L'iniziazione
eBook - ePub

L'iniziazione

  1. 98 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Chicago, 1933. Louie, diciassettenne introverso nel quale sono riconoscibili i tratti dell'autore, un pomeriggio si ritrova nello studio medico del cognato, dove si imbatte per caso in una bella donna nuda, sdraiata sul lettino. Attirato "come un'ape" dal "miele sessuale" di quel corpo, Louie raccoglie l'invito della sconosciuta e l'accompagna a casa, diviso tra eccitazione e timore. Inizia così la sua breve e comica avventura, destinata a volgere al tragico: in quelle stesse ore, infatti, a casa, la madre del ragazzo sta morendo. Dopo cinquant'anni Louie rievoca quell'episodio a beneficio del figlio, cui consegna questo antico emozionante ricordo come "una sorta di aggiunta alla sua eredità".
Pubblicata nel 1990 e subito apprezzata dalla critica, L'iniziazione è una storia fresca, insolita, una favola preziosa, comica e patetica insieme, sulla vita e la morte, un piccolo ma perfettamente compiuto capolavoro che è inno alla giovinezza e alla memoria.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804581024
eBook ISBN
9788852050657

L’iniziazione

Ai miei figli e ai miei nipoti

Quando stanno succedendo troppe cose, più di quante tu ne possa sopportare, puoi scegliere di fare finta che non stia accadendo niente di particolare, che la tua vita stia girando e rigirando come il piatto di un giradischi. Poi un giorno ti rendi conto che quello che credevi un piatto di giradischi, liscio e uniforme, era in realtà un mulinello, un vortice. La mia prima presa di coscienza del segreto lavorio di certi giorni tutti uguali risale al febbraio del 1933. La data precisa non avrà grande importanza per te. D’altro canto mi piace pensare che tu, mio unico figlio, voglia sentire di questo segreto lavorio visto che mi riguarda. Quando eri piccolo la storia della famiglia ti interessava assai. Presto capirai che non potevo raccontare a un bambino quello che sto per raccontarti adesso. A un ragazzino non si parla di morti e di vortici, al giorno d’oggi, almeno. Ai miei tempi i miei genitori non esitavano a parlare della morte e dei morenti. Quello a cui accennavano di rado era il sesso. Per noi oggi è il contrario.
Mia madre morì quando ero adolescente. Questo te l’ho raccontato spesso. Quello che non ti ho raccontato è che sapevo che stava morendo e che non mi consentivo di pensarci – ecco il piatto del giradischi.
Il mese era febbraio, come ho detto prima, aggiungendo che la data precisa non avrebbe avuto importanza per te. Dovrei confessare che io stesso ho evitato di fissarla.
Chicago d’inverno, corazzata di ghiaccio grigio, il cielo basso, il tirare avanti, pesante.
Ero all’ultimo anno del liceo, studente senza infamia e senza lode, generalmente impopolare, personaggio di sfondo nella scuola. Solo come saltatore in alto mi esibivo in pubblico. Non avevo nessuno stile: un curioso sussulto o convulsione dell’ultimo attimo mi faceva superare l’asticella. Ma questo era quello che la scuola veniva a vedere.
Svogliato nello studio, ero tuttavia un lettore appassionato. Ero molto riservato sulla mia vita privata. La verità è che non volevo parlare di mia madre. E poi, non avevo ancora un linguaggio per la stranezza dei miei interessi particolari.
Ma torniamo a quel giorno significativo degli inizi di febbraio.
Cominciò come qualsiasi altro giorno di scuola, in inverno a Chicago – cupamente consueto. La temperatura diversi gradi sotto lo zero, disegni di ghiaccio dalle forme botaniche sul vetro della finestra, la neve spazzata in mucchi, il ghiaccio granuloso e le strade, un isolato dopo l’altro, tenute insieme dal ferro del cielo. Una colazione a base di porridge, pane tostato e tè. In ritardo come al solito, entrai un momento nella camera dove mia madre giaceva malata. Mi chinai su di lei e dissi: «Sono Louie, vado a scuola». Lei parve annuire col capo. Aveva le palpebre scure, il viso molto più chiaro. Corsi via con i libri in spalla, legati con una cinghia.
Quando arrivai al viale sul bordo del parco, d’un tratto due uomini minuscoli, con il fucile in mano, sbucarono da un portone, mirarono in alto girando su se stessi come trottole, e spararono ai piccioni sul tetto. Parecchi volatili caddero giù di colpo, e gli uomini raccolsero i soffici cadaveri e rientrarono di corsa, due tipetti piccoli e bruni dalle camicie bianche svolazzanti. Cacciatori della Depressione e la loro selvaggina urbana. Pochi attimi prima l’auto della polizia era passata pigramente a venti chilometri l’ora. E loro avevano atteso che si allontanasse.
Questo non c’entra nulla con me. Vi accenno solo perché accadde. Girai attorno alle macchie di sangue e attraversai, inoltrandomi nel parco.
Alla destra del vialetto, dietro i rigidi ramoscelli di lillà, la crosta della neve era spaccata. Nel cuore della nera notte io e Stephanie ci eravamo sbaciucchiati lì, pomiciando, io con le mani sotto la sua giacca di procione, sotto il suo golf, sotto la sua sottana, due adolescenti che si baciavano senza ritegno. Il berretto di pelle di procione le era scivolato sulla nuca. Lei apriva il giaccone muschiato per avermi più vicino.
Quasi giunto a destinazione, dovetti correre per arrivare alla porta della scuola prima dell’ultima campana. I miei mi avevano avvertito: niente guai con gli insegnanti in un momento simile. E io osservavo le regole, anche se disprezzavo il lavoro in classe. Ma tutti i soldi su cui riuscivo a mettere le mani li spendevo alla libreria Hammersmark. Leggevo Manhattan Transfer, La stanza enorme e Ritratto dell’artista. Ero membro del Cercle Français e del Senior Discussion Club. L’argomento scelto dal circolo per la discussione di quel pomeriggio era la decisione di von Hindenburg di affidare a Hitler l’incarico di formare un nuovo governo. Però adesso non potevo andare alle riunioni: avevo un impiego dopo la scuola. Mio padre aveva insistito perché me ne trovassi uno.
Dopo le lezioni, diretto al lavoro, passavo da casa per tagliarmi una fetta di pane e un pezzo di formaggio del Wisconsin, e per vedere se per caso mia madre fosse sveglia. Nei suoi ultimi giorni, imbottita com’era di sedativi, diceva raramente qualcosa. L’alta bottiglia dal dorso squadrato accanto al letto era piena di Nembutal, di un limpido rosso. Il colore di questo liquido era sempre lo stesso, come se non tollerasse ombra. Ora che non era più in grado di alzarsi a sedere per farseli lavare, mia madre portava i capelli tagliati corti. Questo le rendeva il viso più affilato, e le sue labbra erano tristi. Il suo respiro era secco e duro, ostruito. La tendina era alzata per metà. In basso era dentellata e aveva una frangia bianca. Il ghiaccio nella strada era di un grigio scuro. La neve era ammucchiata contro gli alberi. I tronchi sembravano fatti di pietra nera. Nella loro attesa della fine dell’inverno dentro alla loro corazza da alligatori, raccoglievano fuliggine di carbone.
Anche quando era sveglia, mia madre non riusciva a trovare il fiato per parlare. A volte faceva dei segni. Con l’eccezione dell’infermiera, in casa non c’era nessuno. Mio padre era al lavoro, mia sorella aveva un impiego giù in città, i miei fratelli si davano da fare. Il maggiore, Albert, faceva il commesso di un avvocato nel Loop. Mio fratello Len mi aveva procurato un lavoro sui treni per i pendolari della Northwestern, e per un po’ avevo fatto il venditore di dolciumi e tavolette di cioccolata, vendendo anche i giornali della sera. Quando mia madre mi fece smettere perché rincasavo troppo tardi, trovai altri lavori. Attualmente recapitavo fiori per conto di un negozio di North Avenue e viaggiavo sui tram portando bouquet e corone in ogni parte della città. Behrens, il fioraio, mi dava cinquanta centesimi al pomeriggio; con le mance potevo arrivare a guadagnare anche un dollaro. Questo mi lasciava il tempo di studiare trigonometria, e la sera molto tardi, dopo aver visto Stephanie, di leggere i miei libri. Mi trattenevo in cucina dopo che tutti gli altri erano andati a dormire, in un silenzio profondo, con i cumuli di neve sotto le finestre e la vanga del portiere che raschiava il cemento e sbatteva contro la porta della caldaia. Leggevo libri proibiti fatti circolare dai miei compagni di classe, libelli politici, leggevo Prufrock e Mauberley. Studiavo anche libri arcani troppo esoterici per discuterne con chiunque.
Leggevo sul tram. Leggere significava non guardare fuori. Di fatto, non c’era nulla da guardare... era sempre lo stesso panorama, e poi ancora lo stesso. Vetrine di negozi, garage, depositi, stretti bungalow di mattoni.
La città era distesa su di una griglia enorme, con cinque isolati per chilometro, e una linea tramviaria ogni quattro strade. Con le giornate così corte e le luci dei lampioni così deboli, i mucchi di neve sudicia lungo i marciapiedi diventavano una fonte di luce verso sera. Io portavo i soldi del tram nella mia muffola, dove le monete si mescolavano con la filaccia uscita dall’imbottitura. Oggi consegnavo dei gigli a un indirizzo nei quartieri alti. Erano avvolti e spillati in una carta pesante. Mentre mi spiegava con cura la mia missione, Behrens era pallido, un uomo dal viso affilato, con occhiali a stringinaso. In mezzo ai fiori, lui solo non aveva colore: era un po’ il prezzo che pagava per essere umano. Non sprecava parole: «Questa consegna richiederà un’ora per andare e un’altra per tornare, col traffico che c’è, pertanto farai questa sola. È gente che ho già nei registri, ma tu bada a farti mettere una firma sulla bolla».
Non saprei dire perché era un tale sollievo uscire dal negozio, l’odore umido, caldo della terra, le fitte borraccine, i cactus pungenti, i frigoriferi di vetro con orchidee, gardenie e rose per degenti. Preferivo la noia dei mattoni della strada, delle pietre del selciato e dei binari d’acciaio. Tirai giù le tre punte del mio berretto da pattinatore e sotto il peso dell’ingombrante mazzo di fiori giunsi in Robey Street. Quando la vettura arrivò ansimando trovai posto sul sedile lungo accanto alla porta. I passeggeri non si sbottonavano. Erano infreddoliti, guardinghi, imbacuccati, infelici. Io mi ero portato qualcosa da leggere – i resti di un libro, senza più copertina, le pagine tenute insieme dal filo della legatura e da grumi di colla. Portavo queste cinquanta o sessanta pagine nella tasca del mio corto giaccone di montone. Con la mano libera non riuscivo a maneggiare questo libro mutilato. E sul tram della linea Broadway-Clark, leggere era fuori questione. Dovevo proteggere i miei gigli dai passeggeri in bilico e da quelli che spingevano per andare avanti.
Scesi a Ainslie Street tenendo alto il pacco, che aveva la forma di un aquilone imbottito. Il palazzo condominiale che cercavo aveva un cortile con paletti di ferro. Il solito ingresso: un pavimento affossato al centro, piastrelle sporgenti, fessure piene di sudiciume, e un pannello di cassette d’ottone per la posta e i citofoni. Nessuna voce rispose quando premetti il bottone; invece, la serratura ronzò, vibrò, crepitò, e io passai dal freddo dell’ingresso al senso di chiuso e di surriscaldato dell’atrio. Al primo piano una delle due porte sul pianerottolo era aperta, e soprascarpe e galosce e stivali di gomma erano ammucchiati lungo la parete. Subito mi trovai in mezzo a una folla di persone che bevevano. Tutte le luci della casa erano accese, benché al buio mancasse ancora un’ora buona. C’erano cataste di soprabiti su sedie e divani. Tutto il whisky a quei tempi era di contrabbando, si capisce. Tenendo in alto i fiori, passai in mezzo ai dolenti. Avevo un ruolo semiufficiale. Circolò il messaggio, «Fate passare il ragazzo. Dai, amico, passa».
Anche il lungo corridoio era gremito, ma la sala da pranzo era completamente vuota. Qui, una ragazza morta giaceva nella sua bara. Sopra di lei un lampadario a gocce di cristallo pendeva da un’incerottata, deforme arteria di filo fatta passare nell’intonaco rotto. Non avevo previsto che mi sarei trovato a guardare dentro una bara.
La vedevi così com’era, senza il belletto dell’impresario di pompe funebri, una ragazza più grande di Stephanie, non così in carne, sottile, bionda, i capelli lisci disposti sulle sue spalle morte. Perduta tutta la propria levità, un peso che contava totalmente sul sostegno, era non tanto distesa quanto affondata in quel rettangolo grigio. Vidi quelli che pensai fossero i segni di dita sulla guancia. Se fosse stata graziosa o meno non era materia di considerazione.
Una donna robusta (certo la madre), vestita di nero, aprì la porta a vento della cucina e mi vide ritto accanto al cadavere. Pensai che fosse seccata quando mi fece segno col pugno chiuso di venire avanti. Quando le passai accanto si premette entrambi i pugni contro il seno. Disse di posare i fiori nell’acquaio, dopodiché sfilò gli spilli e scansò la carta, facendola scricchiolare. Braccia grosse, polpacci spessi, una crocchia di capelli, il naso corto, sottile e rosso. Era prassi di Behrens legare i gambi dei gigli a snelli bastoncini verdi. Niente mai si sciupava.
Sul piano di scolo dell’acquaio c’erano un prosciutto cotto al forno con fette di pane a cassetta tutto intorno al vassoio, un barattolo di mostarda French e dei premilingua di legno per spalmarla. Vidi e vidi e vidi.
Adottai con la donna il mio contegno più discreto e educato. Guardai il pavimento per risparmiarle il mio volto pieno di commiserazione. Ma perché avrebbe dovuto importarle della mia discrezione? Cosa c’entravo io lì se non come messo e garzone? E se lei non osservava il mio contegno, a chi lo indirizzavo? Tutto quello che lei voleva era saldare il conto e mandarmi via. Prese il borsellino, tenendolo aderente al corpo come aveva tenuto i pugni. «Quanto devo a Behrens?» mi chiese.
«Ha detto che bastava che firmasse.»
Ma lei non aveva intenzione di scambiare cortesie. Disse: «No». Disse: «Non voglio avere debiti che mi inseguano». Mi diede un biglietto da cinque dollari, aggiunse una mancia di cinquanta centesimi, e fui io a firmare la ricevuta, meglio che potei sui solchi smaltati dell’acquaio. Piegai la banconota fino a farla diventare piccola piccola e mi toccai sotto il montone alla ricerca del taschino da orologio, vergognandomi di accettare denaro da lei al cospetto della figlia morta. Non ero io l’oggetto della severità della donna, ma il suo viso in qualche modo mi spaventava. Lei rivolgeva imparzialmente la stessa espressione alle pareti, alla porta. Io comunque con quel posto non avevo nulla a che fare: questa non era una morte mia.
Come per leggere ancora una volta il viso poco attraente della ragazza, tornai a guardare nella bara mentre mi avviavo per uscire. E poi per le scale cominciai a tirare fuori le pagine dalla tasca del mio montone, e nell’ingresso del palazzo cercai le frasi che avevo letto la sera prima. Sì, eccole:
La natura non sopporta la forma umana all’interno del suo sistema di leggi. Quando le viene affidato, l’essere umano che abbiamo davanti è ridotto in polvere. La nostra è la forma più perfetta che si possa trovare sulla terra. Il mondo visibile ci sostiene finché la vita non ci lascia, e allora inevitabilmente e totalmente ci distrugge. Dov’è dunque il mondo dal quale viene la forma umana?
Se mangiavi qualcosa e poi morivi, quel boccone che ti avrebbe nutrito da vivo, da morto avrebbe accelerato la tua disintegrazione.
Questo voleva dire che la natura non creava la vita; si limitava a ospitarla.
A quei tempi leggevo molti libri del genere. Ma quello che avevo letto la sera prima andava...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'iniziazione
  3. Introduzione - di Alessandra Calanchi
  4. Cronologia
  5. Bibliografia
  6. L’INIZIAZIONE
  7. Postfazione - di Saul Bellow
  8. Copyright