Matilde Serao nelle Leggende napoletane racconta la storia di una porcellana di Capodimonte. Si parla di statue.
Un nobile invaghitosi di lei (della statua) la scambiò per una bellissima fanciulla.
Abbracciandola la spezzò facendola finire in mille pezzi, un milione, per essere sinceri.
Ogni notte la fanciulla di porcellana si ricompone e rinasce.
Anch’io ho avuto una tresca con una statua ma, per nostra reciproca fortuna, non era di Capodimonte. Era di capo di Copenaghen.
Ho una tresca con la tipa nella vasca.
La tipa nella vasca
è sempre bella fresca.
Non sta in una piscina
la tengo giù in cantina.
La tipa nella vasca
profuma di ventresca.
Non è roba da Grasse
ma solo io ho il suo pass.
La tipa nella vasca
non ha neanche la lisca,
ma coda da sirena,
nella mia vasca piena.
La tipa nella vasca
è una che ci casca
e io, da cascamorto,
con lei sono risorto.
Ho una tresca con la tipa nella vasca.
Quando mi sento solo
e mando a fare in culo
chiunque si frapponga
tra un sorcio e un’anaconda,
la guardo,
lei mi guarda,
la fisso e lei mi fissa.
Non è una trota lessa.
Mi sento il mondo in tasca.
C’è lei dentro la vasca.
Se ancora non capisci
confondi donne e pesci.
Ignori che l’amore c’ha le squame.
Le altre son pattume,
le altre son puttane.
Ho una tresca con la tipa nella vasca.
E allora buona pesca.
E allora buona Pasqua.
Donna da mare
L’amore è musica. È un ballo da sballati. È un paso doble. È un passo falso.
È una danza intima, privata. Depravata da qualcosa di interiore che intuisci avere le interiora solo quando una pulsione viscerale viene sviscerata come una sirena al Mercato del Pesce dei Maniaci.
Fu lì che la vidi la prima volta. In una Copenaghen tutt’altro che wonderful, a dispetto di come credevano fosse Hans Christian Andersen e Danny Kaye.
Il Mercato del Pesce dei Maniaci a Copenaghen è un’istituzione. I peggiori pervertiti ittiologi che si incontravano sui siti web, più che hot, si riunivano come cospiratori, massoni, protocristiani del vizio in un capannone poco lontano dal porto, per partecipare a una sorta di asta in cui si contendevano creature marine a suon di dobloni d’oro, custoditi in pirateschi forzieri, e coinvolgerle in pratiche sessuali poco ortodosse che si concludevano in modo cruento: fritture miste. Poveri pesci.
Fu lì che la vidi per la prima volta... e se non fossi intervenuto sarebbe stata anche l’ultima. L’ultima da viva.
Non mi trovavo nel capannone per scopi di libidine. Non facevo parte di quella cricca di depravati. Ero semplicemente il guardaspalle e becchino privato di Herr Carlsberg, un nome da birra (nessuna parentela, ovviamente), un gusto da latrina, l’organizzatore dell’asta.
Herr Carlsberg era il più piccolo di sette fratelli. Il più piccolo in senso di statura. Praticamente un nano, come quelli che piacciono a Pinketts. Ma anche il più cattivo.
Indossava, per forza, completi su misura, che ordinava da Caraceni o a Cartagena dal sarto cocainomane Escobar. I suoi capelli a caschetto erano biondo platino. I suoi occhietti maligni erano viola come quelli di Liz Taylor ma costellati di venuzze rosse, perché beveva come Richard Burton.
Non potevi prenderlo sottogamba, anche perché ti avrebbe azzannato i coglioni.
Fu lì che la vidi per la prima volta.
Fu un colpo di fulmine, una rotonda sul mare. Quando i nostri sguardi si incrociarono capii che avrei dovuto cambiare datore di lavoro o, quantomeno, nonostante la crisi, mettermi in proprio.
Quel pescecane di Herr Carlsberg, nonostante l’avesse messa all’asta per alzare lo standing, aveva tutte le intenzioni di papparsela lui. Lo si capiva dal suo subdolo occhio di triglia. L’aveva illusa: le aveva promesso di risparmiarla, ma in realtà, dopo una notte di sesso estremo e di disamore perverso, sarebbe stata il piatto più succulento di una grigliata. Di carne e di pesce.
Il mio amore a prima vista danzava sulle note di Wonderful Copenaghen di Frank Loesser. La colonna sonora del Favoloso Andersen di Charles Vidor.
Mi piace il cinema e mi piaceva la tipa.
Il suo posto era il mare. Eppure quella putrida oscena creatura, che rispondeva al nome di Herr Carlsberg, l’aveva messa all’asta in una volgare tinozza. Lei che avrebbe meritato come minimo una vasca, magari da bagno, magari la mia.
Dalle luci artificiali del capannone al buio di una notte senza stelle ma con un bel design.
I danesi sono campioni mondiali dei pesi massimi del design ma non amano il buio. Neanch’io del resto.
I danesi amano il sole, proprio come me che, decisamente, non sono danese.
Ogni rara volta che, durante l’inverno, il sole fa una comparsata di lusso, come un’autentica guest star si concede un cameo, i danesi si riversano per le strade e, nonostante il clima mite come una tigre dai denti a sciabola, mangiano all’aperto prosciugando barili di birra come pesci in barile.
I danesi non sono propriamente astemi. Esattamente come il sottoscritto.
Il 28 settembre 2000 i danesi hanno risposto con un deciso no al referendum sull’introduzione dell’euro. Ai danesi l’euro sta decisamente sui coglioni. E anche su questo siamo perfettamente d’accordo. Anche se io faccio fatica a ricordarmelo.
Non sono danese.
I danesi amano andare in bicicletta, soprattutto in collina e nei bassopiani. Non ci sono montagne. Io non vado in bici. Su questo mi differenzio dai danesi.
Anch’io non ho montagne, ma, come molti danesi, sono una montagna d’uomo.
I danesi, mi ripeto, amano il sole, lo dimostra il fatto che al Nationalmuseet il più amato reperto è il Carro del Sole d’oro di Trundholm.
Questo amore per il sole, per quanto non corrisposto, fa sì che i danesi vengano chiamati “i napoletani della Scandinavia”.
Io non sono danese. Mi chiamo Gennaro. Vi sarà un motivo.
Debutto nella vasca della donna da mare
«Allora Gennaro? Hai predisposto tutto per il trasferimento della ragazza nel mio luogo di ricreazione?» chiese Herr Carlsberg al suo mastodontico tuttofare.
«Mi sto attrezzando. È un soggetto delicato. Una tinozza non mi sembra la soluzione abitativa ideale per una creatura come questa.»
«Stai diventando sentimentale. Come tutti voi napoletani. Il problema è che ti fai distrarre dal busto, dalle tette. Ricordati che non è una signora. È un mezzo pesce, solo un mezzo pesce.»
Gennaro annuì. Ma le sue emozioni erano bagnate a ovest dal Mare del Nord e a est dal Mar Baltico.
Una palazzina residenziale in mattoncini di cotto rossi. Sei piani. Il massimo della statura morale per una città wonderful ma non eccessiva come Copenaghen.
Sei piani di confortevole depravazione. Sei piani tutti per Herr Carlsberg.
Sei piani da dio, sei piani da design. Un ritorno al design danese dell’ormai defunto ventesimo secolo in piena rinascita, in pieno Rinascimento.
Sedie Ant e Swan di Jacobsen, il pioniere del funzionalismo. Un pezzo di donna e un pezzo di pesce in una casa i cui pezzi di arredamento sono firmati Gubi, l’azienda di design che ha arredato il ristorante del MoMa. Poltrone Egg e riproduzioni della lampada di Aladino. Un Aladino pratico, grazie alla lampada PH di Henningsen.
La tipa sguazzava, di controvoglia, in una Jacuzzi. Non era stato semplice convincerla a metterci piede, pardon, coda.
Quando Gennaro, con una certa riluttante amorevole cautela, c’era riuscito, la tipa irriconoscente lo aveva morso.
Ma le storie d’amore, quelle vere, sono succhiotti fatti coi denti.
«Gennaro. Stanotte sono troppo stanco per spassarmela con lei. L’asta mi ha stremato. Dovrei darmi alla finta beneficenza. È meno stressante e altrettanto remunerativa. Forse meno divertente. Trattala bene. Mi raccomando» gli aveva detto infine Herr Carlsberg.
«Cosa devo fare?»
«Gennaro, Gennaro. Ti devo insegnare proprio tutto? Mettila a suo agio. Dalle un assaggio della nostra ospitalità. Con quello che mi è costata non vendendola ai soci del club, vale la pena di tenerla in vita almeno due giorni. Sai, come dite dalle vostre parti. L’ospite è come il pesce. Dopo tre giorni puzza.»
“Che fare?” si chiedeva Lenin. E visto quello che è successo dopo, sarebbe stato molto meglio se non avesse fatto un cazzo.
“Che fare?” mi chiesi.
Avevo più o meno quarantott’ore prima che Herr Carlsberg decidesse di rendere la tipa nella vasca carne morta, pesce morto, dopo avere abusato di lei.
Dovevo prendere tempo e, secondo istruzioni, metterla a suo agio.
«Posso offrirti un drink?»
Mi pentii immediatamente della proposta. Cosa puoi offrire da bere a una sirena? Olio di fegato di merluzzo?
Sirena. Sirena era la parola giusta. Sino a quel momento mi ero limitato a considerarla una tipa, ma in realtà era una sirena.
Sirena. Una dark lady marina, con la parte superiore del corpo formosa e la parte inferiore a forma di coda di pesce.
Sirena. Una seduttrice incallita che sfrutta le sue doti di seduzione sessuale per attrarre giovani sprovveduti, per ucciderli trascinandoli in mare.
Sirena. Un essere dal canto irresistibile, secondo Omero, il primo a menzionarla.
Una figura duale. Sottintendendo, dunque, una coppia.
Per Platone sono addirittura otto. Secondo quest’ultimo ma non ultimo, le sirene sono figli di Phorkys e Keto, fratello e sorella incestuosi della mitologia greca.
Vi chiedete come faccio a sapere tutte queste cose? Semplice: prima di darmi alla malavita ho conseguito la maturità al Sannazaro, il liceo classico più prestigioso di Napoli (ci ha studiato anche Luciano De Crescenzo).
Sirene in ogni luo...