Era una sera d’estate; il sole tramontava; il cielo era ancora azzurro, ma venato d’oro quasi avesse un velo di garza sottile, e qua e là nell’immensità azzurro oro rimaneva sospeso un isolotto di nubi. Nei campi gli alberi se ne stavano maestosamente bardati, con le innumerevoli foglie dorate. Pecore e mucche, bianco perla o pezzate, riposavano a terra o avanzavano lentamente, ruminando, attraverso le erbe traslucide. Ogni cosa aveva un contorno luminoso. La polvere delle strade maestre, sollevandosi, formava un alone rosso oro. Perfino le ville di mattoni rossi erano diventate porose, incandescenti di luce, e i fiori nei giardinetti, lilla e rosa come vestiti di cotone, brillavano quasi fossero illuminati dall’interno. I volti delle persone ferme sulle porte delle case o in cammino lungo i marciapiedi prendevano quella stessa tinta rossa quando facevano fronte al sole che declinava lentamente.
Eleanor uscì dal suo appartamento e chiuse la porta. Il volto le si illuminò alla luce del sole che scendeva su Londra, e per un istante, abbagliata, rimase a contemplare i tetti e le guglie sotto di lei. C’erano persone che chiacchieravano in camera sua, e lei voleva parlare a quattr’occhi con suo nipote. North, il figlio di suo fratello Morris, era appena tornato dall’Africa, ma non le era riuscito di parlargli in privato. Quella sera era venuta tanta gente: Miriam Parrish, Ralph Pickersgill, Antony Wedd, sua nipote Peggy e, come se non bastasse, quel gran chiacchierone del suo amico Nicholas Pomialovskij, che loro chiamavano Brown per fare più presto. Non le era riuscito di parlare privatamente con North. Per qualche istante rimasero fermi nel quadrato di sole che cadeva sul pavimento di pietra dell’ingresso. All’interno continuavano a chiacchierare. Mise una mano sulla spalla di North.
«Sono così contenta di rivederti» disse. «E non sei cambiato…» Guardandolo, scorse nell’uomo massiccio le tracce del ragazzino dagli occhi scuri che giocava a cricket; adesso era cotto dal sole e aveva un po’ di grigio alle tempie. «Non ci devi più tornare» continuò, avviandosi con lui giù per le scale «in quell’orrenda fattoria.»
Lui sorrise e disse: «Non sei cambiata neppure tu».
Eleanor sembrava piena di vigore. Era stata in India. Aveva il viso molto abbronzato. Con i capelli bianchi e le guance scure non dimostrava davvero la sua età; però doveva averne più di settanta. Scesero le scale a braccetto. C’erano sei rampe di gradini di pietra da scendere, ma lei insisté per accompagnarlo fino da basso, per vederlo andar via.
«Senti, North,» gli disse, quando furono nell’ingresso «devi stare attento…» Si era fermata sulla soglia. «Guidare la macchina a Londra non è come in Africa.»
Davanti alla porta c’era una piccola automobile da turismo. Un uomo passava davanti alla porta nella luce della sera e gridava: «Accomodiamo seggiole e panieri!». North scosse la testa; la sua voce fu sopraffatta da quella del seggiolaio. Lanciò un’occhiata al cartello, appeso nell’ingresso, sul quale erano scritti vari nomi. Dopo essere stato in Africa, quella cura con cui si prendeva nota di chi entrava e di chi usciva lo divertì un po’. La voce del seggiolaio svaniva lentamente allontanandosi.
«Be’, addio, Eleanor» disse, voltandosi. «Ci vediamo.» Salì in macchina.
«North, ascolta…» gridò Eleanor, ricordandosi a un tratto di qualcosa che gli voleva dire. Ma lui aveva il piede sull’acceleratore e non la sentiva più. Le fece un cenno di saluto con la mano e lei rimase là in cima agli scalini con i capelli al vento. L’auto partì con un sobbalzo. Gli rese il saluto con un altro cenno della mano, mentre voltava l’angolo.
“Eleanor è sempre la stessa,” pensava North “forse più stramba.” Con il salotto pieno di gente – il bugigattolo era pieno zeppo – aveva insistito per fargli vedere la doccia nuova. “Si pigia su questo bottone, e guarda…” A un tratto erano sprizzati innumerevoli aghi d’acqua. Era scoppiato a ridere e si erano seduti tutti e due sull’orlo della vasca.
Ma le macchine dietro di lui suonavano insistentemente il clacson; non la finivano più. Con chi ce l’avevano? A un tratto capì che ce l’avevano con lui. Il semaforo ora segnava il verde, e lui stava bloccando la strada. Ripartì con una scossa violenta. Non era ancora padrone dell’arte di guidare a Londra.
Il rumore della metropoli gli sembrava sempre assordante, e trovava spaventosa la velocità del traffico; ma dopo l’Africa tutto ciò era anche molto eccitante. I negozi erano meravigliosi, pensava sfrecciando via lungo file di grandi vetrine. E presso i marciapiedi c’erano bancarelle piene di frutta e di fiori. Dovunque abbondanza di tutto… Ecco un altro semaforo che segnava rosso; frenò bruscamente.
Si guardò intorno. Si trovava in Oxford Street; i marciapiedi erano gremiti di gente che si pigiava davanti alle grandi vetrine sfarzosamente illuminate. Dopo il soggiorno in Africa tutta quell’allegria, quel colore, quella varietà gli sembravano inverosimili. In quegli anni, osservò, guardando una fluttuante pezza di seta trasparente, aveva preso l’abitudine alle materie prime: lana grezza e cuoio. E lì c’erano invece gli articoli finiti… Un astuccio di cuoio giallo con le boccette d’argento attirò la sua attenzione. Ma ecco di nuovo il verde; North ripartì.
Era tornato appena da dieci giorni e nel suo spirito c’era una gran confusione. Gli pareva di non avere mai smesso di parlare, di stringere mani e di dire: “Come va?”. Le persone saltavano fuori da ogni parte: suo padre; sua sorella; vecchi signori che si alzavano dalle poltrone e dicevano: “Non ti ricordi di me?”. I bambini che aveva visti giocare s’erano fatti adulti ed erano all’università; le ragazze lasciate con le treccine avevano marito e figli. Tutto ciò lo aveva molto confuso; parlavano tutti così in fretta e certo pensavano che lui fosse molto lento di comprendonio. Aveva dovuto ritirarsi nello strombo di una finestra e domandarsi cosa mai volessero dire, tutti quanti.
Per esempio, quella sera da Eleanor c’era un uomo dall’accento straniero che strizzava il limone nel tè. Chi poteva mai essere? “Uno dei dentisti di Nell” aveva detto sua sorella Peggy increspando le labbra. Già, avevano tutti la loro via tracciata, le loro frasi convenzionali. Ma Peggy – aveva scoperto – parlava dell’uomo silenzioso seduto sul divano, mentre lui alludeva a quell’altro, quello che strizzava il limone nel tè.
«Lo chiamiamo Brown» mormorò Peggy. “E perché poi Brown se è uno straniero? Ma… Ognuno qui vede la solitudine e la selvatichezza sotto un alone romantico.” Un omino di nome Pickersgill aveva detto: «Vorrei aver fatto come lei». Però quel Brown non era come gli altri; aveva detto qualcosa che lo aveva colpito. «Se non conosciamo neppure noi stessi, come possiamo conoscere gli altri?» aveva detto. Si era discusso di dittatori, di Napoleone, della psicologia dei grandi uomini. Ma ecco di nuovo il verde… via libera. Ripartì. E quella signora con gli orecchini che si era estasiata sulle bellezze della natura! Dette un’occhiata al nome della strada sulla sua sinistra. Doveva pranzare da Sara ma non aveva idea di come arrivarci. Aveva solo sentito la sua voce per telefono che gli aveva detto: «Vieni a pranzo da me, Milton Street cinquantadue. C’è il nome sulla porta». Era vicino alla Prison Tower. Però, quel Brown… era difficile assegnargli subito il giusto posto. Parlava, divaricando le dita con la volubilità di chi finisce prima o poi per rendersi noioso. E Eleanor che girava per la stanza con la tazzina in mano, e decantava a tutti la sua doccia. Avrebbe voluto che trattassero un unico argomento, senza divagare. La conversazione lo interessava, purché fosse seria e su argomenti astratti. “La solitudine è un bene? La società è un male?” Sarebbe stato interessante; invece loro saltavano continuamente di palo in frasca. Quando quel grosso signore aveva detto: «La segregazione è la più grande tortura che si possa infliggere» la vecchietta magra dai capelli radi aveva subito cinguettato con una mano sul cuore: «Dovrebbe essere abolita!». Costei dunque visitava le prigioni…
“Dove diavolo sono?” si domandò, alzando gli occhi verso la targa stradale. Qualcuno aveva disegnato sul muro, con il gesso, un cerchio attraversato da una linea frastagliata. North guardò lungo la strada che si perdeva in lontananza. Una porta dopo l’altra, una finestra dopo l’altra, tutte uguali. Un bagliore rossastro si diffondeva su tutta la scena mentre il sole calava tra la polvere di Londra. Tutto era soffuso di un caldo alone giallastro. Lungo il marciapiede c’erano bancarelle cariche di frutta e di fiori. Il sole dorava la frutta; dava ai fiori una brillantezza pastosa; c’erano rose, garofani e gigli. Gli venne quasi voglia di fermarsi e prenderne un mazzo per Sally. Ma altre macchine suonavano il clacson dietro a lui. Proseguì. Un mazzo di fiori, pensò, avrebbe attenuato la goffaggine dell’incontro e delle solite parole d’occasione. “Piacere di vederti… Sei un po’ ingrassata” e così via. L’aveva solo sentita per telefono, e la gente cambiava, con gli anni. Non era sicuro se quella fosse la strada giusta; girò lentamente l’angolo. Si fermò un momento, poi ripartì. Sì, era quella Milton Street, una via buia piena di vecchie case ad appartamenti che però avevano conosciuto tempi migliori.
“Numeri pari da questa parte, i dispari dall’altra” si disse. In quel momento la strada era bloccata da numerosi furgoni. Suonò il clacson. Si fermò. Suonò di nuovo. Un uomo corse alla testa del cavallo che tirava un carretto di carbone e l’animale si rimise lentamente in cammino. Il cinquantadue era più in giù. North proseguì a passo d’uomo e andò a fermarsi davanti alla porta.
Da una casa di fronte veniva la voce squillante di una donna che solfeggiava. Un’altra donna attraversava la strada con una brocca sotto il braccio.
“Che razza di sporca, sordida, miserevole strada. Cosa le è venuto in mente di venirci ad abitare?” Spense il motore, scese dalla macchina e osservò i nomi accanto ai campanelli. Erano l’uno sopra l’altro; alcuni su un biglietto da visita, altri incisi su placchette d’ottone: Foster, Abrahamson, Roberts. S. Pargiter era uno degli ultimi, su una strisciolina d’alluminio. Suonò uno dei tanti campanelli. Non venne nessuno. La donna seguitava a cantare le sue scale salendo lentamente di tono. “La tristezza va, la tristezza viene” pensò North. Un tempo aveva scritto versi, e in quel preciso momento gliene stava tornando la voglia. Pigiò forte il pulsante due o tre volte. Ma nessuno rispose. Allora spinse la porta: era aperta. Nell’ingresso – reso più buio dalla carta scura e sudicia – c’era uno strano odore, come se cuocessero della verdura. Salì le scale di quella che una volta era stata un’abitazione signorile. La balaustra era scolpita, ma ci avevano dato sopra una mano di vernice gialla da poco prezzo. Salì lentamente e si fermò sul pianerottolo, non sapendo a quale porta bussare. Si trovava sempre davanti all’ingresso di appartamenti sconosciuti. Aveva la sensazione di non essere nessuno, di non trovarsi in alcun luogo. Dall’altra parte della strada veniva la voce della cantante che saliva le sue scale, come se le note fossero gradini; ed ecco che a un tratto si era fermata pigramente, languidamente, lanciando in alto la voce, divenuta ormai puro suono. Poi North sentì ridere qualcuno nell’interno dell’appartamento.
“È la sua voce” pensò. “Ma c’è qualcuno con lei.” Ne fu irritato. Aveva sperato di trovarla sola. La donna seguitava a parlare e non rispose quando lui bussò alla porta. North aprì prudentemente ed entrò nell’appartamento.
«Sì, sì, sì» stava dicendo Sara. Era inginocchiata davanti al telefono e parlava; non c’era nessuno. Quando lo vide alzò una mano e gli sorrise; tenne la mano alzata per qualche istante come se il rumore che aveva fatto entrando le avesse fatto perdere qualche parola.
«Come?» diceva al telefono. «Come?» North rimase in silenzio a guardare i ritratti dei nonni sul caminetto. Osservò che non c’erano fiori. Si pentì di non averne portati lui. Rimase a sentire quello che Sara stava dicendo, cercando di mettere insieme i frammenti della conversazione.
«Sì, ora sento… sì, hai ragione. È arrivato qualcuno… Chi? North. Quel mio cugino d’Africa…»
“Sono io” pensò North. “Quel mio cugino d’Africa… Ecco la mia etichetta.”
«L’hai già conosciuto?» Seguì una pausa. «Credi?» Sara si volse a guardarlo. North pensò che stessero parlando di lui e si sentì a disagio.
«Addio» mormorò Sara, e abbassò il ricevitore. «Dice che ti ha conosciuto stasera» esclamò, venendo verso di lui e prendendolo per mano. «E che gli sei piaciuto» aggiunse sorridendo.
«Ma chi è?» chiese North, ancora imbarazzato al pensiero che non le aveva portato dei fiori.
«Un tale che hai visto da Eleanor» spiegò Sara.
«Uno straniero?»
«Sì, un certo Brown.»
North sedette sulla sedia che lei gli aveva indicato e Sara si raggomitolò di fronte a lui con i piedi incrociati. North si ricordò di quella posizione; la ragazza gli ritornava in mente a frammenti. Prima la voce, poi l’atteggiamento; ma restava sempre qualcosa d’ignoto.
«Non sei cambiata» osservò, volendo alludere al volto. Un viso non bello cambia poco, mentre le vere bellezze appassiscono. Lei non sembrava né vecchia né giovane, ma era trasandata, e la stanza era tutta in disordine, con l’erba delle pampas in un vaso nell’angolo. Un appartamento d’affitto ripulito alla svelta, era evidente.
«E tu…» disse Sara, guardandolo. Era come se cercasse di mettere insieme due persone diverse; quella di lui al telefono e quella di lui seduto lì sulla sedia. ...