
- 432 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il velocifero
Informazioni su questo libro
Il "velocifero", la diligenza dei viaggi celeri del secolo scorso, fa da simbolo per la saga di una grossa e pittoresca famiglia, uomini e bestie, galleggiante sulla Milano della Belle époque.
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Informazioni
Print ISBN
9788804471325eBook ISBN
9788852053856Il velocifero
A Bice
Animali mondi e immondi,
uccelli e tutti quanti si muovono sulla terra
entrarono a coppie con Noè
nell’arca, maschi e femmine.
GENESI, 7-9
«Per tucc i Sant, mantell e guant» disse Marietta sollevandosi con una bracciata d’indumenti di lana. Era fatta di due donne incollate per errore una sull’altra: dal deretano enorme spuntava un torace ossuto senza poppe, e un collo e due braccia legnosi. Rovesciò tutto sul letto e stette a guardare, soffiando per lo sforzo, dai suoi tondi occhi di foca ammaestrata. Erano maglie felpate di color bigio o senape, culottes a gambaletto e mutande coi legacci al malleolo, pancere, calze e scialli che avevano dormito il loro letargo nel buio ventre di Epaminonda, l’armadio di noce massiccio, e ora rivedevano la luce sprigionando il salato odore della canfora.
In molte case milanesi come quella di viale Monforte al 5, avveniva in quei giorni il cambio della guardia. Sulle tappezzerie morivano le ultime mosche e l’estate, coi suoi ventagli e parasoli, andava ad acquartierarsi nei pochi metri cubi d’una cassapanca, fra guancialetti pieni di spigo tritato. Nei cortili dei benestanti, i carbonai, incappucciati da sacchi di juta, scaricavano ceste di antracite o coke giù dai boccaporti delle cantine che esalavano un mucido freddo sulle caviglie dei passanti; e il casamento era pieno dei loro passi strascicati e del franare allegro del carbone nelle viscere della casa.
Marietta gettò sul letto un secondo mucchio di lanerie e alcune pallottole di naftalina rotolarono sul pavimento. Renzo e Silvia si lanciarono a ricuperarle, schiacciandosi come bisce sotto il letto.
«Conscèves de sbatt via, viàlter!» strepitò la donna; e acciuffò la bambina, che sporgeva ancora per un piede, trascinandola fuori.
Silvia, sollevata per le caviglie, restò sospesa in aria, ma col sorriso delle acrobate negli esercizi più temerari. Le gonnelle capovolte le scopersero le gambe color miele, i lisci capelli castani spenzolarono fino al parquet; a guardarla con quella grazia tranquilla, pareva che non lei, ma tutto il resto della stanza e le persone fossero capovolti. Dimenticata la naftalina, Silvia s’era subito appigliata a quel giuoco imprevisto: il mondo guardato a testa in giù la divertiva molto: l’armadio Epaminonda, il letto Cicerone, la specchiera Cleopatra ribaltati lassù senza cadere; e la mamma e le zie che cominciavano dalle scarpe e finivano con lo chignon dei capelli. Ecco i borzacchini di zia Betta stretti attorno alle caviglie cicciose, le ginocchia che quand’era seduta – come in quel momento – la pinguedine le impediva di congiungere, il suo abito zafferano a piccoli fiori neri dalle ascelle cerchiate di sudore, i tre menti pieni di cipria e la vispa faccia da neonata col neo baffuto sulla guancia. Ecco le calze di filugello bigio di zia Ermelinda, il suo eterno grembiule da conversa, la testa di mosca impaurita coi bandò spartiti a mezza fronte. Ecco le pianelle della mamma col piumino di cigno rosa, la sua vestaglia di finto Giappone a crisantemi e cicogne, il bel viso sempre languido e deluso, come di chi scruti dalla finestra per una persona che non giunge.
«Marietta, le fai andare il sangue al cervello!» ammonì la mamma.
«La mia gattassa…» gridò la serva facendo oscillare la sua vittima come un incensiere; e raddrizzando Silvia con una capriola, se la strinse al collo timbrandola di baci fitti e rabbiosi.
«Quanto mi dai se ti faccio ritrovare un gioiello, Marietta?» suonò la voce di Renzo di sotto al letto.
«Cossa te fet là sotta, baloss?»1 Ricordatasi di quell’altro gettò sul materasso Silvia, che rimbalzò estasiata sulle molle, si appuntò le mani sui fianchi in posa di battaglia. Il pugno di Renzo, sbucando dalle frange della copertura, s’aperse per un attimo a mostrare un orecchino di filigrana e rientrò lesto.
«Il palombaro. Ho pescato un gioiello: se lo vuoi, domani mi fai il pasticcio di regaglie.»
«La mia bòccola… Ven foeura e dàmmel chì subit!» E come non avesse alcuna fiducia di veder eseguito quel comando, corse a impugnare una scopa. Quando s’inginocchiò per sloggiarlo a colpi di ramazza, il ragazzo era già sgusciato fuori dall’altra parte, senza che lei lo vedesse. Renzo era minuscolo per i suoi dodici anni, smilzo e castagno come un violino: vestiva una marinara di cheviot a mezzo polpaccio, con cordoncino e fischietto, in quel momento tutta imbrattata di polvere e laniccio; aveva aggirato il letto in punta di piedi e s’era messo dietro a Marietta, zittendo con la mimica i presenti perché non lo tradissero.
«Adess te consci mì, mosca rabbiosa…» sbuffava la serva rastrellando là sotto con la scopa, delicatamente per timore di colpire. «Hinn quindes dì che cerchi la mia bòccola per tucc i canton… So ben mì! Quest chì l’è on bel mestee del sò usell, signorina Linda: gazza ladra, lo dice il nome. Tra can e gatt e canaritt, sta cà l’è pesg de l’arca de Noè. Dove te seet andaa a casciass, brutt malnatt?… Ma on dì o l’alter gh’i metti tucc in cassiroeula, signorina Linda, parola de la Marietta.»
«Non di venerdì» suonò una voce dalla porta «che ci faresti peccare contro il precetto. Di venerdì potrai friggerci i pesci rossi della beata Ermelinda.»
Era lo zio Panfilo che entrava col nonno Camillo e aveva colto le ultime battute: il suo frizzo permise alle donne di liberar la risata senza svelare la congiura che Renzo ordiva alle spalle di Marietta sempre carponi.
La scopa, nel suo vano frugare, restituì alla luce un cucchiaino da caffè, un ventaglio, un piegabaffi e diverse forcine.
«Pulizie di Pasqua, oggi» disse il nonno raccattando il suo piegabaffi. «Guarda se ci trovi anche un marito là sotto, Marietta.»
«Gli uomini, scior dottor, a dilla con rispett, me stan tucc in sul stomegh.»
«E perché allora ti metti gli orecchini anche sul…»
«Renzo!» tagliò in tempo la mamma mordendosi il ridere in bocca. Renzo aveva appeso l’orecchino alla sottana della serva, bucandole la stoffa e anche i primi tessuti vivi. Lo strillo di lei, la fuga di lui fischiante come un mefisto nello zufolo, l’inseguimento giù pel corridoio di Marietta minacciante vendetta e morte, lasciarono gli altri imperturbati, come se assistessero da un telescopio all’eruzione di un vulcano sulla luna.
«Su, bellezze, lavoriamo» disse la zia Betta battendo tre volte le grasse mani. «C’è ancora tutta la roba d’estate da metter via.»
Le tre donne ripresero a trafficare fra le pile d’indumenti accatastati sul letto, nei cassetti aperti, aiutate anche da Silvia. Le loro mani smistavano con sicurezza il soffice tesoro dell’inverno, volando nell’aria della stanza senza scontrarsi, come uccelli sapienti. Spiegavano le maglie, i panciotti multicolori, le vestaglie color crema o vinaccia, per liberarli dalle scaglie di canfora e verificare che le tarme non vi avessero fatto qualche guasto. Li ripiegavano con una delicata pressione e li riponevano nei tiretti, dove nel frattempo Silvia aveva sostituito sul fondo la carta a fiorami. Quando un cassetto era colmo, tutte e quattro si fermavano il tempo d’un sospiro ad ammirare l’ordine, si scambiavano un’occhiata di approvazione e richiudevano.
«Fa un bel freddo per essere appena ai Santi» disse Enrica mentre ripiegava, puntandola fra il mento e il collo, una camicia da notte. «Il lattaio ha detto che stanotte all’Acquabella è gelato.» E guardò fuori dalla finestra il cielo buzzo e inquieto.
«Venga, signor inverno, si faccia pure avanti!» disse Ermelinda. «Qui c’è lana e felpa per un convento.»
«Trincee contro il freddo» interloquì il nonno cavando la pipa di bocca e palpando con la sua mano marrone una piramide d’indumenti. Alto e gagliardo, dalla fresca voce un po’ muliebre, era bellissimo il nonno Camillo. Sotto la barba candida e ben curata da parer artificiale, i mustacchi e le sopracciglia di biacca, faceva pensare a un giovanotto che si fosse truccato da Carlo Magno per recitare in una commedia di goliardi; e che da un momento all’altro potesse strapparsi quella camuffatura, tra i battimani della platea. Quest’idea che i suoi settant’anni fossero una mascherata provvisoria, veniva rafforzata dal copricapo che gli calzava sulla canizie, sia in farmacia che in casa. Era il bonetto di Garibaldi: quella specie di rossa papalina a ricami che il generale portava anche in battaglia, e aveva regalata a Camillo Lorini in ricordo della campagna di Sicilia. Le azzurre pupille a momenti sembravano perdersi dietro un passato brulicante di fantasmi a lui solo visibili nelle volute della pipa; ma il resto della sua persona – i gesti pronti, la lingua vivace – svelavano che il nonno era bene in sella sul presente, e lo signoreggiava con aurei speroni.
«Questa è sempre stata una famiglia di freddolosi» disse la zia Betta. «Non ci sono che io a fare eccezione: io sudo sempre, anche in gennaio.»
«Per questo ti ho dato in moglie a Panfilo» replicò il nonno. «Calcolai sulle sue freddure per rinfrescarti.»
«Serve meglio il mio ventaglio, papà»; e lo raccolse da una catenella donde le pendeva, sfarfallandolo sul seno a balcone. «Mica vero, tesoro!» Corse a braccia aperte verso il marito: «Il mio sposo è spiritosissimo, caro, caro… Chi me lo trova uno più simpatico?».
Panfilo si lasciò abbracciare senza cavar le mani di tasca. Lungo e ossuto come uno scheletro da farsa, rossiccio, il suo forte strabismo – dietro gli occhiali a pince-nez – impediva di capire se di lassù guardasse la sua tonda compagna o ammiccasse a qualcuno degli spettatori.
«Nessuno è spiritoso per la propria moglie. Anche per questo ho deciso di prendermi un’amante.»
«Sì, anima mia» disse Betta alzandosi sulla punta dei piedi per baciarlo. «Un’amante, dieci amanti. Tutto quello che ti farà piacere, il mio legittimo seduttore…»
«Betta, Gesummaria, la bambina!» protestò la zia Linda inorridita.
«Cos’è un’amante?» domandò Silvia.
«È una specie di schiava abissina che lo zio Panfilo si comprerà quando sarà ricco, con l’obbligo di ridere a tutte le sue baggianate» intervenne il nonno posando una mano sulla spalla del genero.
«Nemo propheta in patria» sentenziò Panfilo. E sbadigliò, d’un tragico interminabile sbadiglio; poi chiuse gli occhi e parve addormentarsi in piedi, le mani sprofondate nel vestito oscillando in un lieve beccheggio, come un pennone di nave alla fonda.
«C’è ancora da ripassare le sciarpe di lana» disse la mamma. In quel momento rientrò Renzo: era a cavalcioni di Marietta, allacciato con le mani sotto il collo di lei.
«Jùh, trotta…» e le cacciava i talloni nel ventre.
«Ven chì, sacranon, se te voeuret vess perdonaa, e dà ona man anca tì. Gh’è de fagh ciappà aria ai paltò e ai prepont; poeu gh’è de tirà foeura i ball de carta dai scarp d’inverno. Gent, come semm indree: hinn giamò i vundes or… Coss’hann combinaa intant senza de mì, sciora Enrica? Ghe sarà tutt de comincià de cap. Renzo, molla sto coll, boia: te me voeuret strozzà? Ven giò!»
Invece di scendere, Renzo s’arrampicò per quella groppa fino a issarsi sulle spalle della donna.
«Da quassù dirigo le operazioni» annunciò; e ghermì a mo’ di briglie le trecce grige di Marietta che s’erano sciolte: bello e ansante, pareva un generalino storico, di quelli col mantello gonfio e la Nike alata alle spalle.
«Scendi immediatamente: Marietta non è un giocattolo e ha da lavorare» ordinò la mamma senza convinzione.
«Che le lassa fà, sciora Enrica. Gh’avaria gust ch’el borlass giò e ch’el se rompess l’oss del coll!» ribatté la serva; e subito addentò teneramente un polpaccio di Renzo.
«Nonno, sembro Garibaldi?»
«Garibaldi ha risposto “obbedisco”» rispose gravemente il dottor Lorini.
«Ai vostri posti di combattimento!» squillò il ragazzo. «Zia Linda e zia Betta, tirate fuori i paltò da Epaminonda. Mamma e Silvia, accerchiate le camicie da notte e fatele prigioniere nel cassetto grande. Marietta… Marietta, tu metti via lo zio Panfilo in naftalina, nel secondo cassetto, che possa dormire in pace fino a quest’estate.»
«Non desidero di meglio» approvò lo spilungone che nel frattempo s’era abbivaccato a occhi chiusi su Madame sans gêne, la poltrona a dondolo. «Sempreché ella mi conceda di svernare nella sua camera, lady Margherita.»
La nonna infatti entrava in quell’istante.
«O che fa lei, signor genero, sulla mia poltrona personale?» disse con quella sua vocina toscana che quando apriva bocca sembrava d’essere a teatro. Puntava contro l’usurpatore l’ombrellino di palissandro dall’argentea impugnatura a testa di cane; e senza riabbassarlo, spostò il puntale in alto verso Renzo sempre equestre su Marietta. «Come ti sei fatto grande da stamani!»
Piccina e lunga di collo, vestiva una redingote a quadretti bianchi e neri: un cappellino dal lungo esprit puntato con uno spillone d’oro sui capelli ala d’oca, intorno alla gola una sciarpetta di martora con la testa imbalsamata e gli unghioli. Sotto la veletta picchiettata di ciniglie, un ricamo fitto di rughe rabescava la bellezza ancora femminile di due occhi da zingara. Dalla sua persona agghindata con un’eleganza da vecchia provincia, si diffondeva un alito di soavità temperato da una frizzante baldanza. Una di quelle donne che se fosse entrata in una taverna nel pieno d’una mischia, con un delicato colpo di tosse avrebbe visto tutti fermarsi coi coltelli in aria e farle ala contriti. “Piccolini, finirete col farvi del male. Piacciono le caramelle d’orzo?”
Anche quella volta, come sempre quando la nonna entrava, fluì nella bocca di tutti un sapore assurdo di meraviglia,...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione. di Alessandro Zaccuri
- IL VELOCIFERO
- Copyright