqua, finalmente in pace. Soddisfatto. Presto arrivò il sonno e con esso lo stesso, bellissimo sogno ripetuto più volte.

2

Giovedì mattina

Erano le tre del mattino e l’ispettore Sean Corrigan guidava per le vie desolate di New Cross, nel Sudest di Londra. Era nato e cresciuto nella vicina Dulwich e, da che aveva memoria, quelle strade erano un posto pericoloso. Lì chiunque poteva diventare una vittima da un momento all’altro, a prescindere dall’età, dal sesso o dal colore della pelle. Lì la vita valeva poco.
Ma quelle preoccupazioni non lo sfioravano neppure. Erano per le persone che lavoravano dalle nove alle cinque nei negozi e negli uffici. Per quelli che arrivavano al lavoro con gli occhi annebbiati ogni mattina e se ne tornavano a casa ogni sera carichi di paura, sentendosi al sicuro solo dopo aver chiuso a chiave la porta d’ingresso.
Sean non aveva timore delle strade: aveva conosciuto e affrontato il peggio che potessero offrire. Era un investigatore, a capo di una delle squadre Omicidi di South London. Gli assassini braccavano le loro vittime e Sean braccava gli assassini. Guidava con il finestrino abbassato e le portiere senza sicura.
Meno di un’ora prima si trovava a casa a dormire, quando il sergente Dave Donnelly lo aveva chiamato. C’era stato un omicidio, uno di quelli brutti. Un giovane picchiato e pugnalato a morte nel suo appartamento. Un attimo prima Sean era sdraiato accanto alla moglie, un attimo dopo era in auto, diretto verso il luogo in cui la vita di un giovane era stata spezzata.
Trovò l’indirizzo senza difficoltà. Le vie intorno al luogo dell’omicidio erano stranamente silenziose. Fu contento di vedere che gli agenti in uniforme avevano fatto il loro dovere e isolato l’edificio in cui si trovava l’appartamento. Gli era capitato di arrivare su scene del delitto dove il cordone di polizia cominciava e finiva ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Cold killing
  3. DEDICA
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. EPILOGO
  27. Copyright