Ars moriendi
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Ars moriendi

  1. 264 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Pompei, 47 d.C. Una città vivace e caotica, ancora ignara del destino di morte e gloria che l'attende. Il Vesuvio nasconde la propria furia e per le strade è un ribollire di commerci e incontri, non tutti approvati dai pochi superstiti rappresentanti del severo mos maiorum. Protagonista di questa spumeggiante vita mondana è l'avvenente cortigiana Fortunata. Ma la sua bellezza non vale a salvarla dalla crudeltà di uno spietato assassino che uccide le prostitute di Pompei. A nulla sono servite le amicizie altolocate della donna, che tempo prima era stata la favorita di Claudio. Profondamente turbato da questa morte, l'imperatore invia a indagare il senatore Publio Aurelio Stazio perché faccia luce sull'accaduto. E sarà proprio Aurelio a scoprire che Fortunata è solo l?ultima, in ordine di tempo, delle vittime di un efferato "Jack lo Squartatore" ante litteram. Ma non sarà facile svelarne l'identità e consegnarlo nelle mani dell?implacabile giustizia romana.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804640141
eBook ISBN
9788852052064

III

Terza giornata

«Per Diana, Afrodite, Iside e tutte le Dee, questa non ci voleva!» si disperava il senatore il giorno dopo, percorrendo assieme a Castore la stretta arteria verso Porta di Nola. «Come potrò agire indisturbato con Pomponia tra i piedi, pronta a occhieggiare ogni mio minimo gesto per riferirlo con abbondanza di chiose e commenti salaci in tutti i triclini dell’Urbe?»
«Ecco il tuo vero cruccio, domine: non temi di mancare la cattura del maniaco, bensì di fallire la conquista della giovane bruna che frequenta il vestiarius Esquillino Bello!»
Publio Aurelio gettò un’occhiata in tralice all’alessandrino, ma evitò di chiedergli come fosse a conoscenza del suo fugace incontro per non dargli troppa soddisfazione.
Gutta cavat lapidem” sosteneva il proverbio. Alla lunga, anche la determinazione più granitica era destinata ad arrendersi al lento logorio di una goccia tediosa e insistente. Soprattutto se questa goccia si chiamava Castore.
«Il rosa è un colore difficile, domine. Ti suggerisco di scegliere un rosso brillante, per i tuoi regali!» rincarò la dose il greco.
«Venti sesterzi, se mi sai dire qualcosa di quella donna» si arrese Publio Aurelio.
«Un aureo!» fischiettò allegro il segretario.
«Cinquanta sesterzi, non un soldo in più!» rilanciò il senatore.
«Mezzo aureo, non un soldo in meno» ridusse l’alessandrino. Padrone e servo si guardarono in cagnesco e in breve fu chiaro che a fronteggiarsi, in quello scontro di volontà tra un romano e un greco, non erano soltanto i singoli caratteri, ma due mondi, due culture, due diverse visioni della vita.
«Cinquanta, infido greco!»
«Mezzo aureo, barbaro romano!»
«Cinquanta sesterzi, lurido ciurmatore! E se non ti aggrada, tornatene ad Alessandria!»
«Mezzo! O come son veri gli Dei, ci torno davvero!»
«Cinquanta, rifiuto degli angiporti, carne da scudiscio, collo da patibolo!»
«Mezzo, malvagio aguzzino, torturatore di schiavi, carnefice di servi innocenti!»
«Cinquan...» stava per gridare di nuovo il senatore, quando si interruppe di colpo, fulminato da un pensiero improvviso: «Ehi, ma perché litighiamo? Cinquanta sesterzi valgono esattamente mezzo aureo!».
«È vero, domine. Sai, è l’abitudine... eppoi devo tenermi in esercizio» fece Castore liquidando lo screzio con un’alzata di spalle. Quindi aggiunse in tutta fretta, per distrarre il padrone: «Ho saputo che anche il corpo dell’ultima vittima è stato ritrovato nella viuzza nota come Ad Sacellum Album. Dunque avevi ragione tu, non si tratta di un caso».
«No, infatti. Per spiegare le ragioni che spingono l’assassino a uccidere nel Vicolo del Sacello Bianco, non basta invocare il cieco Caso, occorre rivolgersi ad Ananke, la Necessità!» commentò convinto il senatore, fermandosi sotto la testa di Minerva della Porta di Nola.
«Dove stiamo andando adesso?» volle sapere il greco.
«Dalla famiglia di Velasia, che vive non lontano dal luogo del delitto» rispose Publio Aurelio voltando nel cardine alla sua sinistra. «Non sarà un colloquio amabile; per farmi ricevere ho dovuto sventolare ai quattro venti il laticlavio. Dal canto mio parto prevenuto, perché trovo indegno che la famiglia rifiuti di provvedere al rogo funebre.»
«Aulo Tiburzio Pio ha fama di tirchio,» mugugnò il segretario «e le esequie costano. Ma eccoci arrivati, domine
L’edificio doveva avere almeno due secoli di vita, come mostrava la facciata severa che sporgeva protetta dal tettuccio inclinato; dietro alle tegole, un po’ arretrato rispetto al livello stradale, si intravedeva un secondo piano meno massiccio, intervallato da terrazzi e balconi.
«Questo è un quartiere residenziale, totalmente privo di luci notturne» considerò il senatore. «Sarebbe stato facilissimo per chiunque raggiungere il vicolo maledetto e tornare indietro indisturbato. Se a ciò aggiungi che la stragrande maggioranza degli omicidi viene commessa all’interno della cerchia familiare, capirai perché sia tanto ansioso di porgere le mie condoglianze ai parenti» concluse Publio Aurelio bussando al battente.
«I portieri delle antiche magioni sono troppo altezzosi per tollerare la presenza di servi all’ingresso principale, anche quando accompagnano un padre coscritto con tanto di laticlavio. Mi farò aprire dalle ancelle la porta sul retro» propose Castore, sparendo dalla vista prima di farsi notare dall’ostiarius.
Un istante dopo, Publio Aurelio metteva piede nel grande atrio padronale, dove Mulvia, l’austera materfamilias, stava venendogli incontro.
Anche gli uomini più razionali a volte vengono sopraffatti dalla prepotenza dell’istinto; l’annosa pratica epicurea avrebbe dovuto mettere al riparo Aurelio dalle antipatie a prima vista, ma esistevano casi estremi, capaci di neutralizzare in un colpo solo sia gli esercizi di filosofia, sia il semplice buon senso. Mulvia era uno di quelli.
«Ah, il famoso senatore di cui si parla tanto!» esordì la matrona, senza curarsi di nascondere il disappunto per quella visita sgradita: padre coscritto o no, sarebbe stato costume farsi precedere da uno schiavo annunciatore, anziché presentarsi alla porta senza alcuna scorta, come in una taverna di straccioni... «A che cosa dobbiamo l’onore della tua presenza sotto il nostro tetto, illustre Publio Aurelio Stazio?» continuò Mulvia parlando al plurale, quasi avesse alle spalle generazioni e generazioni di Tiburzi, tutti ugualmente alteri e corrucciati.
Dato che la matrona voleva la guerra, l’avrebbe affrontata con le sue stesse armi, decise il senatore: altezzosità, spocchia e prosapia non erano prerogativa dei soli nobilucci provinciali. Prima di rispondere, quindi, attese qualche istante di troppo, giocherellando distrattamente con la fascia purpurea del laticlavio, a sottolineare l’enorme divario che separava un’italica – fosse anche la più aristocratica di Pompei – dall’erede di una delle stirpi più illustri dell’Urbe.
La donna, visibilmente offesa, tamburellò col piede, storcendo il volto nella smorfia disgustata di chi si ritrova all’improvviso un frammento di sterco sotto il naso.
Nulla dell’intima repulsione traspariva invece dal viso del patrizio, atteggiato alla solita maschera di impenetrabile indifferenza.
«Mi dolgo sinceramente del tuo lutto, nobile Mulvia» scandì compunto.
«Risparmiati, senatore Stazio: come vedi non sto piangendo» ribatté la matrona additando il colore vivace delle sue vesti.
Publio Aurelio si sforzò di guardarla, ma per riuscirci dovette fissare un punto imprecisato tra gli occhi. Non che la donna fosse brutta; anzi, nei suoi lineamenti tirati si poteva quasi leggere la memoria di una austera bellezza, sepolta non tanto dal tempo – giacché Mulvia doveva essere appena sulla quarantina – quanto dalla stizza nei confronti di tutti coloro che parevano cavarsela benissimo anche rifiutando di vivere in base ai suoi valori. Nella piega del labbro superiore, velato da una peluria non certo leggera, si concentrava infatti tutto il peggiore provincialismo, coi suoi giudizi aprioristici, il suo rigore ipocrita e il tenace sforzo di perseguire un’agiatezza volta solo a suscitare l’invidia altrui. Persino lo spillone d’avorio che spiccava tra i capelli della matrona – tinti con uno stibium – aveva la forma di un indice minacciosamente alzato, quasi Mulvia intendesse sottolineare la sua intransigenza anche mediante l’acconciatura.
«Perché sei qui?» cedette infine la matrona, mal sopportando l’ostentato silenzio del patrizio.
«Il fatto che tua figlia sia stata ammazzata non è un motivo sufficiente?» replicò Publio Aurelio, gelido.
«Nulla di ciò che è accaduto a Velasia mi riguarda più.»
«Ma riguarda me, il nostro principe Claudio Cesare e la legge di Roma. Quindi, nobile Mulvia, per quanto io sia disposto a starmene ore intere qui in piedi tra gli spifferi, ti consiglio di farmi entrare, in modo da metterti tu stessa al riparo dalla pioggerella uggiosa che penetra dall’impluvium, perché la nostra non sarà certo una conversazione breve!»
Rassegnata ma non doma, la matrona acconsentì con un impercettibile cenno del capo a ricevere finalmente il senatore, che la seguì nei recessi della casa, attraverso l’atrio, il tablino e un grande peristilio su cui si aprivano le stanze di rappresentanza, i cubicoli padronali e la scala che dava accesso al piano superiore.
Oltre l’esedra sul fondo del giardino, si notava una stanza affrescata con le più brutte sfingi che Publio Aurelio avesse mai visto. In mezzo ai goffi bestioni dal viso muliebre, troneggiava un ninfeo due o tre volte più grande di quello di Fortunata: inutile essere ricchi e nobili, sembrava comunicare il massiccio fontanile, quando non si può superare i vicini in dimensioni, se non in eleganza...
Poco dopo, a sottolineare come un ospite sgradito rimane tale anche se indossa il laticlavio, Mulvia additava al patrizio una sella nella cameretta spartanamente arredata dove ogni giorno rivedeva i conti assieme al capo della servitù.
«Velasia era tutta suo padre» disse, aggrottando due rigogliosi ciuffi di pelo che mai avevano conosciuto la benefica azione delle volsellae. «Non scelsi io di sposarlo: le nozze erano state combinate dalle nostre famiglie in modo da risolvere un annoso problema di confini. Tre giorni di matrimonio mi furono sufficienti a capire che mi ero legata a un insipiente, ma ormai il divorzio era impensabile. Pompei non è la capitale, ci avrei rimesso la reputazione. Così sopportai in silenzio, da brava sposa devota...»
Publio Aurelio dubitò che fosse stata proprio così zitta: la faceva piuttosto il tipo di donna capace di corrodere l’amor proprio di un uomo con critiche velenose, paragoni umilianti e continui, martellanti rimproveri.
«Avevo diciassette anni e lui trentanove. Persuaso di essere ancora nel pieno delle forze, mi piantò per andare in mare, promettendo che sarebbe tornato carico di tesori. Naturalmente fece subito naufragio: che altro c’era da aspettarsi da un simile inetto?» Con tutta evidenza, il tapino aveva preferito tramutarsi in boccone da pesci, piuttosto che vivere assieme a una compagna tanto bisbetica, tradusse il senatore, chiedendosi quanto Mulvia avesse odiato nella figlia il ricordo dell’uomo che l’aveva delusa.
«Purtroppo, prima di partire quello sciagurato mi aveva resa gravida. Sebbene io tutto desiderassi fuorché un figlio suo, liberarmene sarebbe stato malvisto: qui non siamo a Roma,» ribadì Mulvia «dove le donne disfano a loro piacere le gravidanze indesiderate. Velasia si rivelò subito un problema, nascendo alla fine di un lungo travaglio che per poco non mi spedì all’Erebo. Due giorni dopo il parto, seppi di essere rimasta vedova e compresi quanto la bambina portasse sfortuna. Tuttavia seppi reagire con forza alle avversità del destino: ero rientrata in possesso della dote e, avendo già dimostrato di essere feconda, potevo affidarmi a un buon sensale perché mi accasasse di nuovo. Come d’uso, contavo di lasciare la bambina al nonno paterno; ma, neanche a farlo apposta, Velasio il vecchio morì poco dopo. Di conseguenza, dovetti accollarmi ancora quel peso indesiderato.»
Più Publio Aurelio ascoltava, più capiva il colpo di testa della ragazza. Come poteva una madre essere tanto indifferente al destino della creatura che aveva messo al mondo? si chiese allibito, mentre il pensiero gli correva a un’altra matrona, che decenni prima non si era fatta scrupoli di consegnare il figlio appena partorito allo sposo vizioso e violento, in cambio di un divorzio liberatorio. Quante volte, dalla lontana Antiochia dove viveva con l’ennesimo marito, sua madre aveva pensato al figlio che cresceva in solitudine nella grande domus sul Viminale? Di lei, Aurelio rammentava soltanto il codicillum ricevuto a sedici anni – con le condoglianze per la morte dell’odiato genitore e gli auguri per il nuovo stato di paterfamilias – e la furia con cui lo aveva strappato poco prima di recarsi al tempio di Giove a deporre la barbula e indossare la toga virile.
«Col consenso di mio suocero» continuò Mulvia «portai la bambina nella nuova casa, un gesto generoso per il quale Velasia non mostrò mai la minima gratitudine.» Nessun accenno al marito defunto, oscurato nei ricordi della vedova dalla figura ben più autorevole del capofamiglia, notò Aurelio. «Più passava il tempo, più si faceva incorreggibile, malgrado i digiuni e le vergate: rifiutò persino di sposare l’ottimo partito, che, bontà sua, le aveva fatto l’onore di chiederla in moglie. Quando fuggì con quel miserabile operaio, non volli sapere più nulla di lei: nel frattempo avevo messo al mondo altre due femmine, devote e irreprensibili, dovevo provvedere a loro. I fatti mi hanno dato ragione: una donna perbene non va a farsi squartare in un vicolo sordido!»
«Dunque non c’è nulla che tu voglia riferirmi per trovare l’assassino di tua figlia?» chiese il senatore.
«Velasia ha cessato di essere tale nel momento stesso in cui ha varcato quella soglia» ribadì Mulvia, rigida. «Ti prego anzi di non nominarla mai più: per il bene della famiglia, spero che venga dimenticata al più presto.»
«Certo è stato sconveniente, da parte di quella sventata, farsi tagliare a pezzi proprio a due passi da casa tua, senza preoccuparsi del buon nome dei Tiburzi!» sibilò il patrizio al colmo dell’indignazione. «Una fanciulla più rispettosa avrebbe senza dubbio chiesto allo Squartatore di andare a massacrarla più lontano!»
Un lampo rabbioso baluginò nelle pupille della matrona, minuscole come capocchie di spillo.
«Senatore Stazio, non mi interessa chi ha ucciso Velasia: se fosse rimasta con me, avrebbe evitato di finire in quel modo.»
«Come ti ho già fatto presente, però, la verità sull’omicidio preme al nostro beneamato principe, i cui desideri contano più dei tuoi. Quindi, nobile Mulvia, è opportuno che io parli anche col tuo attuale marito» insistette crudelmente Aurelio, fingendosi ignaro della sua morte.
«Caio Tiburzio Pio è mancato quattro mesi fa» disse la matrona e fu come se il freddo vento di Borea fosse penetrato improvvisamente nella stanzetta.
«Annegato anche lui?» chiese sfrontatamente il senatore.
«Colpito alla nuca da un cavallo imbizzarrito, in quel di Capua» rettificò velenosa la matrona. «Era un uomo retto e previdente, il migliore degli sposi!» Mulvia lo guardò gelida, reprimendo a stento la collera. «Ciò che fa un uomo fuori di casa è affar suo, una volta che abbia provveduto alle esigenze della famiglia.»
«Magari con l’incasso di qualche localino equivoco... a proposito, che ne è di Aulo Tiburzio Pio?»
«Mio suocero giace da anni nel letto in preda a una paralisi maligna.»
«Pare che ciò non gli impedisca di incassare i pingui prov...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ars moriendi
  3. Personaggi
  4. I
  5. II
  6. III
  7. IV
  8. V
  9. VI
  10. VII
  11. VIII
  12. IX
  13. X
  14. GLOSSARI
  15. Copyright